Sud 1996: 25% di disoccupati. Il contributo delle Istituzioni e delle Camere di Commercio alla risoluzione del problema

In collaborazione con Unioncamere

Lunedì 19, ore 18.30

Relatori: Roberto Costanzo, Giuseppe Provenzano,
Carlo Borgomeo, Vice Presidente Unioncamere e Presidente della Regione Siciliana
Presidente di Imprenditorialità Presidente della Camera
Giovanile Spa di Commercio di Benevento

 

Borgomeo: In ciascuno di noi, quando si parla di occupazione, convivono due atteggiamenti. Il primo è la condivisione della preoccupazione di quanti denunciano che la disoccupazione giovanile, soprattutto al Sud, è il problema sociale più grave del paese: i dati infatti sono tali da far immaginare che centinaia di migliaia di giovani meridionali non lavoreranno nei prossimi anni. Contemporaneamente a tale preoccupazione però cresce una specie di frustrazione, di percezione di impotenza: infatti da un po’ di tempo si è aggravata la denuncia sui problemi della disoccupazione, che sembra crescere inesorabilmente, dando così l’impressione che non si possa fare niente per tentare di risolvere la questione.

Che cosa è veramente cambiato per portare a questo dramma della disoccupazione? È cambiato in maniera radicale il modo di produrre e di conseguenza di lavorare. Le nuove ragioni della competitività internazionale infatti sono tali per cui il lavoro al quale noi eravamo abituati a pensare, il posto di lavoro tradizionale che non cambiava mai nel corso della vita, non c’è più o è molto meno centrale di prima. Per questo stiamo incominciando a dire, ai giovani soprattutto, che non bisogna avere la cultura del posto. Purtroppo però ho l’impressione che ci sia uno scarto molto forte tra la percezione che abbiamo che il lavoro è cambiato e i comportamenti conseguenti. Ad esempio, è ormai chiaro che non c’è più rapporto automatico tra incremento dello sviluppo e incremento dell’occupazione, come invece riteneva la mia generazione, abituata a pensare che per avere occupazione bisognava prima avere lo sviluppo. Lo sviluppo è necessario, ma non con le vecchie regole, poiché con i vecchi sistemi non si produce l’occupazione che ci aspetteremmo. Noi riconosciamo questo, ma non arriviamo a trarne le conseguenze necessarie.

Si possono invece individuare alcune linee di comportamento Anzitutto, la cosiddetta politica attiva del lavoro: bisogna dedicare più risorse – non solo finanziarie, ma anche di progettazione, di sperimentazione, di attenzione – alle questioni del lavoro. Non bisogna aspettarsi l’evento, non basta stanziare dei soldi per risolvere il problema: la complessità della questione è tale che bisogna abituarsi a una batteria di interventi e soprattutto a una continuità nell’impegno per il lavoro. Tutti i giorni, tutti gli assessorati, tutti gli uffici devono verificare quali sono le possibili innovazioni: ci vuole una capacità di innovazione straordinaria, bisogna avere il coraggio di cambiare e di sperimentare. L’innovatore è colui che sperimenta, la cui unica certezza è che bisogna cambiare, perché i sistemi attuali non reggono più.

In secondo luogo vi è la questione della formazione professionale. È sotto gli occhi di tutti che chi deve fare formazione professionale deve fare i salti mortali, perché si ha il vincolo insuperabile dei formatori, e si finisce per fare il piano di formazione per trovare da lavorare ai formatori professionali e non per interpretare le esigenze delle domande di lavoro.

In terzo luogo occorre moltiplicare gli interventi che spingono i giovani a mettersi in proprio. La legge 44 ha dato discreti risultati, ha un buon tasso di sopravvivenza delle imprese, ma ci vogliono anche leggi regionali e incentivo del lavoro autonomo.

