"Ragazzi del ’99. Tracce d’esperienza
cristiana nelle scuole"

a cura di Davide Rondoni (Ed. Guaraldi)

Introduzione di Gianni Mereghetti. Postfazione di Luigi Giussani

Presentazione del libro

Mercoledì 25, ore 15.00

 

Rondoni: Ragazzi del ’99 è un libro particolare, perché non racconta nulla di inventato, ma attraverso alcune lettere narra un’esperienza in corso. Quando ho ordinato il materiale e ho scelto tra le numerosi lettere quelle da pubblicare mi hanno colpito due cose. La prima è che le persone che raccontano la loro esperienza sono tutte diverse, non tanto per città, luogo, condizione, quanto per temperamento: ci sono i timidi, i più estrosi, quelli più estroversi, quelli che hanno paura della propria ombra e quelli che, invece, non hanno apparentemente paura di niente. Qualcosa però li accomuna: un’esperienza che in qualche modo lascia a ciascuno la propria diversità. La seconda cosa che mi ha colpito è quello che diceva Charles Péguy: automaticamente crescono solo le patate. Noi uomini non siamo patate. Nel libro questo si vede bene, perché le persone testimoniano un loro acquisto, una loro crescita, qualcosa che hanno capito in più rispetto a prima. In questo modo hanno provato a mettere in moto la loro libertà, e mettendo in moto la libertà, sono cresciuti, non automaticamente: questo è vero a quindici anni come a trenta, come a cinquanta.

Pontiggia: L’idea di pubblicare questo libretto è nata dallo stupore che gli adulti hanno avuto nel leggere le esperienze di alcuni ragazzi, fatti e non racconti, che esprimevano le dimensioni, la coscienza, i fattori che sono in gioco nella vita cristiana, così come noi oggi cerchiamo di viverla in quella compagnia che noi chiamiamo "il movimento". L’idea è nata da don Giussani, perché quando andavo a trovarlo, leggevo alcuni interventi che facevano gli studenti durante le riunioni che facevo con loro; lui rimaneva sorpreso per la pertinenza e per la profondità con cui esprimevano il fatto di Dio in mezzo a noi che cambia la vita, la vita di tutti i giorni. Rimaneva così commosso, mentre eravamo a tavola insieme, da esclamare che occorreva imparare da loro. Questo libretto, infatti, non è per i ragazzi, è per tutti; a meno che i ragazzi siano una stirpe diversa dall’uomo. Ogni uomo che volesse essere serio con la propria vita trova un’illuminazione, un aiuto in una esemplarità così semplice ma così attinente alla vita.

C’è un secondo motivo che ci ha mosso a realizzare il libro: queste lettere, per contrasto, apparivano e appaiono, la dimostrazione del disastro in cui la nostra società sta vivendo, soprattutto la nostra società italiana. Questo disastro ha una origine profonda che è il tentativo di eliminare dalla vita la storia, la coscienza, la tradizione del popolo. L’emblema di questo è proprio la riforma della scuola di Berlinguer; con l’ultima sortita della eliminazione della religione nelle scuole e la discussione cavillosa sulla distinzione tra cristianesimo e catechismo, si è smascherato. Ha risposto bene, in questo caso, Baget Bozzo su Il Giornale: "Caro Ministro lei non si ricorda che l’Occidente nasce e cresce proprio sulle basi religiose, culturali e morali del Cristianesimo". Quando un uomo non sa chi è, quando non sa da dove viene, cosa è avvenuto prima di lui, è facile preda dell’istinto; il criterio di rapporto con il presente è l’istinto, e l’istinto è dominato, coltivato e utilizzato dal potere. Leggendo queste lettere viene spontaneo dire che oggi si sta compiendo un delitto, eliminando la possibilità che i giovani conoscano, incontrino, si rendano conto della ricchezza che c’è nel loro passato. Su La Repubblica Eugenio Scalfari, in risposta a un altro articolo di Pietro Citati suoi giovani, sosteneva che "la ferita dei giovani è stata il silenzio dei padri troppo impegnati nella conquista del successo e del potere", senza però riconoscere la sua complicità nella costruzione di questa società e senza dire che cosa hanno taciuto i padri, che cosa tacciano i padri oggi ai figli, che cosa tacciano gli adulti ai giovani.

