Alle radici del bisogno: l’accoglienza incontra

Venerdì 30, ore 11

Incontro con:

Maria Claudia Bonvicini

Giancarlo Diodati

Alberto Maffeo

Rosanna Pianori Conti

Irene Lapicirella

membri dell’Associazione Famiglie per l’Accoglienza.

Moderatore:

Aldo Brandirali

 

Brandirali: Questo incontro è dettato dal desiderio di sentire raccontare dei piccoli fatti nella loro profondità. Stiamo sperimentando che quando sentiamo una storia in cui è descritto qualcosa che è accaduto anche a noi, questo ci muove dentro più di ogni discorso, di ogni progetto. In una lettera scritta agli amici della Fraternità di Comunione e Liberazione dopo aver incontrato le Famiglie per l’Accoglienza e averne sentito i racconti, don Giussani descrive l’emozione provata. Con una profondità almeno per me inconprensibile dice: "Carissimi amici, pochi giorni fa ho partecipato ad un raduno delle nostre 'Famiglie per l’Accoglienza'. Di fronte alla dedizione anche eroica di tanti fra noi mi sono sentito così povero, che ora mi è più facile porgervi il mio saluto con tutta l’umiltà del cuore".

È solo la grande profondità che mette in luce il senso più profondo di tutto questo nostro stare al bisogno dell’uomo, partecipare e condividere con un’altra persona il proprio destino.

Ascoltiamo queste storie che siano nella loro ricchezza capaci di dare a noi un minimo di quella emozione che Giussani ha provato e dice nella sua lettera.

Bonvicini: Quando ho letto il tema di oggi, mi è venuto spontaneo continuarlo: l’accoglienza non incontra il bisogno stesso, ma colui che da quel bisogno ci ha salvato. Io non credo che ci siano persone particolarmente dotate ad accogliere il bisogno degli altri o a confortare il male o il dolore; uno diventa in grado di affrontare il bisogno di un altro o il dolore suo o non suo, solo per l’intuizione che la salvezza è già una realtà.

Di per sé il dolore e il bisogno non attirano proprio nessuno. Fin dalla nostra prima esperienza di adozione è stato chiaro che il motivo per cui noi ci volevamo implicare in quella situazione non era il bisogno di una bambina sieropositiva (considerata allora oltre la soglia della reversibilità della malattia e quindi con un futuro breve davanti a sé) che mio marito, mio figlio di otto anni ed io accoglievamo per sostenerla nei suoi ultimi momenti, quanto la consapevolezza che quella vita aveva in sé i tratti di un bene, di un salvato. La frase che ci ripetevamo e che ci ha spinto era un sì iniziale che mio marito ripeteva dal Vangelo: "Quello che avrete fatto al più piccolo, l’avrete fatto a me", e la sfida per poter fare qualche cosa per lui era data dal poter intuire più chiaramente quella presenza che volevamo da tempo fosse la compagnia della nostra vita.

Più che una scelta è stata una vocazione; quando abbiamo sentito il caso di quella bimba è come se tutti e tre avessimo capito che quello era per noi, come se ci avessero chiamati per nome. Tutto il tempo di attesa è stato vissuto come progressivo abbandono alla sfida di poter vedere più chiaro e più quotidianamente quel volto che già avevamo intuito nella compagnia dei nostri amici. I fatti ci hanno poi progressivamente spogliati di quella spinta di generosità iniziale che forse c’era nel pensare di prendere una bambina sofferente, tant’è vero che quando in istituto mio figlio ed io abbiamo veduto quella che legalmente era già nostra figlia, ci siamo trovati di fronte una che apparentemente non ci voleva perché aveva già subito degli abbandoni, per cui era molto diffidente nei nostri confronti. Ancora di più la scelta si riduceva all’osso, nel senso che, mentre io andavo ad accogliere questa che avrebbe poi portato un scompiglio totale nella nostra esistenza e che non ci voleva, pensavo: "Signore, io sto facendo questo per te, perché sento vera la promessa che da anni sto inseguendo". In seguito le cose sono andate da un punto di vista affettivo molto bene e semplicemente. In ogni caso ancora e sempre di più ci era chiesto di ridurre al senso totale di quell’incontro con Lui il gesto di portare a casa quella bimba, perché la bambina aveva una grande esigenza affettiva, e questo collimava molto con i consigli dei medici.

Ci siamo trovati a dover affidarci completamente al Signore. Mio marito diceva che occorreva sì usare tante cautele, ma il Signore che ci aveva chiamati a questo sapeva dove portarci.

