Domenica,25 agosto ore 17

L’ERDITA’ MOBILE

partecipano:

Alfonso Perez De Laborda,

professore di storia e filosofia delle Scienze presso l’Università Pontificia di Salamanca.

Jean Leclercq,

teologo.

Nella vita per essere creativi bisogna essere fedeli, Chi è fedele alla sua storia, chi la vive guidato solo dalla volontà di apprendere la verità su di sé, riesce trarre dalla profondità insondabile di quell’avvenimento che è la vita, il miracolo sorprendente e inatteso della novità. Ma al tempo stesso per essere fedeli bisogna essere creativi: non basta ripetere le parole del passato, bisogna riviverne lo spirito è questo non è possibile senza un coinvolgimento personale che implica il rischio e il gusto dell’avventura. L’eredità mobile è la tradizione intesa come continuo processo, nell’unità di fedeltà e creatività.

Alfonso Perez de Laborda.

"Però al bruco avevamo insegnato ad essere impaziente; a non credere né al passato né al futuro. Gli avevamo insegnato a credere al presente ed a saziare in esso la voracità del suo appetito". (Gabriel Garcia Marquez).

Uno spettro avanza nel desiderio. Porta giacca, cravatta, ed una visiera rossa. Sporco, allucinato, smarrito. Segue le strade che gli indica la fortuna.: linee nette - perché in quel mondo il deserto era di sabbia, poi di asfalto e alla fine di sentimenti - va continuamente in macchina. E’ smarrito nel tempo. Cerca le sue origini la sua genesi: Paris, in Texas. E’ una ricerca attraverso il ricordo, un fare memoria. Non ha presente, è come un fantasma, perché non ha memoria. Il suo è un presente che si svuota in ogni istante, pieno di istanti sconnessi, senza continuità - pertanto, senza futuro- ed è così perché al suo presente manca il passato. E’ uno spettro scheletrico con una sola ossessione: camminare in avanti, senza senso, o meglio, con un unico senso, seguire le linee geometriche che indicano una direzione - binari, strade, sentieri, i fili dell’alta tensione- come ricerca dell’impossibile, perché si cerca dove non è. Per lui si è chiusa la memoria. Per è questo è quasi un morto vivente, perché siamo carne gravida di memoria. Nel film di Wim Wenders Paris Texas, perché è a questo che mi sto riferendo, si va ricreando la memoria perduta del protagonista, per questo più animale allucinato che uomo. La genialità di questo film consiste nel fatto che questa memoria non si presenta come ricordo, ma come uno sguardo verso il passato sul quale vediamo quello che "accade" in illo temporale, causa inesistente del presente. Il punto fondamentale qui è che il ricordo del passato si fa con la presenza- presenza del fratello dell’allucinato, che lo raccoglie, la lunga e calda presenza del fratello, presenza della cognata, del proprio figlio, ancora piccolo, che è stato adottato dagli zii alcuni anni prima- e con l’angosciante costruzione del presente che scopre essere, in ciò che diventa futuro, passato incarnato. Un passato, quasi scomparso come assottigliamento del presente- di lui rimane solo la foto di un luogo polveroso e un nome, Paris, in Texas- appare nella storia perché si sta facendo futuro nel protagonista così come in noi. Futuro del reincontro col figlio. Futuro incatenato a questo futuro decisivo che si va facendo presente nella meravigliosa conversazione attraverso lo specchio con colei che è stata sua moglie. Qui si riflette su come nasce la libertà di una vita che si assume. In questa storia vediamo come si vanno via via combinando tanti particolari visivi e sonori che ci si presentano nella cronologia della narrazione. Deserto, strade, auto, autotreni, treni che si incrociano, rumori, clacson, luci di motel, albe e crepuscoli, grattacieli, suoni di chitarra. Meravigliosa presenza degli attori, prima quella dell'allucinato protagonista, con, lo sguardo sempre perduto in un'opaca lontananza, e quella del prodigioso finale, pieno di tenerezza, con sua moglie reincontrata per poi, recuperata la memoria, assunta la vita in un presente pregno del passato e luce per il futuro, scegliere una solitudine, un