EDUCARE PER COSTRUIRE. CICLO DI INCONTRI PROMOSSO DALLA COMPAGNIA DELLE OPERE

Pace e sviluppo contro le guerre

In collaborazione con Unioncamere

Venerdì 27, ore 16.30

Relatori:

Romano Prodi (video conferenza),
Presidente della Commissione Europea

Tarek Aziz (video intervista a cura di Renato Farina), Vice Primo Ministro della Repubblica dell’Iraq

Tommaso Padoa Schioppa,
Membro del Consiglio della Banca Centrale Europea

Gian Guido Folloni,
Ministro per i Rapporti con
il Parlamento

S. Ecc. Mons. Diarmuid Martin,
Segretario del Pontificio Collegio della Giustizia e della Pace

Prodi (intervento video): Il dibattito fondamentale per il nostro futuro riguarda il ruolo dell’Europa fino ad ora insufficiente rispetto alle aspettative e alle possibilità. L’Europa di oggi ha una ricchezza ed una forza economica addirittura superiori a quella americana, grazie anche alla moneta comune; non ha però ancora elaborato una politica e una difesa estera comuni, come la situazione nei Balcani ha dimostrato.

Oggi il problema deve essere portato avanti con il cambiamento delle istituzioni europee, con un rafforzamento delle nostre organizzazioni di difesa; è incredibile che le spese per la difesa in Europa siano quasi i 2/3 di quelle degli Stati Uniti, ma la capacità di difesa è ritenuta essere nettamente inferiore al 10% di quella americana: è uno spreco di risorse.

Rispetto al nostro futuro, i paesi di fronte a noi nelle sponde del Mediterraneo sono composti da ragazzi che hanno cominciato ad avere un discreto livello di istruzione, che sono disoccupati, che non hanno una speranza e che sono quindi anche preda delle tentazioni politiche più diverse. Se l’Europa non offre una politica estera di apertura, di intelligenza, che capisca che il futuro è nel rapporto attivo con il mondo islamico che ci sta attorno, sarà difficile preservare la pace. L’Europa ha nella politica estera tre grandi compiti: l’allargamento ai paesi che ne hanno fatto domanda – principalmente i paesi dell’Est, ma anche Malta e Cipro –, la pace nei Balcani, un accordo tra i paesi del Mediterraneo, paesi del Nord Europa e mondo arabo. È inutile pensare a uno sviluppo di questo mondo se non realizziamo delle iniziative in comune; è inutile pensare che Algeria, Tunisia, Egitto possano svilupparsi se si mantengono fra di loro divisi, se ognuno fa il suo investimento, se non si mettono insieme le persone a parlare, se non si mettono insieme i giovani a studiare. Fare una proposta unificata, una proposta generale che non valga solo per i singoli paesi, ma anche per l’intera comunità dei paesi arabi che stanno di fronte a noi, è possibile solo grazie all’Unione Europea. Ho cominciato a porre questo problema a tutti i miei colleghi, a tutti i miei collaboratori, come discorso di lungo periodo, come logica conseguenza del motto "l’Europa è nata per costruire la pace". Dove l’Europa si è estesa, infatti, la pace c’è stata.

 

Intervista registrata

Farina: Signor Primo ministro, può raccontare in poche frasi quello che è capitato in Iraq dalla guerra del Golfo in poi? Perché dura ancora l’embargo?

Aziz: Credo che tutti gli osservatori sappiano che il motivo principale che spiega il perché continuano le attività militari contro l’Iraq, come anche l’embargo, è la politica americana contro l’Iraq. È naturale che ci sono delle risoluzioni delle Nazioni Uniti che l’Iraq deve rispettare, ma non dimentichiamo che sono passati nove anni da quando quelle risoluzioni sono state approvate e da noi applicate. Per quanto riguarda il Kuwait, lo abbiamo riconosciuto come nazione sovrana, abbiamo accettato i confini che sono stati imposti sull’Iraq. Abbiamo eliminato le armi di distruzione di massa, abbiamo permesso, per molto tempo, le ispezioni e il monitoraggio di tutti i centri scientifici e di tutte le aree scientifiche industriali. Praticamente tutto il territorio iracheno è stato sottoposto a ispezione. Il motivo per cui questo non ha frenato le attività militari, le aggressioni e l’embargo è che la politica statunitense contro l’Iraq ha come finalità quella di cambiare la leadership dell’Iraq, finalità che nulla ha a che fare con le norme o le risoluzioni delle Nazioni Unite. Ecco perché c’è diversità di posizione tra gli Stati membri permanenti del Consiglio di Sicurezza.