A dispetto di una condizione veramente drammatica alla nascita, noi ci siamo trovati da un giorno all’altro con una situazione totalmente capovolta quando è risultato che il decorso della malattia era risultato positivo oltre ogni possibile aspettativa e che la bambina non sarebbe morta. Il primo pensiero è stato a quanto Dio ci ama. Sentirlo così nel quotidiano, nel concreto per cui non hai più bisogno dei guanti è un’altra cosa che dire che Dio ti ama e ama l’uomo. Questo per forza ha rappresentato per noi come un punto di non ritorno nella nostra esperienza di vita: uno che ha vissuto una cosa così, come fa a non imparare a non dosare per Cristo, a rischiare per Cristo?

Volevo fare poi altri due esempi in cui risulta chiaro che ciò che dà la forza di implicarsi non è lo slancio della propria generosità, ma la possibilità di incontrare il Signore. Sono esempi molto banali perché noi siamo una famiglia normale che non ha grosse risorse a nessun livello.

Mi ricordo che l’anno scorso a Padova è arrivata una famiglia di giovani peruviani che aveva incontrato il movimento in Perù e che cercava lavoro. Un amico ce li ha presentati e ci è sembrata una cosa bella invitarli a casa nostra; siamo stati insieme ma non si riusciva a comunicare a causa della lingua, però era bello vedere che i loro occhi si illuminavano alle stesse parole o alle stesse canzoni per cui si illuminano i nostri. Questo era grande ed io ero contenta. Però si faceva sera e questi non se ne andavano ed io avevo le mie cose da fare, i miei impegni e dicevo: "adesso basta!". Come mi capita quando sono a disagio ho cominciato a sgranare un po’ di rosario e pregando mi è nata questa intuizione: "Perché incontrare qualcuno per meno che per incontrare quel volto che ci ha aiutato ad affrontare la vicenda di nostra figlia?". Così quei due sono diventati veramente due di famiglia, sono veramente cari.

Il secondo esempio è quello della accoglienza nell’occasione bellissima di questa estate dei bambini rumeni. Inizialmente abbiamo aderito perché la proposta ci piaceva, poi abbiamo ascoltato le parole di Padre Pop: "Voi nella vostra casa, in un bambino magari lacero e mal vestito, non accogliete lui, ma accogliete Cristo stesso e la sofferenza di una Chiesa perseguitata". Lì quel gesto ha preso le sue reali dimensioni. Il più determinante per certi aspetti è stato di trovarsi con delle famiglie della mia città, tutte diverse per età e condizioni sociali, con assolutamente nulla in comune se non l’accoglienza dei bambini, trovarsi con gente diversa ed interrogarsi su questa richiesta, perché il punto non era accogliere questi bambini per fargli passare una vacanza, il punto era, come diceva Padre Pop, di accogliere questi bambini perché venissero nelle nostre famiglie ad imparare la fede. Questa domanda abbiamo continuato a porcela con queste persone estranee, ed è stato interessante vedere in molti, anche ormai adulti e quasi anziani, il sospiro di sollievo nel trovare un luogo in cui finalmente parlare di queste cose, in cui finalmente poter dire le proprie difficoltà, i proprio desideri, quanto meno parlare della propria fede personale e della impostazione della propria famiglia e confrontarsi su che cosa significa quel gesto per se stessi. Poi c’è l’aspetto della totale gratuità che un gesto del genere richiede, perché non è facile accettare che un bimbo che viene da te, anche per poco tempo, sia affascinato molto di più dal telecomando che da tutto l’affetto che tu gli dai. Eppure quella presenza ci ha richiamato e ci ha insegnato a ricercare in ogni rapporto quella presenza. Io ho passato molto tempo a dirimere le discussioni tra i due; mio figlio aveva undici anni e quell’altro tredici, e dirimendo le questione dei litigi fra loro ad un certo punto a mio figlio che mi urlava: "Perché io devo fare tutto per lui e lui non fa niente per me?", io ho risposto: "Tu non fai tutto per lui, tu fai tutto per Gesù che per te è morto, affinché tu potessi essere felice". A questa risposta così banale e così semplice ci siamo zittiti tutte e due perché effettivamente quello è il motivo adeguato. Il desiderio nella vita è fare tutto per Gesù che per me è morto perché io possa essere felice.

Diodati: La storia dell’accoglienza nella mia famiglia comincia circa quattro anni fa. Nell’ottobre del 1987 nel mio reparto nasceva Daniele, un bambino di circa due chili immediatamente abbandonato da sua madre affetta da vari disturbi psichici. Venne portato nel mio reparto, male accolto dalle vigilatrici per tutti i problemi che si portava dietro. Daniele risultava affetto da una malattia cutanea visibile, con grosse implicanze di ordine estetico ed una possibilità di peggioramento che lo avrebbe portato certamente ad una morte precoce. Per lui iniziò un soggiorno molto lungo nel nostro reparto; per fortuna le vigilatrici cominciarono ad accettarlo e a giocare con lui.