Qualche mese fa un genitore di un mio alunno, dapprima arrabbiato, mi ha fatto leggere una lettera di suo figlio. Il padre accusava il figlio di essere attaccato alla compagnia di Gioventù Studentesca; il figlio gli ha scritto: "Papà ti ringrazio di tutto quello che mi hai dato e riconosco che è molto, anzi moltissimo. Ma con loro ho scoperto il significato di tutto, lo scopo della mia vita, senza del quale anche con tutto quello che mi hai dato non posso essere felice". Mi è venuta in mente l’affermazione di Gesù: "Che serve all’uomo guadagnare il mondo intero se poi perde se stesso?" Gli ho poi detto che l’educazione non è la comunicazione di una serie di istruzioni per l’uso, l’educazione è invece la comunicazione di una vita, di una tradizione che ci precede nel tentativo di rendersi sempre più conto della vita.

Il libro nella postfazione, ossia nella conclusione, presenta un inedito di don Giussani del 1980: già nel 1980, don Giussani diceva ai giovani che la radice dell’impoverimento della vita è l’eliminazione della presenza del destino. Il destino equivale alla parola Mistero e l’eliminazione del Mistero rende la vita precaria; come scrive Oriana Fallacci nel suo romanzo Un uomo: "L’amara scoperta che Dio non esiste ha ucciso la parola destino". Negare il destino è però arroganza, affermare che noi siamo gli unici artefici della nostra vita è follia. Noi stiamo vivendo questa follia. Il nostro Ministro della Pubblica Istruzione sta addirittura organizzando e teorizzando questa follia. Se la radice di tutto è la parola destino, se la radice di una posizione diversa è la parola senso, scopo di certa cultura è uccidere questa parola e, di conseguenza, far sì che non esista il problema dei giovani. Tutti i giornali parlano dei giovani, ma senza parlare dell’uomo: i giovani sono ridotti ad un problema o a categoria, così vengono emarginati.

I più piccoli, sono uomini piccoli, non piccoli uomini piccoli. Certe volte mi domando, alla mia età e con i miei ritmi ormai rallentati, come faccio a stare in mezzo ai giovani. Non mi possono legare gli interessi, le attività sportive o ludiche, non ce la faccio più. Quando mi faccio questa domanda capisco che c’è un interesse profondo che lega me ai giovani: io, come loro, sono fatto e sono in cammino verso il destino, verso lo scopo. Questo unisce, questo elimina l’età, anzi l’età diventa una ricchezza, una reciproca ricchezza. Infatti i giovani sono come l’echeggiare più sensibile dei nostri disagi di adulti. Noi adulti abbiamo però un certo antidoto contro quello che per i giovani è più spontaneo domandarsi: gli affari. Citati nell’articolo menzionato afferma questo: "I giovani di oggi non vogliono diventare maturi, giocano, rallentano i tempi della crescita, non amano il tempo, L’unico loro tempo è una serie di attimi che non vengono legati in una catena o organizzati in una storia". Come se tutto fosse un gioco.

Che cosa è il gioco? Il gioco non è definito dall’oggetto che stai usando, ma è definito dal rapporto che hai con un oggetto, con qualsiasi cosa. Don Giussani ne Il senso religioso scrive che ciò che caratterizza il giocare con un oggetto è un nesso con uno scopo non adeguato. Quello che distingue gli adulti dai giovani non è il fatto che gli uni giocano sul serio in borsa e gli altri non giocano seriamente perché danno un calcio al pallone: la vera differenza è il rapporto che chiunque stabilisce col pallone o con la borsa. Non si può capire il rapporto con un particolare se si toglie il destino della vita; se la vita non ha nessuno scopo, tutto è gioco, tragicamente tutto è gioco. L’educazione non è convincere ed addestrare l’altro a passare al mio gioco, ma è comunicare all’altro il senso ultimo per cui ogni cosa non è un gioco. Quello che mi colpiva delle esperienze di questi ragazzi è proprio che la loro vita non è un gioco. La testimonianza delle loro lettere è che la vita è un compito e che felicità e libertà non sono un divertimento, ma realizzazione di questo compito. Nessuno dice questo, tutti vogliono che partecipiamo al loro gioco. Quando sento il telegiornale e parlano certi personaggi, soprattutto i magistrati e il Presidente della Camera, il tema è sempre quello delle regole del gioco. I ragazzi giocano quando stanno insieme ad una ragazza perché non implicano il senso ultimo di quella ragazza; questo gioco l’hanno imparato dai grandi che hanno inventato anche il modo di sospenderlo col divorzio.