Farina: In questi giorni, mentre stiamo parlando, continuano i bombardamenti americani sull’Iraq?

Aziz: Questi bombardamenti continuano. La no fly zone è stata imposta nel 1991 e nel 1992 sull’Iraq, senza risoluzioni da parte del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. All’inizio è stata imposta da tre paesi, Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia. La Francia in seguito si è ritirata, nel 1996 al Nord, nel 1998 nel Sud. Rimangono gli americani e i britannici che impongono la no fly zone, e che attaccano l’Iraq non soltanto sui siti militari, ma anche su quelli civili: case, moschee, edilizia residenziale. Le incursioni aeree aggressive di attacco contro il nostro spazio aereo sono state più di 12.000, e molti civili sono morti e continuano a morire.

Farina: Cosa vuol dire per un cittadino comune iracheno, specialmente per un bambino, vivere sotto l’embargo?

Aziz: L’embargo colpisce tutti in Iraq, bambini, donne, uomini, anziani. Colpisce tutti, ma nel caso dei bambini la situazione è molto più tragica, perché sono piccoli e sono anche vulnerabili, non possono trovare alternative a ciò di cui soffrono la mancanza. Recentemente l’UNICEF ha fatto un rapporto devastante per quanto riguarda la mortalità infantile. Negli anni Ottanta il governo iracheno aveva realizzato un risultato significativo in questo campo, la riduzione della mortalità infantile. L’UNICEF stesso apprezzò questo risultato. Oggi invece la mortalità infantile è raddoppiata, e costituisce una grave perdita per le famiglie e il paese stesso.

Farina: C’è una certa ignoranza, una certa indifferenza da parte dell’opinione pubblica internazionale. Come se avessero stancato le storie di infanzia perseguitata. Non pensa che questo dipenda dall’immagine, ancora adesso diffusa, dell’Iraq come un paese sempre disposto alla guerra?

Aziz: L’Iraq non è un paese appena scoperto, e il suo governo è al potere ormai da 31 anni. Negli anni Settanta l’immagine che si aveva dell’Iraq non è quella della quale leggiamo oggi sugli organi di stampa; negli anni Ottanta già la situazione era mutata; adesso, negli anni Novanta, veniamo descritti come mostri, eppure siamo sempre gli stessi. L’immagine dell’Iraq infatti è il risultato dei mezzi di informazione americana, appoggiati dai mezzi di informazione britannici; l’Europa ha risentito dell’influenza di questi potenti mezzi di informazione. Questa immagine fortunatamente sta mutando. Se si legge la stampa francese o quella italiana, ad esempio, l’immagine dell’Iraq non è quella così negativa della quale si scrive sul Financial Times o sul Washington Post.

Farina: Ha fatto una scena negativa la notizia riportata dalle agenzie internazionali che sarebbe stata bloccata una nave indiana, destinata ai bambini iracheni. Può dire qualcosa al riguardo?

Aziz: È una grossa menzogna montata dal Kuwait. Non era latte per l’infanzia, si trattava di biberon importati dall’India da commercianti iracheni, non dal governo iracheno. È però emerso che non corrispondevano alle specifiche tecniche, erano merci cattive o deteriorate. Pertanto le autorità governative si sono rifiutate di accettare queste merci e il commerciante ha dovuto riportare il carico all’origine, a Dubai. Il Kuwait ha scoperto questo fatto e ha dichiarato che l’Iraq esportava alimenti per l’infanzia. Il latte per l’infanzia, il programma "Oil for Food" è un programma adottato con il supporto delle Nazioni Unite, c’è un monitoraggio da parte delle Nazioni Unite.

Farina: Se l’obiettivo americano è di andare contro l’attuale governo più che rispettare le disposizioni e le risoluzioni del Consiglio di sicurezza, allora non sarebbe opportuno, pur di salvare il popolo, un passo indietro del Presidente Saddam Hussein?