allontanamento dalla moglie e dal figlio, che danno uno spessore di memoria alla carne, tale da farci carne gravida di memoria E la grande epopea del reincontro con la profondità dei sentimenti che costituiscono l'essere umano, che si fanno storia, ma dentro quella complessa realtà che chiamiamo tempo. E’ una storia dell'umanità ciò che in questa pellicola ci viene offerta. E dico una storia dell'umanità, perché è la storia della umanità da un unico punto di vista ma che, come nelle melodie orchestrate da Ravel o suonate all'organo, trascina con sè gli echi che si perdono nella lontananza dello spazio e del tempo. Mi fa piacere che mi sia venuta la parola "spazio", perché lo spazio - lungo ampio, chiuso, piccolo, interminabile, infinito -è il personaggio chiave di Parìs Texas. E passato il 1984. Non sta lì, sicuramente, il nostro futuro, benché lì stia uno dei pericoli più insidiosi e che già corrodono i nostri piedi. Se dovessimo definire l'uomo del 1985 si potrebbe dire molto bene così: "uno spettro che avanza nel deserto". Soprattutto se ci riferiamo all'uomo della nostra Europa. Uno spettro avanza attraverso il deserto, senza destinazione, sciattamente, benché nel suo vestito e nel suo portamento si notino ancora tracce di un'antica compostezza; si indovina che allora conosceva le sue strade. Ora, senza dubbio, benché proceda con identica convinzione, traspare che questa è solo apparente, un'abitudine meccanica, un passo dopo l'altro. Non va ormai più da nessuna parte. Il vestito e la cravatta gli si sono sporcati con la polvere delle strade. Non è altro che uno spettro. Continua e continua, con una volontà incessante, a grandi passi, senza fermarsi un solo istante. Se inciampa e cade, immediatamente si rialza e continua, sebbene in direzione opposta a quella che seguiva. Il suo mondo è deserto. Deserto di sabbia, polveroso, senza vegetazione. Paesaggio senza vicinanze, insterilito. Si è separato dalla natura, l'ha posta sotto i suoi piedi, non per camminare sopra di essa, ma solo per sfruttarla, perché soddisfi tutti i suoi piaceri, i suoi capricci, tutto ciò che lui ha convertito in sue necessità. 1 limiti si sono rotti. Forse nella nostra Europa non siamo ancora coscienti di questa desertizzazione perché creiamo deserto in altri posti, nel terzo mondo, nel sud...Deserto di sabbia. Deserto di asfalto. La città ci pone di nuovo nel deserto. Un deserto popolato, formicolante di esseri che non mi sono simili - eccetto che nell'aspetto esteriore - che mai guardo negli occhi e mai mi guardano negli occhi. Volti che a furia di essere anonimi vanno perdendo la loro struttura di volto. Si trasformano in ostacoli, impedimenti, in una moltitudine di nemici, giacché sempre li incontro, dappertutto, per togliermi lo spazio, soffocandomi senza offrirmi un pò di calore; nemici che mi offrono solo disoccupazione o un lavoro arido e noioso, che presto mi toglie gusto e interesse. Deserto di asfalto. Deserto di sentimenti. Tutto mi conduce a me stesso. Non ci sono volti se non i più vicini. Sentimenti che, per sussistere, devono particolarizzarsi sempre più fino a scomparire. Mancanza spaventosa di queste relazioni di prossimità, d'amicizia e di affetto che creano un ambito favorevole per i sentimenti umani. Perché siamo animali dotati di sentimenti, ma tutto fa sì che questi si reprimano, si rimpiccioliscano, che diventino parchi ed egoisti. Il nostro piccolo io è l'unica cosa che, alla fine, conti. Tutto ci spinge affinché sia così. La meschinità egoista. Di pari passo per un attimo, mentre sussiste, mentre mi riempie, mentre non mi costa, mentre non mi annoia, mentre lo voglio: perché il centro è il mio piccolo io. Tutto ci conduce a lui, e, senza dubbio, siamo così il frutto ultimo di ciò che, tutti insieme, abbiamo costruito come mondo. Personalmente, dunque, non siamo colpevoli: collettivamente, socialmente, noi siamo colpevoli. Deserto di sentimenti. Camminare avanti, ossessivamente, senza senso e direzione. Il camminare è sempre orientato, l'essere umano non