Novecento: sogno e realtà - Quando la morte non vince

 

 

Mercoledì 26, ore 18.30

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Relatori:

Wanda Poltawska, Membro della Commissione Pontificia per la Famiglia e della Commissione Pontificia per la Vita

Alberto Riva Posse, Psicoanalista

Giacomo B. Contri, Presidente dello Studium Cartello e Psicoanalista

 

Poltawska: La morte è un tema che sembra essere lontano da voi giovani, mentre invece dovrebbe essere il più vicino possibile, perché la morte dà un senso della vita. Nella mia esperienza personale questo tema è sempre stato presente. A Dublino, mia città natale, già nel novembre 1939, io e un gruppo di ragazze scout abbiamo giurato di lottare per la liberazione della nostra patria contro l’occupazione tedesca. Dopo due anni, nel febbraio del ’41, sono stata arrestata con altri, portata in un campo di concentramento dove ogni giorno avevo la possibilità di osservare la morte ed anche di vedere come i tedeschi applicassero la pena di morte su ragazzi di 19 e 17 anni (il più giovane ne aveva addirittura 14). I medici hanno anche approfittato di noi come materiale di esperimento: questo mi portava a pensare alla morte, perché ero sicura di morire. Sono stata mandata via dall’ospedale del campo di concentramento perché il medico pensava che fossi morta dalla fame: in quel momento sono stata trattata come cadavere.

Queste vicende mi hanno portato a decidere di essere medico e di studiare psichiatria per capire come la persona umana - persona che ha tanti doni intellettuali e spirituali - possa talora agire in modo tale da distruggere altre persone. Questa curiosità mi ha fatto studiare medicina appena uscita dal campo di concentramento, anche contro i miei talenti, perché in realtà sono molto più interessata verso le scienze umanistiche che non verso quelle biologiche. Ma volevo sapere chi è l’uomo, per questo ho studiato medicina e mi sono specializzata in psichiatria della gioventù.

Il mio campo di lavoro va dai 14 ai 24 anni, ma i problemi della gioventù mi hanno portato - lavoravo al consultorio per la famiglia - anche ad occuparmi di conflitti matrimoniali e problemi del genere. Questo mio lavoro dopo la guerra si è indirizzato prima di tutto verso lo scegliere la vita come tale, la vita di ognuno, prima di tutto dei bisognosi come i piccoli bambini non nati. In campo di concentramento ho avuto occasione di osservare come buttassero via bambini di donne incinte imprigionate: le hanno lasciate partorire, e poi hanno buttato via i bambini nel fuoco. Questo per evitare di far abortire la donna, perché l’aborto la fa soffrire fino a impedirle di lavorare. Vedendo queste cose, ho promesso a me stessa "se sarò viva tutta la mia vita, sarà consacrata per difendere la vita", e non solo la vita biologica ma la vita interiore che c’è dentro di noi, questa vita che è più importante di quella corporale perché persona umana in fieri est. La persona umana diventa più matura: maturare significa diventare ciò che il progetto divino ha progettato. La santità coincide con la maturità.

Lavorando con la gioventù, voglio mostrare loro in quale modo salvare i valori più profondi come la vita, l’amore, la castità. Per lavorare con la gioventù abbiamo organizzato in Polonia, a Cracovia, con l’aiuto di Karol Wojtyla, nostro cappellano diventato vescovo e successivamente Papa, l’Istituto per la famiglia destinato ai ragazzi: ragazze, studenti, persone giovani che vogliamo preparare per realizzare la vita in modo tale che i valori spirituali siano i più importanti. Questo Istituto prepara le persone al matrimonio in modo tale da formare non solo una coppia felice, ma anche santa. A quel tempo Wojtyla si chiedeva, come filosofo e antropologo, come definire e fondare un autentico concetto della persona umana che è capace di amare in modo fedele, in modo tale che l’amore vinca anche la morte. L’amore che è capace di vincere tutte le difficoltà della vita è chiamato da Wojtyla "bell’amore", parola che utilizza anche di recente nella lettera che ha scritto alle famiglie.

