Dalla presenza una cultura nuova

Giovedì 28, ore 11

Relatori:

Mark Nemetz

John Zucchi

Mark Nemetz, sacerdote, è nato a Sacramento (California). Baccellierato in filosofia e teologia all’Angelicum, è licenziato in teologia morale all’Università Lateranense a Roma. Attualmente lavora a Sacramento, capitale della California, in una parrocchia popolata soprattutto da ispanici e asiatici. Insegna alla "St. Patrick’s School", impegnandosi anche nell’apostolato giovanile.

Nemetz: Io sono della California. Per farvi capire quale sia la mentalità dominante vi dirò come questa cultura affronta il senso religioso. Vi do alcune statistiche: il 94% crede in Dio, il 43% va in chiesa ogni settimana. Negli Stati Uniti vivono 200 milioni di cristiani ed è molto comune che la gente parli di argomenti religiosi. Però accade quello che descrive Kierkegaard: "L’essere in sé e per sé, l’Assoluto è completamente sparito dalla vita, e la ragione si è messa al suo posto". Da dove viene questa apparente contraddizione? Prima di tutto c’è la convinzione che lo sforzo umano possa risolvere qualsiasi problema, che se uno lotta può cambiare la realtà; in altre parole è possibile fondare una società che si basa su valori e ideali. Questo ha portato una grande creatività, ma anche un senso di isolamento: l’americano medio soffre di solitudine. Legato a questo c’è una certa frammentazione della vita. Per essere felice, bisogna provare a soddisfare i vari bisogni che si hanno, senza cercare un nesso tra di essi; la felicità viene dal possedere delle cose che soddisfino. C’è un individualismo estremo e siccome non c’è, come in Europa, il senso di una storia, il posto centrale è occupato dai mass media. La religione, in questo contesto, è vista come quel fattore che riempie un bisogno religioso, cioè è una realtà privata, separata dagli altri bisogni della persona, e si riduce spesso ad un certo spiritualismo sentimentale o ad un moralismo.

L’origine di tutto ciò va ricercata nella rottura con la cultura e la storia dell’Europa. I primi protestanti giunti in America sono venuti per questa ragione. Il puritanesimo ha lasciato una traccia molto importante, la rettitudine morale esteriore. Insieme con questo inizio protestante, c’è stato un tentativo di presenza cattolica. A S. Barbara in California, i missionari sono venuti per condividere la loro vita con gli indiani. Avevano molto successo in questo, non come i protestanti che spingevano gli indiani via dalle loro terre; dentro la missione c’era mescolanza di culture. Ma la presenza iniziale dei cattolici è stata schiacciata e questo ha lasciato fino ad oggi una traccia sulla mentalità americana cattolica, cioè che è una minoranza, e la religione è una cosa privata perché non è tollerata dal potere.

Nella mancanza di una cultura comune come c’è in Italia, quello che viene stabilito come il fattore supremo unificante è la Costituzione, cioè la legge suprema dalla quale tutto viene giudicato. Per la maggioranza degli americani la Costituzione è l’unico fattore di giudizio stabile per decidere cosa è bene e cosa è male. E nella Costituzione c’è la clausola che in America ci deve essere la separazione fra Chiesa e Stato. E questo oggi è diventata la mentalità della separazione tra fede e vita.

I prodotti di questa società sono i giovani. Io sono prete in una parrocchia di Sacramento, dove vengono molti giovani e nei giovani si vedono due cose: non più l’idealismo che c’era negli anni sessanta, quando si cercava una società più giusta, ma un senso di rassegnazione davanti alla incapacità di cambiare la realtà, oppure la ricerca di una vita di un certo livello. Dall’altro lato ci sono i ragazzi della strada, le bande che stabiliscono un certo territorio ed arrivano ad ammazzarsi per difenderlo. Questi giovani vengono da famiglie in maggioranza distrutte. In questo momento negli Stati Uniti, la maggioranza, 54% credo, delle persone che si sposano, divorzia. La maggioranza dei ragazzi che incontro a scuola non ha papà e mamma. Le cattedrali moderne sono i centri commerciali; i giovani vanno lì per una certa noia, per vedere se qualcosa succede.