può mai smettere di camminare in una direzione. Occorre cercare cartelli, slogans. Occorre seguire linee che indichino direzioni. Non si viene da nessuna parte, non si va in nessun luogo, però ci sono linee geometriche che segnalano una direzione. Le seguiamo. Niente di più, costretti in maniera astratta, come astratti sono i segnali. Sono imposizioni dall'esterno - quantunque, non dimentichiamolo, costruzione dell'uomo - artificiali, non sono segnali di nulla, ma puri sistemi utilitari. E, senza dubbio, si sono trasformati per noi - uomini e donne del 1985 - nel nostro sistema interno di segnalazione, nella bussola che ci orienta il cammino. Sistema, pertanto, astratto, falso in quanto sostitutivo di quello che ci manca, di quello che abbiamo perso nel cammino. Camminare e camminare, alla ricerca dell'impossibile, vano cercare quello che non sappiamo poiché è un seguire astrazioni che finiscono per imporsi a noi, per arrivare ad essere l'armatura che ci sostiene, perché nel cammino abbiamo perso la nostra stessa ossatura, e crolliamo senza un punto di appoggio interno che ci costituisca in noi stessi. Camminare, camminare senza una direzione, avanti, seguendo linee astratte che non ci segnalano altra cosa che se stesse, imposizione esterna; ricerca incessante, ricerca dell'impossibile, perché si cerca dove non c'è. Per questo il nostro uomo - noi stessi, forse -è quasi un morto vivente, perché siamo carne gravida di memoria. Nel mondo che è il nostro si è chiusa la memoria. Mai come oggi nella storia delle generazioni abbiamo assicurata l'infinita molteplicità della reminiscenza di ciò che ci ha preceduto. Conosciamo di più e meglio che in qualsiasi epoca anteriore i fatti, collegati e frammentari, della umanità. La storia umana è per noi come un libro aperto che ci offre i suoi arcani segreti; la storia dell'evoluzione che ha reso possibile la nostra esistenza è anch'essa un insieme delle scienze che ricostruiscono con esattezza il passato della vita: ma ancora, la storia intera dell'universo comincia ad esserci offerta non tanto dalla fantasia ma dalla cosmologia, tra tutte le nuove scienze quella a noi più contemporanea. E, nonostante ciò, nel mondo che è il nostro, si è chiusa la memoria. Il passato, quindi, si è fatto per noi mera reminiscenza, raccolta di ciò che è stato, con tutta l'immensa complessità che porta con sé la storia, tutta la storia, qualunque storia. Perché sorprendersi quindi se assistiamo coi nostri propri occhi alla ricostruzione manipolata di pezzi di storia che conosciamo bene? Perché la ricostruzione storica è opera oggettiva e oggettivizzante suscettibile di essere manipolata da chi detiene il potere o ad esso aspira. La storia, questa storia, è così uno strumento di lotta, politico e viscerale. La si vuole ripulire accuratamente di qualunque traccia di memoria. Oggettività scientifica - come la si chiama - contro memoria. E, nonostante tutto, ciò che costituisce il nostro stesso centro come persona, come uomini, è che siamo carne gravida di memoria. All'uomo d'oggi sembra che sia stata rubata la memoria. Dispone della storia, conosce tutto ed il tutto è unito da uno strano filo che si chiama filosofia della storia. Tutto ci viene offerto e tutto ci viene dato già filtrato, interpretato. Tutto quello che è creato da noi, dagli uomini, viene così convertito in qualcosa da imporre. Siamo così svuotati della nostra stessa "centralità carnale", commemorativa, per essere riempiti della oggettivazione scientifica della storia. Ci si riempie quindi di un vuoto perché ci si svuota con quello che ci viene imposto dai centri del potere estranei alla nostra umanità, ci viene tolto un cuore di carne per rimpiazzarlo con una ragione che ci viene data senza che sia quella nostra; una ragione oggettivante che arriva a noi con il marchio di una manipolazione compiuta dal centro del potere. Tutto ci incita a vivere nell'istante. Per noi non c'è più tempo, bensì un susseguirsi ininterrotto di istanti, sempre rinnovati, sempre precari, sempre sconnessi. Spezzata