Tra me e mia moglie nacque una domanda, come evitare al bambino un istituto. Cominciammo a cercare una famiglia che potesse prendere in affidamento o in adozione Daniele. Dopo le prime ricerche ci chiedemmo: "Perché non cerchiamo di identificare noi una possibilità di risposta a questo bisogno che noi abbiamo incontrato per primi?". Ci prendemmo il tempo necessario per una verifica e cercammo tutte le persone disposte ad accettarci dentro una grandissima libertà e questo per noi è stato molto importante nel momento di verifica. La libertà di poter dire un no senza sensi di colpa e nello stesso tempo di dire un sì che non fosse solo il frutto di una generosità o di un coinvolgimento psicologico nei confronti di un bambino che era solo in un ospedale e a cui si prospettava un futuro in un istituto. In questa scelta sono stati fondamentali i nostri amici che ci hanno aiutato a vivere questa libertà e sono stati per noi come le giuste sponde per una risposta che tenesse in conto tutta la realtà, cioè ci facesse considerare la nostra risposta con realismo e non fosse quindi solo il frutto di uno slancio che durante il tempo avrebbe potuto non durare e non consentire di affrontare la fatica.

Ricordiamo un fatto importante. Una mattina andammo a trovare una nostra amica di Bologna che è neuropsichiatra infantile. Avevamo mille domande da farle e aspettavamo da lei risposte giuste per ogni domanda. Uscendo ci accorgemmo che le domande erano aumentate e non avevamo trovato nessuna risposta; lei ci aveva fatto considerare tutto nella giusta dimensione, con un giusto realismo, in modo particolare ci aveva messo di fronte al fatto che la possibilità che Daniele potesse peggiorare come malattia e arrivare quindi alla morte doveva essere qualcosa di cui tener conto, un’angoscia con la quale vivere sempre accompagnandoci a lui. Non avevamo trovato nessuna risposta, però in quel dialogo era venuta fuori la certezza di un sì, la certezza che ormai Daniele era della nostra famiglia.

Daniele è ormai da tre anni nella nostra casa, dall’età di cinque mesi; ora ha quasi quattro anni. È difficile non ricordare un piccolo episodio accaduto nella nostra casa. Una sera, mentre mia moglie leggeva la storia del Buon Samaritano, nostra figlia più grande ha risposto con molta naturalezza, senza che la risposta fosse provocata: "Mamma, Daniele è per noi il nostro prossimo". Questo è stato per noi un ulteriore elemento di aiuto nella scelta.

Cosa è cambiato per me con l’arrivo di Daniele dentro casa? Daniele mi ha insegnato a guardare la realtà come un insieme di circostanze che si fanno incontro e pongono domande e non come il frutto di un mio progetto, come il tentativo, nel caso della accoglienza, di misurare la capacità che uno pensa di avere con il bisogno cui uno pensa di poter dare risposta. La tentazione è sempre questa: di fronte ad un bisogno di misurare la capacità che uno ha di poter rispondere. Invece la diversità, cioè il mistero nel caso di Daniele, si è fatto incontrare da me nel mio reparto e questo per me è stata una cosa molto importante. Avevo sempre fatto i miei progetti di presenza nel posto dove sto, dove lavoro, con i colleghi, con i medici, con le vigilatrici, invitando a momenti e a vari incontri e invece per me la presenza si è rivelata in un bambino che adesso è il nostro terzo figlio.

L’altra cosa importante che Daniele ha insegnato alla famiglia è quella di non sentirci padroni dei nostri figli. Con lui è più facile pensarlo: la precarietà della sua condizione di salute, il fatto che la sua malattia possa cambiare da un momento all’altro non ci permettono di fare dei progetti sul suo futuro e non ci permettono di sentirci padroni della sua vita, perché sappiamo che è in mano a qualcun altro.

Molte persone intorno ci chiedevano: "Ma avete considerato quali problemi può creare agli altri figli un bambino nelle sue condizioni?". Noi ci siamo accorti, in questi anni, che non potevamo fare un dono più grande ai nostri figli di quello di far vedere loro che la casa si apre e accoglie la diversità che incontra. E poi i nostri amici: abbiamo chiesto da subito un coinvolgimento nella nostra storia e l’aiuto è venuto nei termini di una condivisione concreta, non perché venivano loro dentro casa a fare le cose concrete, che potrebbe essere la gestione di un bambino, ma perché anche loro si sono coinvolti in altre storie di accoglienza. È nata un’amicizia, sono nate altre storie di affidamento nelle nostre famiglie, nella nostra città, finché a quest’anno la cosa si è dilatata oltre i confini della nostra nazione ed abbiamo risposto ad un invito del Movimento che richiedeva di creare gemellaggi con presenze di movimento nei paesi dell’Est. Abbiamo conosciuto una comunità di Swidnica con la quale è nata l’idea di fare una colonia estiva a Pescara per i bambini polacchi del loro oratorio. È stato una esperienza bellissima e di una ricchezza grande per tutti noi, per tutti quelli che si sono coinvolti, per tutte le persone che hanno visto questi bambini stare insieme in una maniera diversa, nel cantare insieme, nella presenza a Messa, nell’assoluto silenzio di cinque bambini di quattro o cinque anni, nel loro saper pregare e giocare insieme.