Riva Posse: Gli essere umani hanno sogni ma vivono e realizzano la loro persona nella realtà, a contatto con la realtà. Il primo incontro con la realtà è positivo, il "pezzo" di realtà che dal primo istante la mamma dà affettuosamente a suo figlio è buono: il risveglio è bello e giusto, perché corrisponde. Senza soddisfazione reale non c’è soddisfazione che assicuri la vita del bambino. Tutta la speculazione filosofica che oscura o nega questa verità delle cose dubitando dell’esistenza stessa di una verità, è un’aggiunta all’esperienza elementare del bambino per il quale la realtà esiste. Infatti, il bambino o ha il "pezzo" e vive o non ha il pezzo e allora muore. Questa esperienza di soddisfazione prima è la forma nella quale si realizza il modello delle future aspettative del bambino: proprio per questo ci mostra l’esperienza di abbandono dell’essere umano e come egli può crescere solo in relazione alla realtà che lo alimenta, dal punto di vista dell’amore, dell’affetto ma anche dell’alimentazione. E l’essere umano non può crescere per se stesso, cresce in una dipendenza.

Questo insegna molto alla responsabilità degli adulti: la maturità - cui già si accennava - è la capacità di curare la vita che cresce. Quando il bambino compie la sua prima esperienza la può ricordare, e quando la ricorda essa è caricata nuovamente, e la deve distinguere da una soddisfazione reale: può decidere di gratificarsi tramite questo ricordo con il quale fa un’esperienza allucinatoria che comunque non lo può alimentare. L’io si instaura per potersi differenziare tra l’esperienza allucinatoria immaginata dal bambino e l’esperienza reale dell’incontro con il cibo di cui ha bisogno. Da quel momento resta la necessità di poter vivere illusoriamente la realtà e resta anche chiaro che l’unica cosa da imparare è crescere nella realtà.

I sogni appaiono nei bambini come compimento dei desideri, nascono dall’inconscio del bambino e servono per permettergli di dormire. Sono pensieri simili al pensiero diurno, attività del soggetto che servono per avere un mondo interiore nel quale lavorare i suoi desideri. Se solo vivesse in questo mondo, non ci sarebbe nessuna novità; l’incontro con la novità lo porta un altro. Il bambino cresce dentro un’unità che è l’unità con la mamma: non si può pensare ad un bambino senza una mamma. Progressivamente questa dipendenza assoluta dovrebbe diventare relativa, e includere oltre alla madre il padre e tutta la comunità degli esseri umani. Questa è la socializzazione, ed è il prodotto dall’incorporazione della presenza del padre, della legge del padre che segna l’esistenza di un altro che è voluto ed accettato e che segna la possibilità d’incontro con gli altri esseri umani.

Il passaggio dalla dipendenza assoluta alla dipendenza relativa implica scoprire che tutti noi siamo mortali, limitati, definiti; che siamo insufficienti, dato che la nostra volontà e i nostri desideri non sono sufficienti per realizzarli; e siamo dipendenti da altri per la nostra realizzazione amorosa, affettuosa, sessuale, e che siamo uno tra gli altri, liberi di volerci bene o no.

I limiti che la realtà pone al bambino emergono quando la mamma non risponde al desiderio di potenza del bambino, non c’è quando la vuole, o non scompare quando lui la odia. Il bambino non sa che il suo primo mondo, nel quale pensa di essere unico, eterno, bello, indipendente, è sostenuto dalla mamma. Questa immaginazione del bambino lo pone raggiante persino quando incontra i limiti della mamma, che gli fanno incontrare anche la sua limitatezza e la sua mancanza. Questo è il valore positivo dell’aggressività e dello sviluppo della persona. Il bambino aggredisce nella sua fantasia tutto quello che gli fa vedere il suo limite: la madre che non risponde, il padre che c’è quando lui non vorrebbe, e così via. Ma il bambino scopre anche che dopo avere aggredito l’altro mille volte durante il giorno, egli continua a rimanere vivo. Avviene così la scoperta della realtà dell’esistenza indipendente da lui, dell’altro come altro. Per poter accettare l’altro come altro il bambino ha bisogno di esser voluto bene e accompagnato in questo processo.