la memoria, gli istanti sono sganciati e non hanno alcun legame con il passato. Si è fatto di noi dei soggetti meccanici che devono vivere la propria vita come un insieme ininterrotto di istanti da consumare. r Si è ottenuto da noi che fossimo consumatori di tutto ciò che un mondo, oramai ridotto a vetrina, ci offre. Sempre dobbiamo ricominciare il processo: si crea in noi il bisogno, cerchiamo noi la soddisfazione del bisogno. Un bisogno che ogni volta deve riprendersi come ingranaggi del consumo. Un istante bivalente che è sempre uguale a se stesso nella sua astrazione: ci si crea il bisogno, soddisfiamo il bisogno...Memoria e tempo sono strettamente uniti. La memoria recupera il tempo originario, fino al punto che non esiste vero tempo senza memoria. Non c'è memoria dell'istante presente, poiché la memoria è solo di ciò che è già avvenuto. Qualunque memoria si forma attraverso il tempo, poiché solo chi percepisce il tempo ha memoria. La memoria non è una mera sensazione, e nemmeno una concettualizzazione, bensì ciò che si sedimenta formandoci in ciò che man mano diventiamo, mentre il tempo passa. La memoria è di ciò che è già passato ma che, essendo passato, è generatore di ciò che è nel presente. Come indica Aristotele, il ricordo, la memoria si formano attraverso il tempo, e sempre accompagnati dal tempo. Fino al punto che bisogna affermare che non c'è memoria là dove non c'è tempo. E più ancora, non c'è tempo - tempo aristotelico - se non c'è chi lo percepisce, vale a dire, non c'è tempo senza memoria. Resta ancora l'aspetto più importante della memoria, quello che ci offre lo spessore carnale ultimo: fate questo in memoria di me. Nel prima lettera di S. Paolo ai Corinzi troviamo il passo seguente: "Dato che la stessa cosa che io ricevetti dal Signore ve l'ho trasmessa: che il Signore Gesù, la notte in cui sarebbe stato sacrificato prese il pane, diede grazie, lo spezzò e disse, questo è il mio corpo offerto per voi; fate questo in memoria di me. Dopo la cena, fece lo stesso col calice, lo prese e disse: questo calice è la nuova alleanza che Dio stabilisce per mezzo del mio sangue, tutte le volte che ne berrete fate questo in memoria di me". (1 Cor., 11, 23-26).Nella tradizione cristiana, la memoria si trasfigura rimanendo incastonata in un testo eucaristia. Nella tradizione cristiana, la memoria si trasfigura rimanendo incastonata in un testo eucaristico, cioè sacramentale. Più volte nella preghiera eucaristica si dicono le parole: "Fate questo in memoria di me", terminando il racconto della istituzione dell'eucarestia. Non significa primordialmente la reminiscenza di un fatto che ebbe luogo in un tempo originario e primordiale, e che adesso, molti anni dopo, di fronte alle difficoltà della vita, dobbiamo ricordare. E non significa neanche che venga a noi come ricordo di qualcosa che successe e che è per noi un esempio; e che ripetiamo in modo esemplare con il fine di ottenere o anelare a un comportamento imitativo. Il memoriale è una presenza, una presenza reale, un rendere attuale qualcosa che viene dal passato, che oggi però, davanti a noi e tra noi, torna ad avere la realtà che ebbe allora. Il memoriale è una presenza reale di qualcosa che fu e che continua ad essere, che si realizzò in un istante del tempo e che contemporaneamente riempie il tempo stesso. Non è un ritorno al passato, ma una presenza reale, viva. C'è il ricordo, dunque, ma non è pura reminiscenza, bensì memoria che continuamente diviene tra noi carne e sangue. E’ chiaro che non vuole essere neanche uno sguardo indagatore della realtà di ciò che avvenne. là presenza sacra di qualcosa che, naturalmente, è già stato ma che continua ad essere. La memoria è così presenza reale, è incarnazione. In questo modo, il memoriale dà alla nostra vita il suo spessore di carnalità, di profondità abissale, di mistero. Ciò che è passato continua ad essere una presenza tra noi, fino al punto dì essere cibo e bevanda in questo stesso istante, con l'assoluta e reale veridicità dell'oggi, ed ogni