Pensare che tutto questo è nato da quel timidissimo "sì" detto tre anni e mezzo fa, fa scattare in noi un grande ringraziamento per come la grazia per noi si è manifestata. Ripensando all’incontro di ieri sera dedicato a don Francesco Ricci, non posso non ricordare che due anni fa lo incontrai a Forlì e gli feci presente il mio sentirmi figlio perché la mia storia è iniziata nel CLU a Bologna. Lui di fronte a questo disse: "Mi sento a tutti gli effetti nonno di Daniele". Per me è molto bello pensare che adesso lui prega costantemente per questo suo nipotino che è qui in mezzo alla nostra famiglia.

Maffeo: La storia della mia famiglia e dei miei amici è cominciata quasi quattordici anni fa, cioè quando non ero ancora sposato, non avevo figli, non avevo nessuna mia famiglia, perché ero andato a studiare lontano da casa, e facevo finta che i miei genitori non ci fossero tranne quando avevo bisogno dei soldi.

È cominciata lì l’esperienza di accoglienza per me attraverso degli amici che sono stati capaci di accogliere me; il resto è stato quasi una conseguenza, anzi, semplicemente una conseguenza.

Un po’ di anni fa, ci siamo sposati e siamo andati ad abitare vicino a Crema per pura necessità di casa, e lì abbiamo trovato un po’ di gente della zona che viveva la stessa esperienza umana. Ci siamo trovati imbarcati nel movimento con piena incoscienza, avendo ospitato all’inizio un ragazzo per alcuni giorni che sono diventati cinque anni. Poi una coppia di nostri amici ha fatto i primi esercizi della fraternità di Comunione e Liberazione. I nostri amici avevano cinquant’anni all’epoca. Siccome Don Giussani aveva detto che una delle prime responsabilità degli adulti era quella dell’accoglienza ci siamo messi in testa di fare un’opera di accoglienza, seguendo come un ordine e abbiamo deciso di costruire delle case più grandi. A Montecremasco è nata quella che noi abbiamo chiamato la "Cascina", cioè un posto dove abitano tre famiglie con alcuni altri.

La cosa bella e straordinaria che è accaduta a me, a mia moglie e ai miei figli è che sempre di più ci rendiamo conto che noi non possiamo risolvere nessun bisogno concreto e particolare di questi bambini che arrivano se non quello del mangiare e del dormire, dell’avere una famiglia. Noi stiamo facendo semplicemente questo, che non è una cosa straordinaria, perché è la stessa cosa che hanno fatto padri e madri dei miei amici quando eravamo in difficoltà. Cosa che abbiamo fatto tra compagni di studio, e che io ho incontrato in questo movimento. Ciò che noi possiamo fare è continuare a tenere a questa appartenenza, rimanendo sempre più attaccati a ciò che fa vivere noi... e ciò che fa vivere noi, fa vivere anche questi qui.

Vi faccio due esempi, abbastanza recenti. Avevo conosciuto Janek(1) perché era venuto a mangiare a casa mia un po’ di mesi fa per parlarci della sua opera. Si era deciso di dargli una mano, perché aveva bisogno di soldi. Li abbiamo invitati tante volte nella scuola dove insegno per raccontare la loro esperienza e l’idea di fare questa casa per bambini. Quella mattina è arrivata la notizia della morte di un ragazzo a cui noi tutti eravamo attaccatissimi, di nome Andrea, e i ragazzi di fronte a lui erano evidentemente raccolti col pensiero del loro amico. Janek ha introdotto così: "Noi non possiamo togliere questo limite, non possiamo togliere la morte di Andrea, noi possiamo solo condividere il destino". Questo ha segnato il criterio, il modo, la tensione da avere, dallo stare con i bambini, come con gli amici che ho intorno e con la gente ventiquattr’ore al giorno.

Mi ricordo di aver avuto l’Aldo poco tempo fa a mangiare a casa nostra e mi aspettavano perché sono sempre in ritardo. Ero stato fuori mezz’ora a giocare con i miei figli e pare che si siano presi un po’ a botte giocando. Poi seduti a tavola si fa: "Sono un po’ gelosi anche perché sono amati in un modo molto personalistico. Rendi complicato ciò che è semplice. Che cos’è che è semplice? È che tu stia attaccato a qualcuno, a qualche cosa". Il voler bene a questi bambini nasce dal fatto che tra me e mia moglie non c’è desiderio di possesso, ma solo la voglia di seguire insieme una cosa bella incontrata nella vita che si chiama movimento, si chiama Gesù Cristo, tutto il resto è un corollario.