Questa esperienza si ripete lungo tutta la nostra vita, perché la nostra accettazione della realtà, dei limiti, della morte, dell’insufficienza e del dolore, saranno possibili per noi quando avremo avuto una compagnia adeguata che ci aiuti ad unire affetto ed esperienza di dolore, e quando la riconoscenza per questa compagnia ci farà sentire un gusto per le persone che ci aiutano ad accettare e a capire la realtà. È la riconoscenza nei confronti degli esseri umani che ci hanno aiutato a passare da una dipendenza assoluta ad una dipendenza relativa. Quando questo non succede per mancanza dei genitori, per disattenzione, per morte, per trauma, l’individuo resta con certe risposte cristallizzate nella sua persona: per esempio, se è stato molto aggredito resterà insicuro ed aggredito e lo ripeterà per tutto il resto dei suoi giorni.

La funzione di un terapeuta è proprio quella di offrire questa compagnia in un ambiente adeguato perché il paziente torni a risperimentare l’esperienza negativa che ha avuto e possa - con la compagnia del terapeuta che gli spiega che questo fatto è successo prima ma non è necessario che debba succedere ancora - collocarlo in una realtà nei confronti della quale è capace di riconoscenza. Non è un’educazione, è una interpretazione del motivo per cui il paziente ha un’alterata visione del normale. Il terapeuta deve soffrire le aggressioni che porta in sé il paziente per quello che ha sofferto; il risultato è una maggior capacità di avvicinamento alla realtà, una maggior capacità di poter mettersi in relazione con altri esseri umani, il non doversi rifugiare progressivamente in un mondo di fantasia temendo la ripetizione dei dolori e traumi. Raggiunti questi scopi, il terapeuta scompare dalla vita del paziente e resta la comunità umana nella quale egli cercherà i segni profondi dell’umanità in modo che possa viver la vita sapendo tutti i giorni per che cosa cammina, per che cosa vive, per che cosa ama, qual è il suo destino.

All’età che ho, dopo aver fatto molti corsi di psichiatria, di psicoanalisi, di immunologia, mai raccomanderò un paziente ad un medico che non abbia avuto personalmente un’esperienza di risoluzione del problema che non sia solamente tecnica. Quello che desidera un paziente non è il medico che vende ideologie, ma il medico che abbia avuto esperienze sufficienti per risvegliare le domande più importanti dell’uomo, che viva una compagnia umana con gli uomini che hanno scoperto l’assoluto della vita, quello che è definitivo, quello che è fondante, che è Cristo. Solo gli uomini che hanno avuto questo incontro possono andare a risvegliare domande più umane di chiunque si avvicini loro.

Viviamo in una cultura che non favorisce questo: già duecento anni fa, Hegel aveva detto che in una civiltà caratterizzata dall’utilitarismo, in qualunque posto uno sia, utilizza gli altri ed è utilizzato. Se la cultura che noi viviamo ha realizzato questo, le domande per il senso della vita sono spente. In una cultura che è omogeneizzata, la disintegrazione della società si verifica nella disintegrazione dell’amicizia, del matrimonio, della famiglia e dei popoli, di tutti quei luoghi nei quali l’uomo può essere aiutato ad incontrare il significato degli atti della sua vita e del dolore del suo destino. Una civiltà relativista non riconosce nulla che valga in sé e per sé. La dignità della persona può essere giustificata solo in un mondo relativo - non relativista - poiché è creata in una relazione con l’assoluto. In questo modo quando uno vive il sogno di vivere - come diceva Eliot e come dice oggi Vattimo - quello che rimane all’uomo è continuare a sognare - come diceva Nietzsche - sapendo che si sogna, senza contatto con la realtà, senza sottoporsi all’esperienza che verifica e che rende densa e profonda la vita degli uomini.