giorno ci viene offerta come una possibilità nel presente, come salvezza per il futuro. Perché il memoriale non è semplicemente rendere presente ciò che è avvenuto in passato. E’ molto di più. E’ una possibilità per il futuro, una apertura verso il medesimo. E’ una donazione che perde la sua essenza se rimane rinchiusa dentro di noi poiché serve proprio per rompere i confini, abbattere muri e barriere. E’ una donazione gratuita. Il memoriale è cibo, è spessore carnale ma è anche la possibilità di comunione, di comunità; è divenire commensali. E’ un dono gratuito e gratuitamente dev'essere offerto; è così un aprirsi verso il volto dell'altro, che implora dal profondo della sua sofferenza e della sua miseria. Nel memoriale e nel far memoria devono esserci questi tre elementi. Se ne manca uno, non è memoria, ma un egoismo ingordo; non sarà quindi l'assoluta e reale veridicità dell'oggi, né tanto meno una possibilità nel presente né soprattutto la salvezza offertaci per il futuro. Fate questo in memoria di me. Vuol dire riferirsi a dei gesti, che furono vita, ma che anche oggi sono vita, che furono grido di salvezza ed anche oggi sono tali. La nostra vita diventa così un offertorio, o meglio, un offerta. Cibo, dunque, che si costituisce nella nostra propria carne e nel nostro sangue, offerta e realtà di una nuova creazione, di un futuro che è già cominciato tra noi. Se non l'intendiamo così, la memoria non riesce ad avere per noi tutto il suo profondo significato ....Memoria e tempo. E’ qui che trova spazio la terza parola: tradizione. Perché tradizione vuol dire memoria della comunità, vita comunitaria che deriva dall'antichità, e che viene tramandata a noi per aiutarci in quello che siamo: noi facciamo parte di noi stessi e costruiamo il presente, concepiamo il futuro trasmettendola sempre come un tesoro prezioso. Tradizione dentro la quale ci immergiamo, rendendola nostra, e nello stesso tempo dando il nostro contributo, magari cambiandola, per poi offrirla con le nostre mani a quelli che ci seguiranno. La tradizione non è un talento nascosto sotto terra per evitare di inciamparci, bensì il germe del grano che marcisce per produrre qualcosa di nuovo, di ricco, di diverso. E' una eredità accettata, gestita, vissuta, trasmessa. La tradizione non ha niente a che vedere con il tradizionalismo. t l'assimilazione della memoria comunitaria ed è novità del presente. Non è ripetizione, reminiscenza, o sguardo alle origini nel tempo. Viene trasmesso attraverso di noi ed è una ricchezza che viene data in eredità e che noi ampliamo. La tradizione è, nondimeno, memoria comunitaria.

J. Leclercq

Se viene chiesto a un "vecchio" di parlare della continua giovinezza della vita monastica, è perché, dei 58 anni passati in essa, ha occupato mezzo secolo a studiare la storia della sua spiritualità, della sua cultura, delle sue istituzioni...Un solo elemento è presupposto da tutti questi fenomeni: la durata che implica attesa, pazienza, incompiutezza, in un presente che è sia effimero, se non è votato ad un futuro, sia provvisorio se deve avere un seguito. La continuità, a condizione che essa eviti queste discontinuità, che sono delle fratture, permette la trasmissione di cui ogni individuo, ogni gruppo o comunità è il depositario ed il gerente, questa eredità, questo bene di famiglia, ha una origine ed un destino: tra questo inizio e questa fine il cambiamento che lo caratterizza, inevitabilmente mette in gioco la libertà umana. In ogni istante come in ogni periodo di una tale evoluzione, la possibilità di scegliere e di acconsentire deve assicurare la convergenza di una eredità ricevuta dal passato con uno slancio creatore che anima il presente e prepara l'avvenire. Nel giusto significato del termine, la tradizione altro non è che questo insieme di attività innovatrici: non è servilissimo nei confronti del passato ma fedeltà ai valori spirituali che sono stati ereditati dal passato e che devono essere letteralmente "trasmessi", cioè inviati più lontano, "tramandare", "úberliefern". Questa