Aziz: Quando si parla di compromesso, occorre anche capire dove sta il compromesso; insieme al Consiglio di sicurezza per otto anni, fin dall’inizio dell’embargo imposto all’Iraq e dopo la guerra del 1991, fino all’ultima aggressione il 15 e il 16 dicembre, nessuno ha mai presentato all’Iraq una formula che potesse essere definita un compromesso. In linea di principio un compromesso non lo respingiamo, perché è così che funziona la diplomazia, ma dove è il compromesso? Recentemente sono state condotte discussioni in seno al Consiglio di sicurezza, la parte olandese e quella britannica hanno avanzato delle proposte, ma quando si guarda a queste proposte devo dire che ci pongono maggiori difficoltà rispetto alle risoluzioni precedenti, perché contengono maggiori disposizioni, maggiori condizioni, maggiori restrizioni rispetto a quelle contenute nelle passate risoluzioni. Quindi questo non può essere un compromesso che valga la pena di considerare in modo costruttivo per addivenire ad una soluzione. E non voglio esagerare, il tentativo è quello di uccidere l’Iraq, non di addivenire ad un compromesso con l’Iraq. Guardiamo a quanto è stato fatto. Noi ci siamo presentati al Consiglio di sicurezza per parlare ai suoi membri, ci siamo recati in visita nelle diverse capitali, abbiamo parlato di soluzioni pacifiche, ragionevoli, diplomatiche e abbiamo trovato delle risposte positive, a Roma, a Parigi, a Pechino, a Mosca e altre capitali del mondo, ma quando si arriva agli Stati Uniti l’opposizione è ferma e totale. Gli americani rifiutano perfino di parlare con noi, la Gran Bretagna non vuole rilasciarci i visti per presentare la nostra questione all’opinione pubblica; sono stato invitato dall’Università di Oxford a Londra, proprio come ora sono qui a parlare, ma non mi è stato dato un visto dal governo britannico. Allora dove sta il compromesso, in modo da poter utilizzare il termine "concessione"? Quale concessione? Non c’è una proposta seria, onesta, ragionevole che sia stata avanzata e che possa essere presa in considerazione in modo costruttivo ed equilibrato.

Farina: Che rapporto c’è in Iraq tra Stato e religione?

Aziz: Noi non coinvolgiamo le questioni religiose né le confondiamo con quelle di Stato. Non si può parlare di laicità però è qualcosa di abbastanza vicino a tale concetto: il credente può professare la propria fede senza che vengano mescolate le questioni di Stato, con quelle della religione.

Farina: In termini di libertà religiosa l’Iraq è forse il paese più occidentale tra i paesi arabi eppure in termini di alleanze e di amicizie accade il contrario. Perché è così?

Aziz: Bisogna forse rivolgere questa domanda a coloro che presentano l’Iraq con una cattiva immagine. Come potrebbe infatti un paese comportarsi in modo positivo e contemporaneamente avere una cattiva immagine? Il mio essere cristiano non è un fatto, un fenomeno straordinario in questo paese. I cristiani vivono in Iraq già da prima dell’islam; i monasteri dal III e al IV secolo sono tuttora attivi, grazie alla tolleranza dell’islam: l’islam è una religione tollerante e quando viene guidata dagli arabi è anche più tollerante e anche più rispettosa delle altre religioni.

Farina: In Arabia Saudita questo però non accade.

Aziz: Non parlavo dei fondamentalisti, ma degli arabi.

Farina: Come mai i paesi occidentali sembrano privilegiare proprio i paesi del fondamentalismo?

Aziz: Si tratta di una posizione ipocrita perché quando si parla di principi, quali la democrazia, o i diritti dell’uomo, o la tolleranza, si dovrebbe prendere l’Iraq come uno dei migliori esempi nel mondo islamico e arabo; invece i paesi occidentali trattano duramente l’Iraq e al tempo stesso hanno migliori rapporti con i paesi che non hanno la minima speranza in tal senso. È un atteggiamento ipocrita: gli interessi strategici e finanziari prevalgono su ogni altra considerazione.

Farina: La questione curda è in via di soluzione? In passato siete stati accusati addirittura di avere usato armi chimiche, gas, contro i curdi.

Aziz: L’Iraq riconosce i curdi, li riconosce quale nazionalità etnica, come è sancito dalla Costituzione e dalla legge; non è così in Iran e in Turchia. Noi riconosciamo il loro diritto di autonomia, riconosciamo il diritto dei curdi a parlare la propria lingua, scrivere romanzi, poesie, canzoni, opere teatrali… Inoltre, l’Iraq fa accedere i curdi al governo.

Farina: Quando avrà luogo la visita del Papa in Iraq a Ur dei Caldei?