Pianori Conti: Da parecchi anni sono nel movimento, praticamente da quando ero ragazzina e avevo diciassette anni, però ci sono sempre stata seguendo l’andazzo e scandalizzandomi molto delle persone che io pensavo mi tradissero o non mi accettassero.

Più di tre anni fa è cominciata una svolta nella mia vita. Un’amica è venuta a casa mia dicendomi che lei e suo marito avevano fatto domanda di adozione e avevano iniziato un rapporto con una associazione di famiglie che accoglieva bambini in casa. Sapeva che mio marito aveva espresso il desiderio di intraprendere la strada dell’adozione e quindi proponeva anche a me la stessa esperienza. Io ho pensato si trattasse di un gesto concreto e non immaginavo che quello che mi stava proponendo era una storia, con un cammino insieme. Così ne ho parlato con Massimo e siamo partiti per questa vicenda.

Un’assistente sociale ci ha proposto di prendere in considerazione l’affidamento familiare, visto che avevamo già dei figli. Questa proposta mi ha mandato subito in crisi, perché io provavo una grossissima resistenza. Abbiamo cominciato a fare un giro di consultazioni e siamo andati a parlare con don Giancarlo, il quale ci ha detto: "Voi non dovete porvi il problema di fare o non fare chissà che cosa, però vi chiedo di vivere la dipendenza da questa compagnia di amici che vi si è proposta. Vivete il riferimento a loro, perché le cose che testimoniano sono veramente grandi e prima di tutto cambiano la loro vita personale al di là delle cose materiali e concrete".

Abbiamo iniziato a partecipare a questi incontri e io ero diventata un po’ la favola, perché andavo tutta caricata, tutta piena di buoni propositi, con grossi ideali, ma uscivo così smontata da quegli incontri che dicevo: "Questa non è la strada per me". Infatti mi scontravo con una misura che non era la mia, ancora non intuivo che cos’era; era così grande quello che incontravo che mi sentivo inadeguata e superficiale. Però il lavoro che di fatto queste testimonianze mi costringevano a fare sulla mia vita era quello di un riconoscimento. C’era una frase che io prendevo come slogan: "È capace di accogliere solo chi riconosce di essere stato accolto".

Per me pian piano questo è stato il lavoro. Io ho dovuto riconoscere che in tutta la mia vita c’era stato qualcuno, una presenza, per cui ho iniziato a riguardare a tutta la mia vita passata. Ero abituata a scorgervi una serie di fallimenti, di amicizie tradite, mi rendevo conto di una mia incostanza; invece cominciavo a vedere che c’erano delle piccole presenze discrete, sempre fedeli, sempre presenti, cioè qualcuno non mi permetteva di isolarmi, come io per natura, per carattere avrei fatto ed ho dovuto riconoscere che avevo tra le mani una grossa ricchezza, insomma io ero stata costruita, la mia vita era stata costruita per la mia felicità perché in quel momento la mia vita la vivevo felicemente. Questo mi ha generato una grandissima gratitudine, mi rendevo conto che mi ero arrabattata a desiderare tante cose, poi di fatto qualcuno risollevava la mia vita non seguendo quello che io pensavo sarebbe stata la mia realizzazione, ma comunque la realizzava, la portava alla felicità. Questo mi ha anche dato una grande pace. Ho iniziato a smettere di preoccuparmi di che cosa stessi a fare con questi amici, non era più un problema se avrei accolto qualcuno o no, che io avessi resistenze nei confronti dell’affido che credevo di dover smontare: la questione non era questa.

Infatti è successo che ad un incontro hanno dato degli avvisi ed io per la prima volta ho iniziato a considerare che potevano essere una proposta per me. Le proposte era tre, due per due bambini in adozione ed uno per una bimba Down che sembrava inizialmente una proposta di affido. Come sono tornata a casa ne ho parlato con Massimo; inizialmente ero proiettata ad avere finalmente i miei due figli maschi, ma mio marito mi disse: "Diamoci un calmata, proviamo con l’affido, poi eventualmente se è una cosa che va male rinunciamo" perché avevamo sempre la preoccupazione di non essere adeguati. Quando ci siamo informati abbiamo scoperto che questa bimba non era in affido, ma in adozione. Da quel momento mi sono accorta che quel tempo che avevo trascorso con quelle persone non era stato vano, era stato un lavoro che qualcuno aveva fatto su di me e che mi aveva condotto ad aprirmi a questo "sì".