La psicoanalisi, la psichiatria e tutti i meccanismi psicologici di cui si è arricchita la cultura, rischiano di essere gli ordinatori di gente con un io distrutto, gente che vive nella solitudine un mondo pieno di sogni senza novità, uomini limitati dalla legge e senza capacità di giudizio, uomini incapaci di riconoscere la dipendenza che fa crescere. Chi può conoscere Dio nel rapporto di un’esperienza personale può fare che altri lo conoscano. Solo chi vive nella profonda relazione il rapporto con Cristo può guidare altri nella comunicazione con il Signore.

Contri: Il lavoro che faccio nella vita consiste nello scrivere, dire, pensare una nuova Divina Commedia, nella quale ho come Virgilio Sigmund Freud. La Divina Commedia comincia infatti con la frase "la diritta via era smarrita"; anche l’affermazione del cattolicissimo Calderón "la vita è sogno" è un altro modo di dire che la diritta via era smarrita. La nuova Divina Commedia da scriversi non è certamente la commedia umana di Balzac o di Proust che non hanno potuto nulla nei confronti delle catastrofi o a loro contemporanee o immediatamente successive e di cui abbiamo sentito parlare con forza da Poltawska. La diritta via era smarrita, la vita è sogno: questo vuol dire che la vita è un fallimento. Tre secoli dopo, il ‘900, nelle sue cosiddette "catastrofi" - un termine sbagliato, poiché nel significato greco del termine è inclusa una buona conclusione del dramma - ha truculentemente portato a termine lo smarrimento della diritta via. Questo smarrimento è quello che io chiamo, secondo l’espressione evangelica, perdita dell’anima, perdita del pensiero.

Questa mia esposizione potrebbe intitolarsi "Cristo il moderno" o anche "Cristo il pensatore", pensante, attivo. Abbiamo infatti la constatazione dal pensiero di Cristo che la vita non è sogno: vorrei brevemente delineare che cosa significa che la vita è sogno, e poi mostrerò che la vita non è sogno.

Come primo punto cercherò proprio di capire cosa vuol dire che la vita è sogno: lo ha detto con una brillantezza infernale il fondatore o meglio il neo fondatore ottocentesco del nichilismo, Kierkegaard. Kierkegaard infatti dice: sposatevi, ve ne pentirete, e poi aggiunge non sposatevi ve ne pentirete ancora. Vi pentirete in ogni caso: fidatevi di una ragazza, ve ne pentirete, non fidatevi di lei e ve ne pentirete; o che vi fidiate o non vi fidiate ve ne pentirete in ogni caso. Ancora, dice Kierkegaard: impiccati e te ne pentirai, non impiccarti, te ne pentirai ancora. O che ti impicchi o non ti impicchi te ne pentirai in ogni caso. La soluzione di Kirekegaard è di non fare movimento alcuno, poiché se mi fermassi, me ne pentirei, e se non mi fermassi me ne pentirei ugualmente. Poiché io non parto mai, vuole dire che non sono con nessuno, non compio atto alcuno, neppure un atto del pensiero: poiché non parto mai potrei sempre fermarmi, perché la mia partenza eterna è la mia fermata eterna. Quanti sono coloro che pensano che la vita eterna sia l’eternità ferma di Kierkegaard!

Cosa significa tutto questo? Si chiama la vita come sopravvivenza; un po’ questo, un po’ quello. Non è buono quello, non è buono quell’altro. In termini un po’ psichiatrici, si chiamerebbe depressione. In economia, la dottrina economica prevalente è la dottrina dell’economia neoclassica: la teoria dell’equilibrio. E questo è la vita è sogno: la totalità senza eccezioni. Per questo non ho compassione neanche per un milligrammo della psicologia novecentesca - quella che si insegna nelle università o si fa nelle USSL -: è esattamente la psicologia della vita come sogno. Sono le dottrine economiche prevalenti, le pratiche corrispondenti, la psicologia dominante: la vita è sogno. Che io parta o non parta, che tu ti metta lì o ti metta là, te ne pentirai in ogni caso. Che la vita è sogno significa che l’essere - umano o divino - può soltanto fallire. Il fallimento è il destino dell’essere, da tutte le parti. E il primo fallimento - questo è veramente il Novecento - è il fallimento del pensiero, dell’animo, della psiche, della realtà psichica.