Che cosa ha permesso a quelli che hanno raccontato i fatti della loro vita di togliersi dal gioco e di cominciare a vivere la vita come risposta al destino? Un incontro con una presenza paterna che comunica una vita carica di senso, di significato. Questa è la risposta che nessuno di coloro che parlano dei giovani ha mai potuto immaginare. L’eccezionalità della loro esperienza non è in loro, non sono loro, ma è eccezionale l’incontro che hanno fatto, eccezionale nel senso di imprevisto e corrispondente a ciò che sono come esseri umani. C’è un libro che sta facendo faville in America, un libro di una psicologa infantile, Judith Rich Harris, tradotto in Italia dalla Mondadori con il titolo significativo Non è colpa dei genitori. La nuova teoria dell’educazione. Il libro sostiene che i figli imparano più dai coetanei che dalla famiglia. Gli americani, furbescamente, si sono messi a posto la coscienza di fronte alle stragi che i loro figli hanno fatto e continuano a fare. Come se il problema fosse l’ambiente e i coetanei, e non, invece, la rarefazione di presenze paterne.

La fragilità dei giovani sta nell’inconsistenza degli adulti e nel potere che emargina ed elimina sempre di più la possibilità di un autentico incontro.

Francesca: Il mio nome è Francesca e vengo da Varese dove ho frequentato il quarto anno magistrale. Chi leggerà la lettera che ho scritto ed è contenuta nel libro si renderà conto che quel che ho fatto non dipende dalla mia bravura e dal mio coraggio. Non mi sento una specie di Rambo, semplicemente ho incontrato la verità: per questo mi sento di dirlo a tutti, e mi sono sentita di iniziare un cammino con le mie compagne a scuola, per dare anche a loro la possibilità di incontrare quello che io ho incontrato.

Daniele: Sono passati vari mesi dagli avvenimenti di cui racconto nel libro e da quell’assemblea, durante la quale alcuni compagni mi dissero che si facevano le canne perché volevano dimenticare, volevano evadere da quella che è la vita di tutti i giorni, da quella che è la scuola, la famiglia. Sono sempre più convinto che questo non sia il problema dei giovani, ma di tutti.

Mi è successo, con gli amici del mio gruppo, di mettere in piedi una recita in dialetto. Subito tutti quelli che ci stavano intorno dicevano: "Che bravi questi ragazzi, fanno quest’opera, si danno da fare". Quando facciamo la caritativa, si sentono le stesse frasi: "Che bravi questi ragazzi, fanno questa buona azione, come sono bravi, come sono cristiani". La gente non capisce che non è questo il motivo per cui noi agiamo: il motivo sta molto più dietro, nella soddisfazione nostra, nel fatto che noi siamo appassionati alla vita, alla vita tutta intera. Questo ovviamente include tutto: i rapporti con gli amici, il problema della droga. Questo, soprattutto, non ci fa chiudere gli occhi di fronte a niente.