La prima volta che abbiamo incontrato Daniela sono rimasta sconvolta dall’urto del reale. Mi rendevo conto che era accettare che la sofferenza entrasse un’altra volta nella mia vita ed io onestamente ne avevo avuta abbastanza fino ad allora. Comunque la mattina dopo quando ci siamo svegliati, io e Massimo ci siamo guardati in faccia ed abbiamo detto: "Adesso ha un volto" e questo volto era già stampato dentro di noi: era lei, era per noi. Così Daniela è entrata in casa nostra. La cosa più bella è che circa dopo un mese che avevo Daniela e mi sentivo molto affaticata, il Signore mi è venuto incontro. Si è presentata a me la Franca dicendo che tutti i sabati recitavano tra amici il rosario e che da quel sabato lo avrebbero detto da me. Per me è stato come un ricentrare tutta questa esperienza perché è vero che la fatica concreta la porto io assieme alla mia famiglia, però non è una cosa nostra, perché non è nata da noi, dal nostro progetto. Da questo è nata un’amicizia molto forte con queste persone ed una grande condivisione sui problemi che poi via via siamo andati incontrando. Ci siamo dovuti rendere conto che anche questa amicizia ci era stata data, era un gratuito che era entrato nella nostra vita per sostenerci, perché noi non siamo degli eroi, siamo delle persone normali e qualcuno aveva a cuore la nostra fatica. Nel tempo abbiamo sentito sempre più l’esigenza di fare scuola di comunità per ricentrarci nell’appartenenza che ci aveva generato. Ci siamo dovuti rendere conto che il nostro era un gruppo di fraternità nel quale qualcuno ha costruito prima e noi abbiamo dovuto solo riconoscere quello che qualcun’altro aveva già fatto al di là dei nostri desideri e dei nostri progetti. Tutto questo ha messo in moto altre persone. Anche sulla proposta delle vacanze dei bambini rumeni, molte famiglie a Rimini si sono coinvolte. Io stessa che inizialmente non avevo assolutamente preso in considerazione questa cosa adesso ho, ancora per poco, una ragazzina rumena in casa.

Lapicirella: La storia delle nostre famiglie accoglienti delle case che sono nate da queste nostre storie personali d’accoglienza è un’avventura che ha cambiato decisamente in modo radicale la nostra vita ed il ritmo delle nostre giornate.

È cominciata a Firenze quasi otto anni fa, in una serata di Novembre. Una nostra amica che da anni viveva un’esperienza di accoglienza (pur avendo figli propri, dava ospitalità temporanea a bambini in difficoltà), tornando a casa verso l’ora di cena si è imbattuta in una ragazza indiana, con una valigia in mano, vestita da estate e con i sandali ai piedi. Questa è una scena frequente a Firenze. Camminava lentamente sotto il portone della casa della nostra amica ed era visibilmente senza meta. Questa nostra amica non poteva non chiederle dove stesse andando, perché era chiaro che non lo sapeva. La ragazza ha sorriso e non ha risposto anche perché non parlava l’italiano, però questa amica le ha chiesto di salire in casa sua. Lei ha capito e si è fidata, così quella sera è cominciata casualmente questa nostra storia che adesso è più grande.

Questa ragazza veniva dallo Sri Lanka, un paese da molti anni martoriato dalla guerra e dalle difficoltà di sopravvivenza. Era lontana da casa da sei anni e aveva lavorato in quel periodo in Libano, dove molti abitanti di quest’isola di Ceylon si erano rifugiati per trovare lavoro; in Libano aveva lavorato molto e guadagnato poco. Il suo sorriso nascondeva una grande disperazione e così quella sera in casa della nostra amica si è mangiato il riso alla cingalese per festeggiare, e Kanti era molto felice e molto commossa di non essere più sola in una città che non conosceva.

È molto difficile rendere con le parole il cambiamento della nostra vita, di noi stessi ed anche comunicare l’intreccio di emozioni, tentativi, passi, grandi e piccoli, che da quel giorno per me e per i miei amici sono stati compiuti; noi pensiamo che soltanto i fatti possono parlare per noi, perché le case sono dei fatti, dove ogni giorno il nostro cuore viene riportato alla nostra vocazione, alla vocazione di essere accolti noi stessi e quindi di potere in questo modo e solo in questo modo accogliere gli altri.

Nei giorni che sono seguiti all’ospitalità di questa ragazza, una realtà nuova si è spalancata sull’orizzonte di molte famiglie amiche. Centinaia di donne, mamme, ragazze vivevano accanto a noi nel silenzio e nell’indifferenza dei più, dei drammi esistenziali fatti di solitudine, di nostalgia delle loro terre dove spesso avevano lasciato guerre, carestie, genitori, parenti, e di speranze deluse soprattutto. Queste persone non sanno con chi comunicare, non sanno con chi piangere e neanche con chi essere felici, quando hanno qualche ora libera da condividere. È stato questo l’inizio del nostro gesto di condivisione, che ha portato con sé una grande emozione, una commozione per il bisogno scoperto. L’abbiamo scoperto, senza la pretesa di risolvere il problema, abbiamo offerto un’amicizia che piano piano è diventata una storia; abbiamo cercato di condividere i momenti più semplici, più veri della vita degli stranieri nella nostra città, e quindi abbiamo cominciato a cucinare lo zighiny con gli Eritrei, che è il loro mangiare tradizionale e così, mangiando e condividendo questi momenti molto veri e molto semplici, abbiamo scoperto delle storie che si nascondevano nelle varie comunità.

