I cattolici e la piena occupazione - l’attesa della povera gente di Giorgio La Pira

di Piero Roggi (Giuffrè Editore)

Presentazione del libro

 

 

Martedì 25, ore 15.00

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Relatori:

Piero Roggi, Ordinario di Storia del Pensiero Economico e di Economia del Turismo presso l’Università degli Studi di Firenze

Stefano Zamagni, Docente di Economia Politica presso l’Università degli Studi di Bologna

 

Roggi: Comincerei con una data: il 21 aprile 1950, quasi 50 anni fa. Malvestiti, un ormai dimenticato, sottosegretario al tesoro definì i dossettiani - quel gruppo di professori, Dossetti, La Pira e Lazzati riuniti da quel grande personaggio che era Dossetti -, fanatici dell’occupazione; Ernesto Rossi, economista e polemista brillantissimo, parlava di La Pira come un santo che in economia fa danni che sono peggiori di quelli che potrebbe fare una qualsiasi canaglia.

Perché riproporre oggi un libro, una storia che parla di fanatici o di santi e di canaglie? Certamente non è per celebrare La Pira - per il quale è in corso un processo di canonizzazione -, ma piuttosto per riproporci una domanda a proposito della dottrina economica o meglio dello strumento di dottrina economica che lui adottò ad un certo momento della sua vita, una formula economica è la più celebre ricetta di politica economica di questo secolo: il keynesismo.

Ci dovremo domandare se questa formula, il keynesismo, è ancora attuale. Parlo del keynesismo e non della sua degenerazione, parlo cioè della spesa integrativa dello Stato, la spesa ausiliaria, la spesa sussidiaria, quella spesa cioè che lo Stato decide di fare quando trova che il potere di acquisto generale della società - la domanda effettiva - è depressa rispetto al livello della domanda aggregata che sarebbe necessaria per mettere in moto la grande macchina produttiva, il cosiddetto livello di piena occupazione. È un’operazione che lo Stato fa nel momento in cui ritiene che la domanda effettiva sia al di sotto della domanda di piena occupazione. È ancora attuale il keynesismo? Apparentemente si direbbe di no. Mi soffermerò su tre punti in modo particolare: il keynesismo oggi non è di moda; non lo era nemmeno ai tempi di La Pira; non è detto che le cose fuori moda siano da buttare o non siano più utili per il futuro.

Il keynesismo oggi è fuori moda. Per rendersi conto di questo basta osservare quello che è successo negli ultimi anni e rendersi conto di un paio di cose che sono accadute. Prenderò come esempi due episodi importanti, la preparazione all’entrata a Maastricht, ovvero l’accordo salariale del 1993. L’obiettivo naturalmente era l’aumento dell’esportazione, l’aumento della competitività: si trattava di diminuire il costo del lavoro per unità di prodotto, e si cercò di controllare con quel provvedimento la crescita dei salari e la crescita dei costi in generale. Il secondo esempio è la moneta unica di questi giorni: il vero problema è quello della competizione con gli Stati Uniti e con il Giappone, poiché si tratta di far sì che le esportazioni europee riescano a tenere il campo con quelle di questi grandi paesi, e per fare questo è necessario abbassare i nostri prezzi europei. Per questo noi abbiamo inventato in Europa una sorta di allenamento interno all’Europa che si chiama Mastricht, che si chiama moneta unica. Abbiamo abolito per sempre le svalutazioni competitive rendendo immobile il tasso di cambio, anzi eliminandolo completamente con la moneta unica, e facendo sì che la competizione non si possa, fra noi paesi europei che svolgere sui costi e quindi sui prezzi, in modo tale che i nostri prezzi europei siano automaticamente, grazie a questa competizione, diminuiti, in modo che si possa vincere la nostra battaglia esterna con gli Stati Uniti e con il Giappone.

Questi due casi dimostrano che il keynesismo è fuori moda, oggi. Le politiche economiche di oggi infatti operano dalla parte dell’offerta, e in modo particolare dalla parte dell’offerta degli esportatori. La politica di Mastricht non ha al centro il problema dell’occupazione; il keynesismo al contrario è più attento alla domanda interna, è attento alla occupazione. La nostra politica economica attuale non è attenta all’occupazione. Il keynesismo non è di moda oggi, perché oggi viviamo in un mondo economico che vuole vincere una guerra esterna e una guerra del domani contro le grandi potenze extra-europee attraverso una selezione spietata all’interno dei paesi europei.