Cesana: Questo libro sembra la risposta all’invocazione di ragazzi che hanno sentito gridare forte il loro nome nell’incontro con Cristo: si sono sentiti inseguiti come volpi e si sono lasciati prendere con i piccoli eroismi che questo richiede loro, nelle classi, con trovate geniali. Per far vedere quanto è grande il cristianesimo basta togliere ogni riferimento cristiano da tutto quello che c’è, e si capisce che i libri, il mondo, le cose si riducono a niente. Lo si fa vedere con osservazioni acute, come quella di Pietro di Modena: "Accade questo paradosso; cioè tutti ci combattono a morte, combattono a morte le nostre idee, ma non possono fare a meno di non sentirsi coinvolti nella nostra amicizia tanto che a un mio compagno di classe con cui nelle discussioni di classe, nelle assemblee di classe non trovo mai un punto d’accordo, cioè mi dà sempre contro, durante la presentazione delle liste a lui è scappato detto noi, perché è intervenuto in difesa della nostra lista, e ha detto "noi"".

Aver risposto ad una chiamata, a qualcuno che chiama per nome, affrontare questa risposta in un mondo ostile, dentro una realtà adulta che, da come viene descritta nelle lettere, appare molto piccola e un po’ impazzita, è un cammino. L’invito che fa don Giussani, contenuto nella postfazione del libro, è molto semplice: "Come è strano, difficile, faticoso, riprendere coscienza di noi stessi, della vita, del vero, riaccorgerci di verità per cui la vita sussiste, si muove. Ma occorre volerla, questa fatica". Don Giussani raramente dice: "Dovete volere la fatica"; e specialmente non dice mai: "Dovete far fatica", perché bisogna innanzitutto essere disponibile a fare fatica. E continua: "Occorre volerla questa fatica, perché possiamo riprendere contatto con verità che sono luce per la vita".

I ragazzi del ’99 erano la generazione di mio nonno Giovanni: dopo la sconfitta di Caporetto, l’Italia, paese stremato, ridotto completamente alla fame, ha chiamato alle armi i ragazzi di diciassette anni, e li ha mandati a combattere. Li ha mandati a combattere e a sacrificare la vita. Anche i giovani d’oggi, non so se ne abbiano coscienza, sono chiamati alle armi, probabilmente molto prima dei diciassette anni, alle armi di una guerra invisibile, di una guerra subdola, di una guerra il cui scopo è anestetizzare il cervello, ovvero impedire di rendersi conto di che cosa si è al mondo a fare e di chi si è. Questa guerra diventerà sempre più dura, diventerà sempre più importante, perché le riforme del Ministro Berlinguer sono semplicemente uno zucchero di fronte al modo in cui sono state ridotte la scuola americana, la scuola inglese e tante altre scuole, dove è stata tolta ogni forza di proposizione, ogni capacità di proporre un’esperienza con cui confrontarsi. I ragazzi sono dentro questa guerra, stanno facendo sulla loro pelle questa guerra. E in questa guerra possono lasciarci le penne; le penne, non nel senso della vita biologica, ma le penne nel senso della coscienza, della consapevolezza di sé. Per questo dobbiamo aiutarci. Noi adulti, più grandi, dobbiamo aiutare i più giovani, e i giovani devono aiutare gli adulti non lasciandoli tranquilli con la loro domanda continua e insistente.

Occorre volerla questa fatica. La fatica, nella vita, è inevitabile, e quella che si fa a scuola adesso è solo l’allenamento, bisogna impararlo da subito. Che uomini siamo? Che gente siamo, che si scoraggia al primo botto sfavorevole, alla prima contraddizione? Come si farà, a fare i figli, a tirarli grandi, a costruire una società, a rimettere in piedi una Chiesa che sta sparendo? Bisogna precisare, comunque, che non è la fatica che forma, come non è la guerra che costruisce, ma è la ragione per cui si fa questa fatica. Le fatiche sbagliate sono quelle inutili, tutte le altre fatiche sono giuste. Perché il mondo non lo abbiamo fatto noi, il mondo, la vita, le cose, non sono nostre; per confrontarci con esse, per viverle, dobbiamo affrontarle e lavorare, cioè dobbiamo fare fatica, dobbiamo consumarci, dobbiamo consumare e dare lietamente la vita.

È vero che non ci sono tanti esempi, però, se non ci sono esempi bisogna darsi da fare a cercarli, non bisogna lasciare più in pace nessuno. Questo libro è la dimostrazione che si può fare.