Ricordo con emozione la storia di Gabriella che è stata connotata da quella spontaneità che ha sempre caratterizzato le storie delle nostre famiglie. Lei si è presa cura di una bambina capoverdiana che abitava al piano sopra casa sua; sua mamma viveva alle dipendenze della persona che assisteva e non poteva badare alla bambina e darle quei momenti di gioco di cui aveva bisogno. Allora Gabriella l’ha invitata semplicemente a casa sua perché potesse giocare serenamente in un ambiente più familiare con i suoi figli. Questo ha voluto dire naturalmente prendersi carico anche dei problemi della sua mamma, e quindi non essere in pace fino a quando non ha trovato una soluzione più tranquilla per la bimba e per la mamma; poi la mamma ha avuto un’altra bambina e la Gabriella si è fatta carico completamente della prima bimba, per anni, molto spesso anche della mamma e dell’altra bambina che adesso si sono riunite.

Nella casa di una delle nostre amiche è nata una piccola accoglienza diurna per i bambini le cui mamme non avevano la possibilità di lasciarli nei nidi pubblici, ma soprattutto perché volevano sapere a chi affidavano i loro bambini, perché in questo gli stranieri sono molto esigenti. Così abbiamo partecipato alle feste di battesimo dei filippini che sono feste particolari, gioiosissime. A questo punto non era più sufficiente la casa della nostra amica, abbiamo chiesto una stanza più grande ad una parrocchia che ce l’ha messa a disposizione.

Questo gesto di fronte all’ambiente nel quale ci muovevamo è diventato clamoroso perché non seguiva la logica di vedere la persona come un bisogno. Noi quando incontriamo una persona che è differente in tutto, dal colore della pelle al modo di vestire, immediatamente pensiamo che abbia bisogni diversi dai nostri, invece ha lo stesso identico bisogno, quindi il fatto di accoglierli nel nido ha voluto dire seguire questa logica diversa di vedere la persona come persona. Anche noi abbiamo bisogno ogni tanto di lasciare i figli qualche ora con degli amici che ci possano aiutare in qualche momento di difficoltà; da questi disagi è nata subito una rete di solidarietà che ha avuto anche un altro risvolto fondamentale per noi e per la nostra vita: abbiamo dovuto fare i conti ed imbatterci ogni minuto, ogni giorno nella diversità. Ci siamo abituati al fatto che la sofferenza entrasse nelle nostre case e facesse parte di una quotidianità senza però abituarci ad essa. Questa diversità che incontriamo ogni giorno ha voluto dire essere più uniti, capire e renderci conto che senza la compagnia che avevamo incontrato niente era possibile, e tutto ci sembrava enorme, pesantissimo, con tutta la marea di bisogni che ormai c’erano saltati addosso.

La diversità voleva dire, ad esempio, che durante il ramadan che è la festa religiosa dei somali che ospitavamo nelle nostre case, questi cucinavano solo la notte per 40 giorni. Sentire l’odore di mangiari stranissimi che entrava nelle stanze dei nostri figli, questo era molto faticoso e così abbiamo incontrato proprio una diversità radicale che ci ha portato, per non soffocarci, a non razionalizzare tutto, ad affidarci moltissimo e a non giudicare tutto secondo la mentalità del mondo.

Riscoprire una libertà che è la stessa libertà che ogni giorno il Signore ci fa incontrare all’inizio della nostra giornata: abbiamo capito questo non una volta per tutte; abbiamo dovuto capire ogni giorno, e questo è molto faticoso, che l’opera alla quale eravamo stati chiamati e provocati era davvero perché la nostra vita fosse più felice. Era solo in quella felicità che potevamo venire incontro al bisogno che incontravamo, perché non si incontra un bisogno se non si riesce ad essere veramente molto felici nel soccorrere l’umanità (intendo l’umanità che c’è nella persona, non l’umanità intera).