Anch’io ho imparato gli ideali di questa cultura. Giunto a Roma per prepararmi al sacerdozio, ero convinto che la fede era giusta, ma non potevo negare il fatto che non ero felice. Era come se la mia mente mi dicesse una cosa e il mio cuore un’altra. Ho provato ad andare avanti schiacciando il mio cuore, la mia umanità, come ci è insegnato in America, però dopo un po’ non ce la facevo più, in tutta onestà dovevo dire che non ero felice. Stranamente, ho sentito parlare del movimento attraverso un giornale che quasi non esisteva. La prima cosa che mi colpì furono le facce delle persone dentro la fotografia, persone della mia età, che però sembravano più felici. L’articolo descriveva l’esperienza del movimento. Ho cominciato a girare per Roma, nelle parrocchie a chiedere cos’è CL, perché non sapevo dove andare. Poi sono finito in un centro giovanile, dove mi hanno dato un numero di telefono. Ha risposto un prete del movimento che è venuto a parlare con me. Parlando con lui, vedevo che capiva quello che io vivevo in quegli anni, anche se non capivo io. Lui mi ha detto: "Stai con noi e diventerà più chiaro tutto". Questo invito personale non mi era mai stato fatto prima. Allora sono stato con lui, con altri amici, ho visto della gente che non era divisa nella propria persona, che era felice non perché soddisfaceva ogni bisogno, ma perché aveva incontrato una cosa che pretendeva di essere la risposta a quel bisogno che è la radice di tutti i bisogni. Poi mi hanno invitato alla vacanza internazionale del primo anno. Quando parlava don Giussani, mi sono messo in prima fila; ad un certo punto sono diventato tutto rosso. Io ero sicurissimo che qualcuno gli aveva parlato di me, e lui parlava a me, parlava di me a tutte le persone nell’aula. Pensavo: "Come mai lui ha saputo queste cose?". Dopo ho capito che siamo tutti fatti nello stesso modo.

Stare con questi amici è diventato un fatto sempre più centrale, finché ho cominciato a capire che quello che mi portavano non era solo l’amicizia, ma qualche cosa dentro l’amicizia. E ho cominciato a desiderare sempre di più quello che ci univa. Mi è divenuto chiaro che la persona umana è un bisogno perché ha un destino e questo destino è diventato una presenza umana che è venuta a me, mentre prima era sempre la mia forza che provava di trovare questa risposta; che la persona umana non è fatta per l’individualismo, che si risolve in una solitudine, ma per appartenere; e poi che la felicità è riscoprire questo: il cristianesimo come una nuova possibilità. Negli Stati Uniti ci sono solo una quindicina di comunità del movimento, siamo pochi di numero forse, ma veramente c’è una rivoluzione dentro la persona. Perché non siamo più prodotti di una cultura decadente, ma di un avvenimento, cioè c’è una rivoluzione nel modo di affrontare la realtà che è veramente impensabile per un americano di oggi.

John Zucchi è nato a Toronto nel 1955. Si è laureato in Storia e Economia all’University of Toronto, ed ha fatto due anni come ricercatore a Cambridge, dove nel 1983 ha incontrato il movimento di Comunione e Liberazione. Dal 1985 è docente alla McGill University di Montréal, dove dall’incontro con Caroline Girouard, Marc Beauchamp e Daniel Beauchamp nasce il movimento di C.L. in Canada.

Zucchi: Il mio paese, il Canada, ha avuto una forte tradizione cattolica; il Quebek, ad esempio, era il centro del cattolicesimo nord americano, e dal Canada francese provengono molti martiri, santi, e migliaia di missionari che sono ancora in giro per il mondo. Negli ultimi trent’anni c’è stato uno sfascio della presenza cristiana, e quindi anche della vita sociale. Eppure si nota nei giovani oggi, un desiderio, magari inconscio, di trovare un senso alla vita, un punto di riferimento. La chiesa non sa più come raggiungere i giovani, e certo questa è la sua maggiore preoccupazione. Mi sembra che nella nostra esperienza abbiamo trovato una risposta che non parte da teorie, da discorsi, ma da una fatto vero, da un incontro con un avvenimento.

La storia del movimento in Canada è iniziata a Cambridge in Inghilterra, dove sono andato per ragioni di studio verso la fine del 1983. Poco dopo il mio arrivo ho incontrato una ragazza di S. Paolo (Brasile), Annalidia. Sono rimasto colpito dallo sguardo pieno di affezione con cui guardava me, gli altri e le cose. Parlava con una semplicità eppure con una profondità che non avevo mai visto prima, ma soprattutto era il suo sguardo sulle cose che mi toccava. Io avevo già sentito parlare di CL qualche anno prima, ma non mi era mai piaciuta l’idea della comunità, cioè ero un prodotto perfetto di un cattolicesimo nord americano, molto individualista come la società, e così non mi piaceva l’idea di vivere un rapporto che implicava tutta la mia vita. Eppure ero molto colpito da questa Annalidia. E quando chiedevo: "ma tu perché sei così?", mi rispondeva sempre che lei aveva questa amicizia e mi parlava della comunità. Così anche in me è nato il desiderio di vivere come lei ed ho cominciato ad aver interesse per questa comunità, di cui tanto mi aveva raccontato. Attraverso l’amicizia con questa ragazza e gli altri che ho incontrato a Cambridge, ho iniziato a sperimentare una pienezza che non avevo mai provato. Adesso, parlando di quel periodo, dico che è la mia prima vera esperienza di chiesa, ma allora non pensavo in questi termini; pensavo solo che la vita era più vita, che c’era un nuovo gusto per la vita in questa amicizia.