Un secondo punto riguarda le due parole che compaiono anche nel titolo del Meeting, sogno e realtà. Questa coppia di parole non basta: ce ne vogliono tre. Bisogna aggiungere l’anima, o meglio il pensiero, il pensiero di Cristo. Altrimenti sogno e realtà sono opzioni. Pensiero vuol dire giudizio. La parola realtà nasce simultaneamente alla parola pensiero, perché la parola è giudizio: si-no, bene e male, conveniente o sconveniente o - se si usano correttamente queste parole - come diceva Freud piacere e dispiacere. La parola realtà nasce insieme al giudizio, nasce insieme all’io: l’io pensante e giudicante. Il bambino appena nato, appena apre la bocca e ancora prima di aprirla, è capace di giudizio, di sì e di no, di mi piace o non mi piace, di mi va bene o non mi va bene, di mi fai bene o mi fai male: per il bambino è certo che la vita non è sogno.

Un successivo passaggio: Freud è l’unico autore tardo-moderno che abbia risposto al dramma di Calderón. Tutta l’opera di Freud consiste nell’affermare che la vita non è sogno. E lo ha affermato in un modo splendidamente chiaro e didatticamente facilissimo, dicendo: non gli incubi del giorno, non le ideologie del giorno o le nostre vaghe illusioni del giorno, non le nostre fantasie a buon mercato - che per nostra fortuna almeno quando dormiamo se ne vanno a dormire -, ma il sogno della notte è il mio io pensante. Allorché gli incubi del giorno, le illusioni, le utopie del giorno se ne vanno a dormire, appare l’io pensante. Mentre il mio organismo riposa, continua a pensare in condizioni di migliore libertà. Questa è la dottrina di Freud. Neanche il sogno è un sogno, secondo Freud: chiamare sogno il sogno è una ingiuria al nostro io.

Quando dunque la vita non è sogno? Quando nella vita c’è l’introduzione del giudizio, la presenza del io, la presenza del pensiero pensante attivo. Il pensiero è stato l’olocausto di massa del Novecento: tutto il male veniva fatto in nome del pensiero scientifico. Ma la scienza non è pensiero: il pensiero è di ciascuno, è solo personale, è solo singolo, che il singolo sia io, lui, la signora Poltawska o Gesù Cristo. Ed è il giudizio, è la competenza universale. Pensate alla strapotenza del primo articolo del catechismo il quale dice che gli uomini hanno la facoltà di riconoscere se uno è o non è Dio, la capacitas Dei. Il pensiero è la capacità, la competenza.

Per quale ragione ho introdotto Cristo moderno? Bisogna dire che le nostre cose non sempre ci vanno molto bene, se poi parlassi di come va l’amore... L’amore è pensare con il pensiero di un altro: voi, come tutti, immaginate che sia andare a letto con l’altro. Ed è vero, ma è vero perché se pensate col pensiero di un altro ci andate a letto. Se non pensate col pensiero di un altro non ci andate neanche più a letto, vi passa la voglia. I desideri stessi che cosa sono se non un pensiero ben fatto? San Paolo ha subito colto il punto, perché non era un teologo, era un pensatore che pensava con Cristo, intendendo ‘con’ come complemento di compagnia e di mezzo. Non pensava a Cristo come oggetto, non era un uomo di scienza che vedeva Cristo come oggetto della sua scienza. Era un con-pensante con Cristo. Ed è per questo che non poteva neanche venirgli in mente di perdere l’anima ossia di dire che la vita è sogno. Cristo è il primo pensatore, il primo uomo della compagnia per il quale la vita non è sogno.