Aziz: Non voglio rivelare alcun dettaglio perché questi sono elementi di natura diplomatica. C’è un dibattito in corso, fra il Ministero degli Esteri iracheno e la Santa Sede circa il calendario e le modalità di questa visita.

Farina: Che significato dà, comunque, a questo evento?

Aziz: Gli iracheni hanno un rapporto di lunga tradizione con la Santa Sede; io stesso ho visitato il Pontefice per conto del mio paese. In Iraq abbiamo, tra l’altro. una delle Chiese più antiche del mondo, la Chiesa caldea in Iraq. Questa Chiesa è altamente rispettata e come è già noto fa parte della Chiesa cattolica. Infine, il padre delle religioni del libro, Abramo, era un iracheno, viveva ad Ur, e ha avviato la sua missione ad Ur. L’islam stesso guarda ad Abramo come padre dell’islam.

Farina: Il suo governo ha timore per la sicurezza del Papa durante questa visita?

Aziz: Ovviamente siamo responsabili della sicurezza dei nostri ospiti. Io credo che l’Iraq sia un paese sicuro; se il Papa deciderà di recarsi in visita in Iraq non dovrà temere per la propria sicurezza.

Farina: Lei ha detto che le relazioni tra Iraq e Vaticano sono eccellenti. Come sono le relazioni tra Iraq e Italia, che cosa si aspetta dal nostro paese?

Aziz: In passato, negli anni Settanta e Ottanta, intrattenevamo ottime relazioni con l’Italia, in tutti i settori, economico, finanziario, industriale, culturale. Per un certo periodo di tempo, durante l’applicazione dell’embargo, queste relazioni si sono congelate, ma siamo riusciti a riallacciare questi rapporti con scambio di missioni diplomatiche a Roma e a Baghdad. Ora stiamo firmando accordi con aziende italiane nell’ambito del programma "Oil for Food".

Farina: Che tipo di mondo immagina un uomo come lei all’inizio di questo nuovo millennio?

Aziz: Voi europei avete conosciuto l’esperienza della prima e seconda guerra mondiale nella prima metà di questo secolo e dopo la fine della seconda guerra mondiale avete conosciuto la pace e grazie alla pace avete potuto realizzare grossi progressi economici e anche culturali. Noi invece, sfortunatamente, siamo ancora nella morsa di una situazione molto difficile: il conflitto arabo-israeliano, molte guerre – specialmente quelle con l’Iran – l’aggressione contro l’Iraq da parte degli americani, e l’embargo. Quindi ora, in Iraq e nell’intera regione, è piuttosto diverso quello che proviamo da quello che potete provare voi, ma le attese e le aspettative sono, sul piano umano, le medesime. Speriamo che il prossimo millennio, il prossimo secolo, possa conoscere la pace, l’eguaglianza, la giustizia, non solo la pace. La pace senza giustizia ed eguaglianza non può durare a lungo.

Padoa Schioppa: Il piano Marshall ha avuto la straordinaria forza e capacità di combinare i tre elementi sui quali la pace e lo sviluppo in Europa si erano fondata ormai da 50 anni: il ripristino delle libertà democratiche, il sostegno economico allo sviluppo, la riconciliazione fra i nemici. Sono i tre elementi sui quali si può fondare la pace nel vasto arco geografico che va dal Baltico al Marocco. Se percorriamo i paesi, uno per uno, Iraq compreso, vediamo che questi elementi molto spesso sono mancanti a cominciare dal ripristino delle libertà democratiche. Democrazia non significa scegliere liberamente il proprio governo; Hitler per esempio è stato portato al potere da una vasta maggioranza di elettori del suo paese. Sappiamo oggi che democrazia vuol dire potersi pacificamente liberare del proprio governo e sostituirlo con un altro.

Il binomio pace-guerra si riferisce prevalentemente ai rapporti tra gli Stati. Il motivo è che all’interno degli Stati è lo Stato stesso che assicura la pace, attraverso l’impero della legge e il monopolio della violenza legale. Ancora oggi in Europa si crede che basterebbe avere una coincidenza tra Stato e nazione per avere la pace o che basterebbe avere una omogeneità etnica o di razza, di ceto, religiosa, ideologica: ognuna di queste illusioni è stata dimostrate tale attraverso enormi sofferenze e attraverso molto sangue versato. L’Europa ha sperimentato su se stessa e purtroppo ha inflitto a gran parte del mondo in modo barbaro il lato tragico del binomio pace e guerra, il lato diabolico delle varie illusioni enunciate, come quella di elevare lo Stato a oggetto di idolatria: esso stesso dimenticando che la sua nobiltà consiste nel dare pace all’interno non nel volersi imporre all’esterno con la stessa violenza che ha saputo vincere al proprio interno.