Rispetto a questi problemi, non sempre vi è disponibilità all’innovazione: per esempio il sindacato ha una resistenza piuttosto forte a discutere la possibilità che al Sud le nuove imprese possano avere uno sconto del 30% sul costo del lavoro, giustificato dal fatto che un’azienda in partenza ha una produttività del lavoro più bassa perciò un costo del lavoro più alto. Dall’altra parte, la Confindustria dice di no a qualsiasi ragionamento sull’orario del lavoro; i contratti a termine sono difficilissimi da gestire, il part-time è un decimo rispetto ad altri paesi europei, si parla da due anni di lavoro interinale senza che si sia ancora realizzato... nessuna di queste forme invece è risolutiva, ma sicuramente messe insieme allevierebbero il problema. Non è decisivo cambiare i contratti per l’occupazione, ma è sicuramente molto utile; bisogna avere il coraggio di decidere di abbassare un po’ il livello di garanzia per chi lavora per aumentare il numero di quelli che lavorano. C’è chi sostiene che abbassare il livello di garanzia significhi gestire il precariato, e che per risolvere il problema disoccupazione sia sufficiente nei prossimi sei anni un incremento del prodotto lordo del 7%. Ma questo è impossibile, le previsioni oscillano dall’1,2%-1,3% – se ci va bene! – al 2%-3% – se ci va benissimo! –.

Costanzo: Si dice spesso che 40 anni di politica di sviluppo nel Mezzogiorno sono stati anni di interventi non ben mirati: però essi sono serviti ad affrontare qualche problema, a risvegliare delle situazioni e ad avviare alcune linee di sviluppo. L’esempio più chiaro è l’esperimento della 44, forse l’unico caso di una iniziativa inventata e avviata nel Mezzogiorno che in seguito è stata ripresa e diffusa anche in altre parti del paese. Oggi dobbiamo pensare più interventi ispirati ai criteri della sussidiarietà che non a quelli della solidarietà, nel senso della beneficienza o della caritativa. Come dice la parabola evangelica: a chi ha sarà dato, a chi non ha sarà tolto anche quello che ha, cioè a chi ha idee, volontà e senso del rischio per avviare qualcosa, sarà dato.

Come ha richiamato Borgomeo, le Camera di Commercio possono costituire i punti forza per creare nuovi posti di lavoro, e proprio per questo hanno bisogno di considerazioni, di rapporti, di relazioni che nel passato non esistevano. Nel Mezzogiorno, ci troviamo di fronte ad una disoccupazione di circa il 25% delle forze lavorative: i problemi quindi sono come creare nuovi posti di lavoro e come consolidare quelli che ci sono, ed anche come far diventare posti reali quelli che sono posti di lavoro nero, il lavoro cosiddetto sommerso, inserendo quelle attività nel circuito del mercato reale e legale.

Tra le poche cose positive registrate negli ultimi tempi nel Mezzogiorno, vi è il tasso di natalità delle imprese: nel 1995 infatti esso è stato addirittura superiore a quello del centro-nord. Un fatto ancora più significativo è che l’incremento del numero delle società, sia quelle di persona che quelle di capitale è stato superiore nel sud rispetto al centro-nord. Questo potrebbe essere considerato una spia di un nuovo modo di concepire l’attività produttiva nel Mezzogiorno: probabilmente è il frutto del seme di tutta l’azione di sensibilizzazione e di divulgazione avviata dalla legge 44 e poi allargata sempre in maniera concentrica in tutto il territorio meridionale.

Certo ci sono ancora degli ostacoli che impediscono al Mezzogiorno di decollare e di avvicinarsi in qualche modo al passo delle altre regioni del centro-nord. Innanzitutto, le infrastrutture: non si può dire che in questi 40 anni non siano state realizzate infrastrutture, però, mentre in una certa misura è stato soddisfatto il bisogno civile delle infrastrutture, non sempre è stato soddisfatto il bisogno produttivo, cioè l’infrastruttura non è stata realizzata al servizio dei settori produttivi.