Secondo punto: il keynesismo non era di moda neppure nell’immediato dopoguerra, nel periodo in cui viveva La Pira. Se noi rileggiamo i documenti che stanno in appendice al libro di cui stiamo parlando, ce ne accorgiamo facilmente. C’erano allora due scuole di pensiero, un pensiero ortodosso e un pensiero eterodosso. Il pensiero ortodosso faceva capo a Einaudi, il quale pensava che il destino dell’Italia fosse nelle esportazioni, e pensava che le esportazioni sarebbero state favorite dalle innovazioni tecnologiche sostenute dall’accumulazione del capitale. L’accumulazione del capitale, questo era il dogma einaudiano, si faceva soltanto con il risparmio. Il risparmio a sua volta si poteva fare solo in condizioni di stabilità monetaria e non nelle condizioni di inflazione dell’immediato dopoguerra. Questo fra l’altro fu il motivo per cui nel 1947 Einaudi e De Gasperi decisero di eliminare radicalmente, nel giro di due mesi, l’inflazione. Einaudi pensava che lo sviluppo del’Italia, del nostro paese, sarebbe venuto dall’esterno e il fulcro di questo sviluppo sarrebbe stata una politica di bilancio che stroncasse l’inflazione. Ma c’era anche il pensiero eterodosso, quello appunto dei La Pira, ma anche dei Fanfani. Fanfani è uno storico economico, ha un argomentare di tipo empirico, poco teorizzante, molto attento ai dati concreti. Fanfani partiva da questa premessa: in Italia ci sono due milioni di disoccupati; una fetta di questa disoccupazione può essere eliminata se si attivano i privati, se lo Stato aiuta, sussidia, dà una mano in modo non invadente ai privati. I privati sapranno da sé come attivarsi con la loro fantasia per potere eliminare almeno una fetta della disoccupazione esistente. Rimarrà un’altra parte della disoccupazione, un’altra disoccupazione residua, che dovrà essere eliminata attraverso i lavori pubblici: piano-case, piano di formazione professionale, cantieri di lavoro.

La Pira aveva invece l’idea del consumo ozioso, vale a dire il disoccupato era un consumatore ozioso, che non lavorava. La Pira aveva un concetto del lavoro di tipo metafisico, teologico, nel senso che pensava che il lavoro fosse il modo in cui la creatura collabora al piano creativo del Signore: per questo la disoccupazione, il non lavorare, era un assurdo dal punto di vista teologico. Da un punto di vista economico La Pira utilizzava invece un vecchio strumento della teoria economica: la teoria quantitativa della moneta, che dice che il livello generale dei prezzi è direttamente proporzionale alla massa della moneta in circolazione e alla sua velocità, e inversamente proporzionale alla quantità dei beni che un sistema produttivo riesce a produrre. La Pira diceva che il disoccupato è uno che fa circolare la moneta senza che produca beni, cioè è uno che in sostanza fa aumentare il livello generale dei prezzi vale a dire è un elemento che favorisce la inflazione, e per questo la disoccupazione va eliminata. Va eliminata secondo una frase che ripeteva spessissimo: adeguare la spesa all’occupazione, il bilancio doveva essere modulato e rimodulato per ottenere lo scopo dell’occupazione. Era l’idea della spesa pubblica che poteva essere anche usata perfino, non sempre, in deficit, per fare in modo che si raggiungesse il livello di piena occupazione adeguare la spesa all’occupazione.

In queste due posizioni c’è in germe l’idea della sussidiarietà, un’idea che si era nutrita già dell’antistatalismo di don Sturzo, il quale pensava che il mondo fosse diviso in due grandi settori: gli operai ormai sprovvisti della proprietà, gli imprenditori con la proprietà, e lo Stato che velleitariamente si voleva mettere in mezzo a queste due categorie per ammorbidire i conflitti sociali, uno Stato classista, diceva don Sturzo, plutocratico. Questa idea della sussidiarietà nutrita dell’antistatalismo sturziano, è anche riaffiorata nella Centesimus Annus, l’enciclica prodotta a 100 anni dalla Rerum Novarum, laddove si fa la cronistoria e si spiega perché è crollato lo statalismo sovietico. Il Papa sostiene che proprio in un sistema in cui il socialismo interviene per curare la situazione di conflitto fra le due classi precedentemente descritte togliendo la proprietà privata ai proprietari, ma così facendo mette in moto un meccanismo di scoraggiamento agli imprenditori, i quali non sono più motivati a intraprendere e agli operai uno scoraggiamento e una frustrazione che porteranno poi, attraverso la diminuzione della produttività del lavoro, al collasso complessivo dello statalismo.