Se l’Europa è stata cattiva maestra per molta parte della sua storia – certamente nella prima metà del nostro secolo – successivamente è stata buona maestra su questi stessi temi nella seconda metà di questo: ha creato poteri sovranazionali nel campo dell’economia secondo lo stesso tipo di principi che regolano l’ordine e la pace all’interno di uno Stato. Il fondamento della costruzione europea è all’origine la gestione in comune del carbone e dell’acciaio. Sembra una cosa modesta, ma con il carbone e con l’acciaio sono state combattute le guerre per circa un secolo dalla metà dell’800 alla metà del’900. La costruzione è continuata nei trattati europei, affermando le quattro libertà: di movimento delle merci, dei servizi, delle persone, dei capitali. È una costruzione dal contenuto economico ma non di natura economica. Infatti, l’impulso che la ha generata è un impulso di carattere politico. Un uomo come Adenauer, che si vantava di capire quasi nulla di economia, decise che un mercato comune sarebbe stato una via di riconciliazione tra i paesi.

È chiaro che non basta questo tipo di unità a darci la pace: si tratta, perché non è ancora una unità politica, ma anche perché non ha portato al proprio esterno il metodo, la capacità di incivilimento dei rapporti umani che ha saputo dare a se stessa. C’è una vasta area geografica in cui i principi fondamentali non sono realizzati e forse non lo sono per il cattivo esempio che l’Europa ha dato. Il compito per l’Europa è contribuire al realizzare le stesse condizioni che si verificano al proprio interno quantomeno nell’area geografica che la circonda.

Folloni: Il Mediterraneo si presta ad essere o un luogo tra le due sponde, cerniera tra civiltà, momento di integrazione tra società diverse per religione e cultura, oppure faglia insanabile, luogo di tensioni e di conflitti, di squilibri economici, di migrazioni incontrollate, di differenti diritti di cittadinanza. A questo dilemma, che spesso occupa la storia e le cronache più recenti e cui si intende sollecitare una risposta, con la consapevolezza che senza di essa il futuro della stessa costruzione europea appare incerto e fragile.

Quando parliamo di Europa noi abbiamo presente non solo i trattati e le soluzioni politiche per le quali oggi gli italiani hanno la stessa moneta di tedeschi e francesi o il Parlamento di Strasburgo, pronto ad assumere più forti poteri rispetto ai governi delle singole nazioni. Facciamo memoria anche di radici culturali comuni che si manifestano nell’arte, nelle costituzioni democratiche, nelle piazze delle nostre città.

A nessuno sfugge però il fatto che, accanto ai giovani europei, oggi si affiancano altri giovani, provenienti da altri paesi, che le città di ognuna delle nostre nazioni divengono multietniche, che nella Roma dei Papi è stata edificata una grande moschea. Per qualcuno si tratta di uno scandaloso paradosso, ma credo lo si debba considerare più semplicemente il segno della condizione del nostro tempo, nel quale il mondo è divenuto più "piccolo", la comunicazione più veloce e più avvolgente, e l’intreccio delle diversità sociali, etniche e religiose in stretto contatto il potenziale che può sfociare in nuove forme di integrazione e di convivenza oppure scontrarsi e confliggere.

Dalla caduta del muro di Berlino in poi, da quando la profezia di La Pira e la fiducia da "berlinese" di J.F. Kennedy si sono avverate, il Mediterraneo e l’area medio orientale sono divenute il luogo di una nuova verifica. In dieci anni abbiamo assistito alla guerra nel Golfo contro l’Iraq di Saddam Hussein, al conflitto con la Libia del colonnello Gheddafi, alle guerre nelle repubbliche della ex Jugoslavia, all’acuirsi delle storiche tensioni dei territori del Kurdistan divisi sotto diverse nazioni spesso con il concorso degli eserciti europei, al terrorismo destabilizzatore pronto a radicarsi in paesi quali l’Algeria e l’Egitto, tra i più attivi nella politica di comprensione con l’Occidente e l’Europa. Mentre rimangono insoluti, nonostante ogni sforzo della comunità internazionale e la buona volontà di Arafat, la questione della Palestina, i problemi di confine tra Israele, il Libano e la Siria.