realtà è talmente ricca di contenuto che è quasi più facile dire ciò che essa non è piuttosto che ciò che essa è: non è la storia, cioè la conoscenza del passato, non è il culto del passato, l'attaccamento al passato perché è passato, come se il passato fosse necessariamente migliore del presente. IR la trasmissione della "Corrente vitale" come dicono i bantù. Nella Chiesa e nel suo maonachesimo è il dinamismo inestinguibile che non cessa di venire dal Padre, dal suo Verbo creatore e salvatore e che lo Spirito mantiene continuamente attivo nell'umanità riscattata. Essa (la tradizione) suppone una grazia ed esige uno sforzo. Una volta, aprendo il primo congresso delle monache e dei monaci di tutta l'Africa, ho avuto l'occasione di proporre e commentare questa definizione: la tradizione è il passato che vive nel presente...Poiché ognuno di noi e ogni comunità vive una storia, la tradizione è essenzialmente creatrice e innovatrice. Tutti conoscono bene quella battuta attribuita al Cardinale Saliège, nella sua età avanzata: "Amo a tal punto le tradizioni, che ne ho create di nuove". E, con il suo consueto modo poetico', Paolo VI ha detto un giorno al monastero di Subiaco: "La tradizione non è un museo, un cimitero, un'archeologia. là una pianta che fiorisce ad ogni primavera, una sorgente che si rinnova senza sosta". E lascio che sia Paolo VI ad aggiungere questa lezione e questo invito che si rivolgono ad ognuno di noi: "Essere fedele alla tradizione non significa legarsi al passato, vuol dire essere animati da una spinta verso la vita e il tempo che viene. Siate candidati all'avvenire! Ma con la garanzia, il bene immenso della fede cristiana". Queste parole cariche di autorità illustrano perfettamente quella che noi chiamiamo 'L’eredità mobile". Prima di considerare come tutto ciò si è verificato nella storia monastica, è importante precisare la nozione di ciò che costituisce contemporaneamente la materia della tradizione, la realtà che trasmette e l'ambiente nel quale si compie: la cultura. Questo termine è inteso talvolta nel significato ristretto di cultura letteraria, intellettuale, artistica. Esso disegna anche ogni attività che "coltiva" cioè che fa crescere, sviluppare, l'uomo e il mondo che lo circonda: dalla cultura del suolo, l'agricoltura, a tutte le forme di vita economica. Oggi la sociologia le dà un significato ancora più esteso: l'insieme dei modi di comportamento, degli atteggiamenti psicologici che denotano l'esistenza di ogni gruppo sociale. Tutte queste nozioni di cultura trovano la loro applicazione nella storia monastica. Tra tutti questi dati c'è spazio per un discernimento che è atto di intelligenza e di libertà. La tradizione è una successione di ragionamenti e di nuovi utilizzi di tutto il dato culturale. Ne risulta un pluralismo, uno sviluppo di esseri differenti che devono accettarsi in ragione dell'unità profonda che viene dalla loro comunità di natura e dalla corrente vitale che costituisce lo stesso Spirito di Dio! Unità che non genera l'uniformità, né nel tempo né nello spazio, tra le società. Come si è realizzato nella vita monastica questo continuo zampillo vitale dell'opera. di Dio e degli uomini? Evocarlo ora non vuol dire fare opera di propaganda né di apologetica. Tuttavia si perdonerà a un vecchio monaco felice di non nascondere che la vita monastica non l'ha affatto deluso.... Durante tutta la storia del monachesimo cristiano, assistiamo a due processi che sono condizioni di solidità e di crescita. Da una parte, c'è l'emergenza di una aspirazione profonda, universale, che viene dalle sorgenti stessa della vita che il Verbo di Dio, eternamente rivolto al Padre, fa sorgere attraverso lo Spirito Santo, in esseri umani che sono immagini di lui stesso:- il monachesimo ha le sue radici antropologiche in questa capacità di cercare Dio, questo bisogno di incontrarlo che il Creatore ha messo nell'uomo fin dall'origine. Da una altra parte, c'è l'assimilazione costante di elementi venuti, non dalla natura stessa dell'uomo, ma dalla