Così nel 1985, tornando in Canada per insegnare in università, capii di non poter ridurre quell’esperienza ad una nostalgia per un bellissimo periodo della mia vita. Alcune settimane dopo, con alcuni amici che avevo incontrato, abbiamo iniziato a ritrovarci per cenare insieme e per fare quel gesto che chiamiamo scuola di comunità. Alla fine di quell’anno accademico, cioè nell’estate 1986, sono andato a Milano, dove mi sono sposato con Cecilia. Durante l’estate la gente che avevo incontrato il primo anno a Montreal aveva lasciato quella città per ragioni di studio, e così, al nostro ritorno a Montreal, io e Cecilia ci chiedevamo come e quando avremmo potuto incontrare altri amici. Abbiamo provato una profonda gratitudine, perché questo incontro con altra gente è avvenuto quasi subito. C’era Daniel lì, uno studente della mia università, che aveva incontrato uno dei miei vecchi amici, e subito si è fatto vivo. Mark e Caroline, da pochi mesi avevano incontrato il movimento in Brasile, durante uno stage di ricerca in medicina. Loro avevano conosciuto questa Annalidia a S. Paolo e da lei hanno avuto il mio numero di telefono. E attraverso di loro e attraverso altre persone, abbiamo conosciuto molti altri amici. Nello stesso tempo a Toronto un seminarista si è messo in contatto con noi, e anche lì nell’87 è partita la comunità. Così la nostra storia è iniziata attraverso dei rapporti che da un capo all’altro del mondo si intessevano apparentemente per caso. Molti di quelli che abbiamo incontrato in questi anni erano lontani dalla Chiesa, ostili, indifferenti alla vita di fede. Attraverso un’amicizia vissuta con gente normale incontrava qualcosa di nuovo e provava una libertà che li spingeva a desiderare di capire questo incontro sempre più profondamente. E così, stando con noi, hanno sentito nascere una nuova affezione per gli amici, per il lavoro, per la famiglia, per se stessi; un’affezione che non avevano vissuto prima. Ed ancora sono rimasti colpiti dalla ragionevolezza di una posizione di fede; più questi amici stavano, rimanevano, più scoprivano le ragioni di questo rimanere.

Negli ultimi due o tre anni alcuni amici hanno aderito alla proposta della Fraternità di CL. Questo gruppo è diventato il nucleo del movimento in Canada. I gesti con cui cerchiamo di comunicare la nostra esperienza ad altri sono semplicissimi. Prepariamo le vacanze invernali ed estive con cura particolare tenendo presente i bisogni delle persone che vi partecipano. A Pasqua organizziamo una cena a cui invitiamo tutti i nostri conoscenti. Di solito i nostri amici e colleghi notano questa amicizia così profonda e questa unità e ce ne chiedono le ragioni e lì inizia un rapporto.

Sempre nel gruppetto di fraternità è nata l’idea di un asilo come proposta ai nostri bambini ed ai bambini di altri amici. Siamo stati guidati dalla storia della Zolla. I genitori sono rimasti colpiti dal fatto che ciò che abbiamo incontrato lo vogliamo comunicare anche ai nostri bambini. Sembrerebbe una cosa ovvia ma non è del tutto ovvia in Canada. Quello che ci interessa non è innanzitutto comunicare dei valori o dei particolari modelli di comportamento a questi figli, ma vogliamo accompagnarli all’incontro con la realtà, vogliamo guidarli ad essere affascinati da ciò che li circonda.

Vorrei fare un ultimo commento sulla questione dei numeri a cui ha accennato anche padre Mark. Siamo pochi come numero e questo ci impaurisce, tra Montreal e Toronto siamo 50 persone in un paese di 27 milioni con una superficie 33 volte quella dell’Italia. Ma il punto è che 50 persone hanno incontrato l’avvenimento cristiano attraverso l’incontro con gente che ha cambiato il proprio modo di vedere il mondo. Come si spiega il fatto che in una cultura in cui la libertà è fraintesa con l’isolamento totale questo piccolo gruppo guarda con amore a questa amicizia e la segue con fedeltà? Quello numerico non è un vero problema, invece quello che ci determina deve essere sempre la gratitudine di essere stati messi assieme. Dobbiamo pensare a quel gruppo di gesuiti che sono venuti in Canada 350 anni fa. Ognuno di loro ha vissuto solo per comunicare Cristo e non hanno mai considerato le loro vite troppo importanti: tanto che dal sangue di otto martiri e dei loro compagni il nostro paese è stato cristianizzato.