Tra queste due scuole di pensiero, all’indomani della seconda guerra mondiale, che si scontarono, vinse la consapevolezza che il paese era un paese a competitività limitata; così fu necessario, soprattutto negli anni Cinquanta e Sessanta, una spesa statale sussidiaria, compensatrice, e fu così che nacquero tutte le autostrade negli anni Cinquanta, soprattutto nel decennio che io chiamerei il decennio fanfaniano. Fu così che l’insufficienza privata fu in qualche modo compensata dal braccio di sostegno dello Stato.

La considerazione finale, il terzo punto, è tratta dall’esperienza storica. Nella partecipazione alle competizioni, a quelle di ogni tipo, anche alle competizioni economiche, credo sia giusto che si vada per vincere; però dai grandi protagonisti dello sport noi dovremmo imparare anche un’altra virtù, la virtù dell’umiltà, e riconoscere che c’è sempre, almeno una parte di noi, pur nella vittoria, che perde. Bisognerebbe riconoscere che sconfitta e vittoria insieme sono inscritte contemporaneamente e simultaneamente dentro ciascuno di noi e dentro ciascun paese, e inscritte anche dentro l’Italia di Mastricht. Così, io credo, accanto alla teoria della competizione vittoriosa, noi abbiamo il dovere di coltivare anche una teoria che raccolga i ritardatari e come teoria per la cura degli ultimi il keynesismo, vale a dire quello che richiama alla sussidiarietà dello stato all’economia civile.

Zamagni: Vorrei ricordare di La Pira un altro aspetto, che non è secondario: La Pira è stato membro della Costituente, uno di quelli che hanno, assieme ad altri, dato un contributo alla nostra carta costituzionale. Ma soprattutto La Pira è stato membro di quel gruppo di giovani studiosi che si riunirono per circa un anno e mezzo, quasi due anni, a Camaldoli. Al termine del quale lavoro venne fuori il cosiddetto Codice di Camaldoli. Ed è importante che si colleghi il Codice di Camaldoli con la Costituente e con la Costituzione. Occorre però eliminare il luogo comune in base al quale la nostra carta costituzionale sarebbe quasi completamente debitrice nei confronti del Codice di Camaldoli: la mia tesi è esattamente l’opposto. Quello che c’è nel Codice di Camaldoli e che poi è passato nella Carta Costituzionale è molto poco, troppo poco rispetto allo sforzo di elaborazione culturale di questo gruppo di giovani studiosi e in generale rispetto anche alla forza reale che nel paese nostro c’era in quel periodo di tempo. In altre parole, i cattolici nell’immediato dopoguerra seminarono molto, ma raccolsero molto poco se giudichiamo il racccolto in termini della Carta Costituzionale. Un esempio notevole di questa sproporzione tra il momento della semina - Codice di Camaldoli - e il momento del raccolto - la Costituzione - è proprio La Pira. Se noi andassimo a rileggere gli interventi di La Pira al Codice di Camaldoli e della Costituente, e andiamo a confrontarlo con quanto poi è emerso nella carta costituzionale, anche un cieco o un sordo dovrebbe prendere atto di una discrasia. Eppure è ancora dominante nella nostra cultura italiana il convincimento secondo cui la Carta Costituzionale del ‘48 è nata su principi del cattolicesimo democratico, dell’impulso dei cattolici.

La Pira aveva un obiettivo: dare lavoro alla gente. Non dare lavoro ai disoccupati perché questi avessero un potere d’acquisto con cui sfamarsi: bisognava invece dare il lavoro perché il lavoro è fondativo della persona, è ciò che consente all’essere umano di essere se stesso. Ecco perché interessa a La Pira fare la battaglia per la piena occupazione, che lui chiama pieno impiego. La Pira, che economista non è, si pone il problema che non è avanzata, quanto meno civile quella società che non garantisce a tutti i suoi cittadini un lavoro, perché è attraverso il lavoro che l’essere umano conosce se stesso e conoscendo se stesso realizza se stesso. Ovviamente non essendo un economista doveva aggrapparsi a qualcuno per sostenere a livello politico una tesi di questo tipo. Fosse stato economista probabilmente avrebbe elaborato una sua propria teoria. Non essendolo, si serve di Keynes. La Pira chiama Keynes il Galileo dell’economia, perché Keynes incarna una concezione del modo di fare politico-economico e quindi dell’intervento dello Stato in economia che è essenzialmente anti statalistico.