cultura che Dio lo ha reso capace di creare a sua volta: l'azione di Dio assicura le radici, l'azione dell'uomo produce l'evoluzione. Questo progresso attraverso i millenni, non si è compiuto senza "crisi". Ma lo slancio vitale che veniva dalle sorgenti - o, più precisamente, dalla sorgente che è Dio - fu più forte di tutti i cambiamenti. Il monachesimo è durato e dura ancora, si diffonde e anzi, nulla lascia prevedere che sia prossimo a sparire. Il monachesimo cristiano, con la ricchezza che gli deriva da ciò che Dio ha rilevato di se stesso in Gesù Cristo, è apparso parallelamente a forme di vita simili che esistevano in molte altre tradizioni religiose. La grandezza della religione dell'Incarnazione fu quella di essere capace di assumere questo, archetipo di vita, di trasformarlo dall'interno, di infondergli una nuova vitalità, tanto da permettergli oggi, di entrare in dialogo, utile da una parte e dall'altra, con le forme pre-cristiane di vita monastica. Il monachesimo è quindi vecchio come la civiltà: nelle società sufficientemente sviluppate perché tutti gli individui non siano interamente assorbiti dalla necessità immediate dell'esistenza, vediamo alcuni di questi individui separarsi - da soli o in gruppo -dall'insieme e spesso manifestare questa separazione mediante un forma qualsiasi di isolamento (claustrazione). Si ritirano così in vista di un bene spirituale che, in un modo o in un altro, è più grande di loro e si dedicano alla recita di testi sacri, alla meditazione, alla preghiera. La loro vita richiede sempre uno sforzo per ottenere il controllo spontaneo dell'ego, cioè quelle che possiamo chiamare pratiche di ascesi e una tendenza a vivere con il minimo di cose, grazie a una forma o altra di distacco o di disappropriazione nei confronti dei beni materiali. Per sottolineare il ruolo e le funzioni di questi individui o questi gruppi nelle società cui appartengono, possiamo ricorrere ad un duplice vocabolario, preso a prestito dal linguaggio della sociologia contemporanea. Innanzitutto si può designare il fenomeno monastico come la manifestazione di un volontario appartarsi che deve però, in certo modo, essere "recuperato" dalla società. Possiamo anche applicare un altro termine del vocabolario sociologico odierno, quello di utopia. Il monachesimo costituisce una "società utopica" - è stato perfino detto che è "un tipo ideale di utopia", di "società immaginaria" - nel senso che offre un modello sociale in contrasto con il sistema circostante: essa mostra ciò che quest'ultimo, al limite, potrebbe diventare o, per lo meno, i valori superiori che deve promuovere... Evocherò qui soprattutto due periodi: il medio evo occidentale e, su scala mondiale, l'ultimo quarto di secolo. In Occidente, il fondatore, -non l'iniziatore, ma, per così dire, "il maestro" - fu un italiano del VI secolo - l'autore della regola di S. Benedetto. La sua legislazione non fa altro che adattare il Vangelo alle condizioni di esistenza di gruppi monastici. Ora questo programma evangelico è stato redatto da un uomo che, come tutti gli altri, esisteva in un tempo, un paese, un ambiente, che hanno inevitabilmente segnato il suo pensiero: il suo merito è stato quello di incorporare le sue intuizioni spirituali in una organizzazione di vita che rispondeva alle esigenze di un momento della storia...C'è dunque nella regola di S. Benedetto, accanto ad un evangelismo puro e autentico, l'espressione di quella che oggi viene chiamata cultura...Il compito dei monaci occidentali attraverso i secoli è stato dunque quello di fare una divisione tra tutto ciò che andava tenuto o lasciato della regola di S. Benedetto. Essi si sono caricati di questo compito non in vista di una fedeltà teorica ad un testo reso assolutamente autorevole, ma sotto l'influenza di una spinta vitale, venuta dallo Spirito di Dio, che permetteva loro di risolvere i problemi concreti che l'esistenza monastica poneva in ogni paese e in ogni tempo. Ancora oggi essi si abbandonano ovunque nel mondo a questo stesso discernimento. Agendo