Gli europei sono profondamente e storicamente legati nell’alleanza atlantica con gli Stati Uniti d’America, ma non v’è dubbio che è diversa la percezione che dei problemi della sicurezza, della pace, dello sviluppo, della cooperazione nell’area mediterranea a Washington o in una qualunque delle capitali europea: l’America li vive come fatti esterni al proprio territorio, l’Europa come fatti interni.

Sostenere che l’area del Nord Africa e del Medio Oriente è prioritaria per l’Italia appare quasi una affermazione banale e ovvia, tanto tale concetto è intimamente connesso alla collocazione geo-strategica del nostro Paese. L’Italia, sia per motivi geografici, sia per ragioni politiche, culturali ed economiche, costituisce un "ponte ideale" tra due mondi, quello occidentale e quello arabo-islamico, destinati a confrontarsi sulle sponde del Mediterraneo. Secoli di storia lo testimoniano.

Gli eventi degli ultimi anni, ma, in questi giorni, anche l’emergenza rappresentata dai continui sbarchi sulle nostre coste di clandestini albanesi, kosovari, magrebini o curdi in cerca di un futuro migliore, le proiezioni demografiche che danno in calo la popolazione italiana autoctona e in crescita, a ragione dei diversi tassi di fertilità, quella delle popolazioni nord africane e di immigrazione, ci stanno a dimostrare come acquisire stabilità la prosperità e la sicurezza nella regione mediterranea costituisca per l’Italia e per l’Europa un fatto vitale.

Nelle molte capitali arabe e a Teheran dove mi sono recato, sia quale rappresentante della sezione italiana dell’Interparlamentare, sia come esponente delle numerose associazioni parlamentari bilaterali ed europee di amicizia ho sempre raccolto l’invito e la sollecitazione affinché la comunità europea stessa assuma questa iniziativa.

Il mondo arabo e quello medio orientale potrebbero concedere all’Europa credenziali di cooperazione e di dialogo che essi oggi faticano a riconoscere ai governi di oltre Atlantico, come la situazione nel Kosovo ci dimostra.

Non vi è dubbio che il nodo centrale è rappresentato dal processo di pace arabo-israeliano. Molti passi si sono compiuti negli scorsi anni, anche grazie alla lungimiranza di statisti come Sadat, Rabin, Arafat, Peres, Re Hussein di Giordania. Poi si è avuta la fase di stallo. Ora, dopo le recenti elezioni in Israele che hanno portato al governo Barak, pare aprirsi una fase positiva. L’Italia è sempre stata attiva protagonista dei passi storici compiuti in questo processo. Lo sarà anche in futuro.

Ma l’azione di cooperazione può aprirsi a tutto campo. L’Europa che oggi può proporsi come soggetto unitario ha di fronte un mondo arabo spesso diviso. È un rilievo che, senza iattanza, credo debba essere fatto alla nazione araba, invitandola a percorrere la lunga strada che conduce, per via democratica, alla collaborazione tra le diverse nazioni, in campo economico, sociale e alla fine anche politico.

Certo, per giungere a questo obiettivo lontano, occorre superare punti di crisi acuta che oggi ancora permangono. La diplomazia italiana si è adoperata, ad esempio, per contribuire alla soluzione del complesso problema dell’Iraq, che ha conosciuto un nuovo drammatico sviluppo con i bombardamenti anglo americani del dicembre scorso. Dopo anni di un lunghissimo embargo la crisi fra l’Iraq e la comunità internazionale è tornata acuta. Da allora, praticamente ogni giorno, aerei anglo americani bombardano, a nord e a sud di Baghdad, obiettivi dichiarati militari in quelle due zone che gli Stati Uniti considerano interdette al volo.

A fronte di tale situazione, l’Italia ha affermato con forza la necessità che l’ONU si ponga responsabilmente e con urgenza il problema del riesame complessivo dell’intera questione, al fine di riprendere la cooperazione tra I’Iraq e gli organismi preposti a controllare il disarmo, al fine da avviare in tal modo, in ossequio alle pertinenti risoluzioni del Consiglio di sicurezza, un processo graduale che dovrebbe progressivamente portare alla fine delle sanzioni.