Così è nata la nostra prima casa che si chiama Casa Santa Lucia che è un grande ambiente nel centro di Firenze, che il Comune ha accettato di affidarci, senza però garantirci nessuna sopravvivenza. Sono dodici posti letto che diventano 14/16, e sono sempre affollati di mamme o di bambini extra-comunitari, di donne in attesa di lavoro, oppure reduci da una malattia, che non hanno nessuna altra possibilità di andare altrove; noi dobbiamo tutti i giorni (sono tre anni che è aperta questa casa) provvedere al vitto ed a tutto quello che concerne le necessità materiali del quotidiano, quindi dalla prima colazione alla cena, ed anche sostenere economicamente il nido, che nel frattempo è diventato molto grande. Abbiamo dovuto chiedere ai nostri amici, alla Provvidenza un segno tangibile e questo lo dicono i numeri: in tre anni, – l’otto settembre sono tre anni che Santa Lucia è aperta –, abbiamo ospitato più di 900 donne, più di 100 bambini, per periodi brevi o lunghi; l’anno dopo, nel ‘90, il Comune ha accettato di affidarci un’altra casa, perché è stato subito chiaro che in questa prima casa le mamme ed i bambini non avevano un luogo idoneo dove stare; così è nata questa Casa San Felice che si trova proprio nel centro storico di Firenze, nella quale abbiamo trasferito immediatamente il nido, che nel frattempo contava la presenza di oltre 20 bimbi, tra quelli delle case, e quelli che venivano da fuori per la giornata.

Aprire questa seconda casa ha voluto dire far diventare la nostra intuizione iniziale, esperienza concreta. Abbiamo capito che un luogo deve essere molto accogliente, una casa deve essere piena di colori, di luce, e possibilmente i cibi devono riempire la casa di odori per poter accogliere e consolare la disperazione e la solitudine di chi è lontano dalle proprie radici e soprattutto di gente a cui si prospettano anni di una vita molto difficile e molto spesso anche umiliante. Però le stesse case non accolgono solo loro, accolgono anche noi, con tutta la nostra fatica di ogni giorno, perché garantiamo 12 ore di presenza, e noi che siamo quasi tutti volontari cerchiamo di condividere ogni momento della vita delle nostre ospiti, sempre più numerose. In una di queste case c’è un punto di ricerca del lavoro ed un centro di ascolto che è aperto tutti i giorni, tutto il giorno, in cui sono passate più di mille persone l’anno per chiedere un aiuto o un soccorso; infatti diamo aiuti economici quando non possiamo accogliere immediatamente, oppure ci occupiamo dell’assistenza sanitaria o delle visite negli ospedali, durante i ricoveri, ed anche soprattutto dell’assistenza sanitaria soprattutto per i clandestini, quelli che non esistono, e quindi non hanno nessun diritto.

L’impeto iniziale si è trasformato in una miriade di risposte, che ci fa chiedere ogni mattina una lucidità, un’energia e soprattutto una gioia, perché altrimenti non possiamo rispondere al bisogno che incontriamo. Le case, come dicevo prima, e le nostre famiglie accoglienti, sono davvero dei fatti, ed abbiamo scoperto così che la gratuità dà frutti molto molto più grandi che non l’assistenza. Adesso molti si sono messi al fianco di queste persone, dai sindacati agli enti d’assistenza; noi siamo soltanto delle persone che vogliono condividere un pezzo di strada con queste persone e quindi non rischiamo niente, mentre chi tecnicizza il bisogno si sente spesso sfruttato, ingannato o anche usato da chi viene con un carico di domande. Noi abbiamo evitato questo rischio, e lo possiamo dire con vero orgoglio, perché su questo abbiamo lavorato molto. C’è davvero un diritto alla misericordia, e questo noi lo vediamo ogni giorno con noi stessi e con in ragazzi in affido e in adozione che sono nelle nostre famiglie. C’è un diritto alla misericordia che è prima, viene prima del fatto che l’altro meriti o non meriti, e c’è una passione per l’uomo che è anch’essa un diritto, che comunque ti cambia e poi cambia il contesto in cui vieni ad operare. Così oggi, che siamo alla vigilia di un’altra apertura (perché abbiamo ottenuto dal comune degli altri locali, per trasferivi il nido, perché tutto sta diventando molto piccolo, ed oggi è un’opera a sé stante, in cui convivono attualmente bambini di 16 paesi del mondo, compresa l’Italia), possiamo proprio dire che è in nome di qualcosa d’altro che si risponde alla sfida davanti alla quale il sud del mondo ci pone, e ci coinvolge sempre di più, è in nome di qualcosa di più grande dei valori della propria cultura e dei propri interessi materiali che gli uomini riescono a riconciliarsi e ad arrichirsi vicendevolmente, a non sentirsi ingannati o sfruttati. Non è la legge Martelli che rende questi uomini portatori di diritti, ma sono semplicemente degli uomini con la nostra stessa domanda di felicità e di infinito.

 

NOTE

(1) Jan Adamowicz, responsabile della Fondazione Aiuto ai Bambini Poveri "Ut unum sint" di Swidnica. Cfr. Fare il cristianesimo, pp. 123-124.