Un altro ostacolo è quello dello sviluppo del turismo: il Mezzogiorno è un territorio che dispone delle risorse e delle potenzialità più grandi d’Italia per quanto concerne il turismo, eppure nelle otto regioni meridionali – compresa la Sardegna e la Sicilia – si realizza un fatturato annuo in campo turistico che è inferiore al 25% a quello del centro-nord. Per questo, il turismo è uno dei settori da espandere, anche perché un posto di lavoro nell’attività turistica viene a costare la quarta parte di un posto di lavoro nel campo industriale.

Un altro ostacolo allo sviluppo è rappresentato dai dati relativi alla ricerca: oggi, le imprese del Mezzogiorno investono soltanto il 6,6% del totale nazionale. L’intervento pubblico dovrebbe agevolare questo tipo di investimento, altrimenti l’impresa meridionale non realizzerà quel livello di competitività indispensabile per poter reggere sul mercato.

Infine, c’è il problema del rapporto impresa-mondo bancario: al sud mediamente un’impresa paga un tasso del 13.5%, rispetto all’11,2% di un’impresa del centro-nord.

Per concludere e ripercorrere sinteticamente quanto fin qui detto, vorrei dire che la piccola-media impresa, unitamente al turismo, potranno dare il loro contributo alla soluzione dell’emergenza occupazionale nel Mezzogiorno se saranno risolti quattro problemi.

Il primo è la diffusione della cultura d’impresa. In passato si è pensato che lo sviluppo industriale del sud potesse avvenire trapiantando imprese dal nord verso il sud, e quindi portando intelligenze e imprenditorialità dal di fuori, anziché puntando sulla creazione, formazione e crescita della imprenditorialità.

Il secondo è la formazione professionale, che nel Mezzogiorno serve più a garantire il posto di lavoro ai formatori che a formare i giovani che vogliono crearsi una nuova professione.

Un altro problema terribile è la pubblica amministrazione: il rapporto tra impresa e pubblica amministrazione è un rapporto terribilmente pesante e che fa perdere tempo. Occorre quindi una riforma della pubblica amministrazione che consenta di snellire e di accelerare le procedure.

Infine, il turismo. Le infrastruttore utili ai settori economici in espansione di maggiore prospettiva, come già ho detto, sono a mio avviso il turismo e la piccola-media impresa. In questo senso e lungo questa ottica si muove il progetto Mezzogiorno approvato dal consiglio nazionale dell’Unioncamere che vuol rendere le Camere di Commercio del Mezzogiorno un centro motore per le piccole-medie imprese, aprendo sportelli che diano risposte in termini di certificazione, di attestati vari, ma anche in termini di azione propulsiva di orientamento e di promozione.

Provenzano: Di fronte alla domanda "cosa le istituzioni possono fare per ridurre la disoccupazione?" – che da noi in Sicilia è molto più elevata del 25% –, io non ho delle ricette. Ho solo una ricetta complessiva: siccome la disoccupazione non è una causa ma un effetto, bisogna capire le cause della disoccupazione, capire perché venendo da Brescia a Rimini si incontra una realtà completamente diversa rispetto a quella che si incontra facendo la Trapani-Messina.