Una seconda osservazione riguarda il contributo di La Pira come membro della Costituente e di La Pira membro del gruppo del Codice di Camaldoli. Nel Codice di Camaldoli al paragrafo 23 si dice che i compiti devono essere quelli di lasciare a tutte le forze e attività che compongono il mondo sociale la libertà nella loro vita, cioè la possibilità di svolgersi secondo le leggi della propria natura; mantenere, perché questa libertà possa esplicarsi, la più esatta eguaglianza degli individui, delle famiglie, dei gruppi intermedi dinanzi alle leggi, e cioè impedire che si stabiliscano e si mantengano privilegi positivi o negativi a favore di alcuni e a danno di altri. Questo è scritto nel Codice di Camaldoli: è di una freschezza enorme, perché oggi è ancora più vero di allora. Il compito dello Stato è di lasciare a tutte le forze che compongono il mondo sociale la libertà nella loro vita. Questo vuol dire lasciare la possibilità di svolgersi secondo le leggi della propria natura: ogni corpo intermedio nella misura in cui incorpora una certa visione del mondo delle cose, deve essere rispettato in quello. Questa concezione è molto pregnante, ma di essa non passa sostanzialmente niente nella nostra Costituzione: una prova la si ha nell’intervento che La Pira fece nel marzo 1947 alla Costituente, in cui illustrava questo brano del Codice di Camaldoli. A un certo punto mentre parlava, la sinistra, ail partito comunista di allora, capeggiato da Palmiro Togliatti, segretario del Partito Comunista, membro anche lui della Costituente, rumoreggiando comincia a fischiarlo. Allora lui chiede a parole il silenzio e dice,: "Io posso rispondere, è una Costituzione umana, perché essa indaga obiettivamente la struttura dell’uomo, e l’uomo è fatto così, c’è poco da fare, perché Dio esiste. L’uomo esiste e la realtà del corpo sociale si articola in quelle maniere e così le realtà. La Costituzione si adatta a questa realtà strutturale (la Costituzione deve adattarsi a questa realtà e non viceversa) umana e sociale. Quindi è umana. La casa costruita secondo il principio cristiano è una casa fatta per tutti gli uomini di buona volontà, credenti o non credenti, perché è fatta per l’uomo". I resoconti stenografici dicono che dopo questa risposta si fece silenzio perché tutti rimasero un po’ scioccati, pensavano di intimorirlo fischiando.

Nella concettualizzazione di La Pira e degli altri personaggi, come Dossetti con cui La Pira ha un raoporto molto stretto di lavoro, è molto chiaro che lo Stato è per l’uomo e non viceversa. Quindi la società civile viene prima dello Stato. Ci sono due concetti di società civile, una è di matrice hegeliana, l’altra ha le sue radici addirittura in Aristotele e percorre tutto un lungo itinerario fino ai teorici del personalismo. Secondo l’impostazione hegeliana, la società civile viene dopo lo Stato. È lo Stato che deve legittimare la società civile. Per l’altra concezione invece è vero il contrario, la società civile viene prima dello stato. È la società civile che per raggiungere gli scopi che si dà riconosce allo stato certi poteri di intervento, anche coercitivi, ma lo Sstato appartiene all’ordine dei mezzi, e non all’ordine dei fini. Il gruppo a cui appartiene La Pira lotta in questa direzione. È particolarmente interessante un intervenoto di Dossetti e La Pira del 9 settembre del 1946 alla prima sottocommissione della Costituente: "La sottocommissione, esaminate le possibili impostrazioni sistematiche di una Dichiarazioni dei Diritti dell’Uomo esclusa quella che si ispiri ad una visione totalitaria, la quale faccia risalire allo Stato l’attribuzione dei Diritti dei singoli e delle comunità fondamentale ritiene che la sola imposazione veramente conforme alle esigenze storiche cui il nuovo Statuto dell’Italia debba soddisfare è quella che: primo, riconosce la precedenza sostanziale della persona umana rispetto allo Stato; secondo, riconosca ad un tempo la necessaria socialità di tutte le persone le quali sono destinate a completarsi e perfezionarsi a vicenda mediante una reciproca solidarietà economica e spirituale. Anzitutto in viarie comunità inermedie disposte secondo una naturale gradualità: comunità familiari, territoriali, professionali- religiose e, quindi, per tutto ciò in cui quelle comunità non bastino, lo Stato".

È qui chiaramente enunciato il principio di sussidiarietà; ebbene, questa posizione della prima Sottocommissione di Dossetti e La Pira venne fatta letteralmente a pezzi nella Costituzione, in cui non passò assolutamente niente.