Anche i fautori più convinti dell’uso dello strumento militare e del durissimo regime di embargo imposto all’Iraq credo debbano ammettere che essi si sono rivelati inadeguati. Al contrario, l’embargo non ha indebolito Saddam Hussein e ha per contro inferto ferite moralmente inaccettabili alle popolazioni, come testimoniato da autorevoli organismi internazionali, colpendo particolarmente i vecchi e i bambini, e producendo una sorta di genocidio strisciante. Contemporaneamente, a seguito dell’uso dello strumento militare è emerso nelle opinioni pubbliche del mondo arabo un forte senso di disagio, un livore quando non una aperta ostilità, per quella che viene percepita come una ingiusta politica occidentale, in primis statunitense, dei "due pesi e due misure". Rigidissimo nel pretendere immediatamente e puntualmente da parte irachena il completo rispetto delle risoluzioni dell’ONU, al punto da ricorrere a massicci bombardamenti, l’Occidente diviene tollerante quando si tratta di esigere il rispetto della risoluzione del Consiglio di sicurezza n. 242, adottata oltre trent’anni fa o l’attuazione della risoluzione dell’ONU n. 425, che chiede il ritiro delle truppe israeliane dal Libano meridionale.

Giusti o sbagliati, questi sentimenti creano esacerbazione e frustrazione per un mondo arabo che, sottoposto al divide et impera dell’Occidente, stenta a trovare una sua voce, a divenire interlocutore autorevole tanto per il negoziato di pace con Israele, quanto per una cooperazione piena e convinta con i paesi europei.

L’Occidente lamenta il pericolo del terrorismo, ma poi poco considera il fatto che esso, coniugato al fondamentalismo religioso, trova il suo più fertile humus proprio nella sensazione di essere vittime di ingiustizia.

L’Europa si è dotata di alcuni importanti strumenti per valutare politiche di integrazione con il Nord Africa e il Medio Oriente e per un processo di cooperazione euro mediterranea. Con essi sono stati individuati anche i capitoli di un comune denominatore: il rispetto dei diritti umani, la loro applicazione secondo il principio di reciprocità, la collaborazione in campo economico, agricolo ed industriale, una politica di sviluppo sostenibile, la collaborazione per la regolamentazione dei flussi migratori, una valorizzazione delle risorse energetiche e idriche.

Se l’Europa ha fame di petrolio, i paesi arabi hanno sete d’acqua. Se tali strumenti segnano il passo è per la scarsa convinzione politica. Ancora pesa l’incertezza di fronte al dilemma: perché l’Europa non ha ancora iniziato a pensarsi politicamente

In realtà per l’Europa non esiste una vera alternativa strategica al dialogo e alla cooperazione con il mondo arabo. Le sanzioni non lo sono. Quando riescono nel loro intento è perché si pongono degli obiettivi ben precisi e definiti, cosi come contengono chiari i meccanismi di levata delle misure restrittive: nel caso della Libia, al momento della consegna dei due sospettati, le sanzioni sono state immediatamente sospese. Lo stesso è accaduto con l’Iran per il cosiddetto caso Mikonos: gli ambasciatori europei, ritirati da Teheran ad aprile, sono immediatamente rientrati a dicembre, a fronte di precisi e misurabili atti iraniani.

Viceversa esse non funzionano e sono al contrario inaccettabili quando si pongono con obiettivi troppo vasti e vaghi. È il caso dell’Iraq, dove la richiesta sembra non essere tanto un preciso comportamento del governo in carica nel paese sanzionato, quanto la volontà di mantenerlo isolato. Da un lato si chiede a Baghdad di adempiere gli obblighi in materia di disarmo, dall’altro gli USA non hanno mai fatto mistero che il loro obiettivo è rovesciare Saddam. Come si possa chiedere la sua collaborazione con l’UNSCOM in una siffatta eterogeneità di fini è un mistero. Un mistero che peraltro produce vittime tra la popolazione civile, instabilità nell’area e alimenta quel sentimento anti occidentale che giova ai cultori del terrorismo.

Voglio concludere con un paradosso, non a tutti evidente. L’Iraq, come la Libia fino a ieri sotto embargo, sono, nel mondo arabo, le nazioni che maggiormente hanno riconosciuto il diritto alla libertà religiosa. A Baghdad come a Tripoli è possibile quella pratica di culto cattolico che molte altre nazioni arabe, amiche o alleate dell’occidente invece ancora vietano.