La prima cosa che deve essere fatta in Sicilia è riappropriarsi dello Statuto, della autonomia esistente. Nel 1946, dopo lo sbarco degli americani in Sicilia, un anno dopo il termine della guerra nel resto dell’Italia, una gran parte dei siciliani non voleva l’indipendenza ma l’annessione agli Stati Uniti d’America, che da parte loro vedevano con molto interesse una nuova stella nel centro del Mediterraneo. Siccome gli americani erano sbarcati in Sicilia anche grazie all’aiuto della mafia, il connubio Stati Uniti-mafia era quell’elemento che avrebbe certamente portato il separatismo siciliano a creare una nuova realtà. Si combattè questa situazione dando alla Sicilia uno Statuto, che fa parte integrante della Costituzione italiana, pur essendone più vecchio Questo Statuto del 1946 pone, potenzialmente, uno Stato all’interno dello Stato, con una indipendenza difficilmente immaginabile. Basta dire, per esempio, che l’articolo 21 stabilisce che il Presidente della Regione Siciliana sieda in Consiglio dei Ministri con voto deliberativo su tutti gli argomenti che riguardano la regione, e con voto consultivo per ciò che non riguarda la Regione Siciliana. Di fatto questo Statuto dà al Presidente della Regione il grado di Ministro, perché già allora si comprendeva che il rappresentante degli interessi di una Regione potesse esercitare una certa contrapposizione all’interno degli interessi dello Stato. Un altro esempio è l’autonomia fiscale. L’articolo 36 dello Statuto dice che la regione determina le imposte: il governo regionale potrebbe per esempio decidere per l’IRPEF del 22% e non del 36%. Ci sono ancora altri elementi di autonomia, come l’Altacorte, una Corte Costituzionale per verificare che le leggi dello stato non siano in contrapposizione con lo Statuto siciliano. Lo Stato non può fare una legge in contrasto con lo Statuto, posto che lo Statuto è Costituzione della Repubblica, motivo per il quale l’Altacorte deve verificare la legittimità del legiferare dello Stato in rapporto allo Statuto.

Ma la realtà è stata un’altra. Lo Statuto è teoricamente eccezionale, e dà alla Sicilia una grandissima autonomia, ma di fatto per 50 anni vi è stato uno svuotamento costante e continuo dello Statuto, sia attraverso norme di attuazione mai discusse, sia attraverso un latrocinio costante e continuo che lo Stato ha compiuto nei confronti della Sicilia, svuotandone le prerogative di autonomia o addirittura caricandola di costi senza benefici.

Cosa c’entra questo con la disoccupazione? Non vogliamo più chiedere, dobbiamo invece pretendere ciò che ci deve essere dato, e questo Statuto che abbiamo da 50 anni deve essere la prima base importante per poter creare le condizioni fondamentali per lo sviluppo. Per questo è evidente che l’azione di un governo deve essere quella di far capire che certamente bisogna voltare pagina, e questo significa anche non aspettare più che l’ente pubblico crei il posto di lavoro, ma crearlo autonomamente.

L’ente pubblico deve piuttosto porre le condizioni interne ed esterne per tale cambiamento di mentalità. Tra le condizioni esterne vi è anche un problema di immagine. A questo proposito, come siciliani, dobbiamo dire che siamo l’unico popolo in Italia che negli ultimi quindici anni ha pensato a sé ed è riuscito a fare un’analisi critica che altri non hanno fatto: da terra della mafia, la Sicilia è diventata terra dell’antimafia, per questo i mass-media e l’immaginario collettivo devono comprendere che investire in Sicilia è investire in una regione nella quale la mafia (che comunque non è un fenomeno solo siciliano!) è ormai sotto controllo, non solo da parte delle forze dell’ordine e della magistratura, ma anche della coscienza civile.

Sempre a livello delle condizioni esterne vi è un altro momento fondamentale che il governo e le istituzioni devono assolutamente rappresentare: equiparare le infrastrutture. Esse infatti in Sicilia sono mediamente tra il 6 e l’8% di quelle nazionali, per cui il governo deve pretendere che si arrivi ad una equiparazione. Le scelte di investimento dello Stato invece sono solitamente basate soltanto sull’immediato ritorno del capitale, ed è evidente che le ferrovie dello Stato investono un miliardo per qualche chilometro in più nella Brescia-Milano o nella Padova-Bologna piuttosto che nella Palermo-Agrigento. Ma senza infrastrutture paritarie la disoccupazione non potrà essere paritaria.

Oggi, nel momento in cui si comprende che a livello economico – prescindendo da quanto dice Bossi – non vi sono due Italie ma un’Italia legata all’altra, le richieste da parte della Regione siciliana devono essere assolutamente chiare. La nostra richiesta sarà una, perché in essa si concretizzano tutte le altre: l’applicazione al cento per cento del nostro Statuto, che è carta della Costituzione italiana e che come tale non può essere dimenticata.