Se la vita non è sogno, anche la morte acquista un altro significato: giustamente san Paolo ha fondato tutta la sua fede sulla resurezione. Ma se per me la vita è sogno, anche di fronte a Dio che mi offre una vita continua dopo la morte la resurrezione non significa nulla. La resurrezione invece è un evento, una affermazione dicibile con la lingua, scrivibile sulla pagina bianca, e significa che è interessante e desiderabile riprendere a vivere. La vita è sogno significa che non è interessante e desiderabile continuare a vivere. All’affermazione che Cristo è risorto occorre aggiungere la desiderabilità della cosiddetta vita eterna, altrimenti potrei rispondere: no grazie Signore, sei tanto gentile a propormi di risorgere ma preferisco rimanere qui.

Non conosco un discorso sulla morte, a parte quello di san Francesco che la chiamava sorella, che non sia una banalità. Non ho neanche più voglia di stare a sentire. Il solo discorso sensato a questo riguardo, il solo motivo per cui la morte non vince, è la resurrezione di Cristo, che corrisponde alla frase e alla testimonianza, anzitutto in Cristo, che è desiderabile che ciò avvenga, perché vivere è desiderabile e non è un fallimento. Altrimenti ha ancora ragione Kierkegaard: che tu risorga o non risorga, te ne pentirai in ogni caso.

Poltawska: La vita è data come dono, dono di Dio. Ma nello stesso tempo è anche compito da compiere. Dipende da noi come si svolge. E voglio illustrare questo pensiero con una relazione sulla situazione concreta. Nella biblioteca della Università Jaghellonense a Cracovia, ci sono due documenti stampati nel 1947, dopo la guerra. Uno è una relazione del supremo tribunale di Norimberga, nel quale ci sono 80 medici nazisti tedeschi condannati a morte per atti criminali, avendo ucciso tanti uomini contro la loro etica professionale, e il secondo documento è un lavoro scientifico, Monografia sulle malattie della fame. Questo secondo documento è stato scritto nel ghetto ebreo di Varsavia, quando i pazienti di cui era pieno l’ospedale, insieme con i medici, erano condannati a morire di fame. I medici, osservando i loro pazienti hanno descritto le malattie scientifiche legate alla fame, ognuno per la sua professione, pediatra, laringologo e così via. Questo documento è stato salvato durante la distruzione del ghetto e stampato dopo.

Possiamo immaginare che il gruppo di medici tedeschi e il gruppo di questi ebrei abbiano studiato insieme, per esempio ad Heidelberg, che siano stati colleghi dello stesso anno, che abbiano la stessa età e abbiano vissuto la loro vita come medici. Sono uguali: totalmente diversa però è la linea delle loro vite. Un gruppo, i tedeschi, sono morti in modo disumano e la loro vita è stata totalmente distrutta. Invece altri, come eroi, morendo insieme con i loro pazienti, curando pazienti ammalati fino alla fine, hanno scritto sul libro il loro lavoro, dal titolo Non totalmente morti.

Ho fatto questo esempio per far capire che la nostra vita dipende da noi: se realizziamo noi stessi scome giganti dello spirito umano, sempre più assomigliando al Dio stesso, possiamo crearci ad immagine di Dio; oppure possiamo vivere la vita come compito. Perché la persona umana divenga atto - lo ha anche scritto il Papa - dipende dalla persona stessa. La nostra speranza è che voi tutti giovani siate in grado di assumere questo compito.

Vorrei concludere con una frase che il santo Padre ha detto ai giovani a Parigi: "Ricordatevi che la vita umana qui, è solo strada! Niente altro. Strada verso il cielo. Perché l’uomo è creato non per la terra ma per il cielo". Questo cammino verso la pienezza dell’umanità significa la pienezza che Dio ha previsto per noi. Questa strada qualche volta è difficile, qualche volta è buia, ma comunque se è sempre indirizzata verso Dio, si realizza bene. Per voi questo è adesso, non il futuro, perché giorno per giorno si realizza questa strada. Vi auguro di essere tutti insieme in cielo, anche se non subito.