L’Algeria, una nazione nord africana che si è posta come obiettivo l’accettazione di quegli standard di diritti, di democrazia, di reciprocità che l’Occidente riconosce come base necessaria per ogni convivenza, è vittima di un feroce terrorismo che si nutre delle stragi di civili inermi.

Pare quasi che i ponti che possono essere costruiti per la cooperazione euro-araba, per la stabilizzazione di questo angolo di mondo, culla di ogni civiltà e oggi punto geo-strategicamente decisivo, siano interrotti, bombardati, sotto embargo o in via di destabilizzazione. Pare quasi che l’Occidente non si curi di riattivare questi ponti. Che non abbia a cuore i punti di saldatura.

Tocca all’Europa, che vuole nascere politicamente, riaprire questi ponti di dialogo e di civiltà.

Martin: Vorrei invitare tutti a un viaggio immaginario attraverso l’Africa, cominciando in Eritrea, sulla costa orientale, passando per il Sudan, l’Uganda, il Ruanda, il Burundi la Repubblica Democratica del Congo, per arrivare alla costa occidentale l’Angola e la Namibia da una parte, la Liberia e la Sierra Leone dall’altra. Tutti i paesi che attraversiamo in questo viaggio hanno in comune di essere tutti paesi in guerra, di non avere visto la pace. L’Europa oggi non può trascurare questa sofferenza delle popolazioni in Africa.

Questi paesi sono anche i paesi più poveri del mondo: tutte le cifre, tutti gli indicatori riguardanti la povertà e la situazione sociale sono tornati indietro; in alcuni paesi dell’Africa, nonostante il grande progresso, l’attesa della vita è scesa a 37 anni.

Il Papa di fronte a questa situazione di grande disuguaglianza ci propone un Giubileo: un momento di pausa per esaminare come il mio comportamento in quanto persona o come il nostro comportamento in quanto comunità sia riuscito a conservare o a distruggere il disegno originario di Dio. Il disegno originario di Dio è il disegno di armonia e di equità tra le persone, tra la popolazione, tra l’umanità e il resto del creato; Dio ha voluto destinare il creato per il bene di tutti, per i beni della terra, del lavoro, della scienza e del sapere. Un articolo di "The Economist" della settimana scorsa sottolinea il divario oggi nella distribuzione dei frutti della conoscenza: il 10% della ricerca va verso la malattia dei poveri, il 90% è destinato alla malattia dei ricchi. Celebrare il Giubileo significa cambiare questo rapporto.

Questa visione del Giubileo è un sogno o ha qualcosa da offrire in concreto per la elaborazione di un piano politico economico globale oggi in Europa? Noi parliamo molto della globalizzazione delle finanze; parliamo meno della globalizzazione della solidarietà, ovvero della partecipazione del più grande numero possibile di cittadini del mondo come protagonisti. Un sistema economico che lascia ai propri margini milioni di persone, non sarà mai un’economia stabile, un sistema economico e politico che crea esclusione e grande disuguaglianza non sarà mai ne stabile ne globale. L’Europa non può trascurare la situazione di povertà, di insicurezza di instabilità, che esiste in qualsiasi parte del mondo. La fine della guerra fredda ha significato la fine della polarizzazione tra due super potenze ma non ha significato la fine della polarizzazione della divisione. In questo senso l’Europa non deve mirare ad essere una super-potenza, ma un grande partner, partner che facilita i più poveri, e che aiuta i paesi più poveri a inserirsi nella famiglia dei paesi democratici.

Il settore privato stesso deve essere pronto ad assumere responsabilità sociali e di solidarietà e deve coinvolgere anche una politica inclusiva di collaborazione la società civile, i gruppi a livello privato e le organizzazioni non governative e anche il contatto tra le persone delle diverse parti del mondo.

Il contatto personale è molto importante per cercare di ridurre i pregiudizi. In questo senso è importante il dialogo inter religioso per lo sviluppo e per la conservazione della pace in questa regione, soprattutto il dialogo tra l’islam, il cristianesimo e l’ebraismo. Si parla molto di scontri o possibili scontri tra le culture e le civiltà e proprio per dare un segno diverso che il Papa vorrebbe visitare i luoghi legati ad Abramo, Padre nella fede delle tra grandi religioni, luoghi come Ur dei caldei in Iraq. Spero che il Papa potrà essere il primo come ha fatto a Cuba a far giungere le sue parole di pace e di giustizia a tutta la popolazione irachena.