in questo modo, i monaci, dal passato ai giorni nostri, non fanno altro che continuare l'opera intrapresa dall'autore stesso della regola di S. Benedetto. Quando egli, nella prima metà del VI secolo, in Italia, redige il suo codice di vita monastica, si trova già in presenza, per così dire, di tutto un materiale evangelico e culturale, accumulato durante i due secoli in cui l'istituzione monastica cristiana è esistita e ha preso corpo...Nel cuore di questo monachesimo fondamentale, la Chiesa aveva inserito la rivelazione del mistero di Gesù Cristo e aveva interamente trasformato il contenuto di questo sforzo spirituale. Esso aveva anche, in un certo modo, modificato le strutture all'interno delle quali si realizzava questa ricerca di un assoluto. Ma creazione di un monachesimo cristiano non si era realizzata né rapidamente, né con facilità. Erano state necessarie numerose generazioni durante le quali uomini e donne, vescovi e laici, peccatori pentiti e santi si sono sottoposti a delle prove, degli esperimenti, come si dice oggi. C'erano stati successi e fallimenti, eroismi e abusi; a questo proposito si è parlato di "monachesimo selvaggio". E in mezzo a molteplici avanzamenti, e deviazioni possibili e, talvolta, reali, alcuni vescovi e dottori della Chiesa avevano cercato di vederci chiaro, poi avevano approvato, confermato. con la loro autorità ciò che meritava di esserlo eliminato le influenze culturali nocive, tutto quello che non poteva andare d'accordo con il Vangelo. E, così facendo, erano stati ad elaborare poco per volta le istituzioni proprie a un monachesimo cristiano al fine di incanalare il fenomeno monastico, in tale espansione da essere quasi una minaccia. Da tutto questo vasto sforzo di legislazione monastica emerge lentamente un testo che finirà per essere riconosciuto come qualcosa che offre un felice dosaggio di tanti valori provati dall'esperienza, un testo che nessuno cercherà o riuscirà ad imporre ma che si imporrà da solo, senza sopprimere la libertà di coloro che l'adotteranno: la regola di S. Benedetto... L'evoluzione del monachesimo, attraverso il passato più o meno remoto, più o meno recente, ci dà parecchie lezioni: di libertà, perché sì sono dovute fare delle scelte; di modestia, perché nulla è perfetto e mai lo sarà: Dio ci conosce ed è Lui che ci ha fatti, ci accetta con tutti i nostri limiti. Infine di pluralismo: Dio ama la differenza a patto che arricchisca l'unità a immagine della Sua propria vita, che è scambio tra tre Persone il cui amore reciproco crea l'unità. Le differenze tra le persone e i gruppi, come le differenze che esistono fra vari ordini monastici, dobbiamo non solo accettarle, ma capire che sono utili. Lezione di distacco, di humor, che ci impedisca di prendere tutto eccessivamente sul serio, fino al punto di farci pensare che noi e tutti coloro che ci assomigliano siamo gli unici ad avere ragione. Infine, lezione di fiducia in Dio e nella Sua azione, reale oggi come in tutti i tempi. Nell'inferno, così come è stato descritto da una monaca del dodicesimo secolo, Santa Ildegarda, un luogo di castigo speciale è stato riservato a coloro che non hanno saputo amare a sufficienza la loro epoca, quelli che, troppo tristi, non hanno potuto approfittare del loro secolo fustigandone le carenze. Una voce grida loro: "Perché non avete avuto fiducia nella bontà di Dio'. Uno dei requisiti fondamentali per la capacità di trasmettere un retaggio, è amare il nostro tempo. Dal punto di vista della fede, il migliore dei tempi, per ognuno di noi, è quello nel quale Dio ci ha posto, quello che ci ha dato, nel quale noi possiamo darci a Lui... Quanto abbiamo più bisogno di rinnovare il nostro tempo, tanto più abbiamo bisogno di tradizioni. Si tratta di tornare, al di là del passato, alle sorgenti cristiane e, tramite queste, alla Sorgente, a questa pietra che è Cristo, dalla quale sorge per sempre la vita della Chiesa...'Ta Chiesa non può invecchiare", lo Spirito di Dio non può essere spento perché il Vangelo rimane sempre giovane.