Bosnia e Libano: terre di una convivenza possibile

In collaborazione con AVSI

Giovedì 28, ore 11.30

Relatori:

Sua Ecc. Mons. Bechara Raï, Vescovo di Jbeil dei Maroniti.

Sua Em. Card. Vinko Puljic, Arcivescovo di Sarajevo

Arturo Alberti, Presidente di AVSI

Alberti: Nei venticinque anni della sua fondazione – dal ‘72 al ‘97 – l’AVSI è stato uno strumento importante per incontrare i popoli, per incontrare delle persone che sono diventate amiche, per costruire in molti paesi del mondo condizioni di vita che hanno dato una rinnovata speranza. Abbiamo sintetizzato il nostro lavoro in un breve filmato che adesso vedremo insieme.

"Venticinque anni fa, sette volontari italiani in Zaire si unirono alla popolazione per realizzare alcune opere: un dispensario, una riseria, un oleificio, una officina meccanica e una centrale idroelettrica. La volontà di non disperdere quella goccia ha dato vita all’AVSI. Nel 1973 siamo stati riconosciuti ufficialmente come organizzazione non governativa dal Ministero degli Affari Esteri. Da allora è nato un impegno costante per essere una persona al servizio della persona. È con questo spirito che nel 1982 è iniziato il nostro impegno in Uganda.

La goccia è diventata un ruscello sempre in crescita e sempre con la volontà di condividere le esperienze con la gente del mondo. Negli anni abbiamo realizzato ospedali, scuole, riabilitazione motoria degli handicappati, interventi agricoli; abbiamo avviato attività artigianali. Questa grande esperienza ci ha insegnato cos’è l’approccio globale: considerare la persona e tutti i suoi bisogni materiali e spirituali come il centro del progetto. Ma soprattutto ci ha insegnato a ricercare una posizione attiva in chi riceve aiuto, rendendolo promotore del coinvolgimento di tutta la comunità. Nascono così nuove esigenze che modificano il progetto, condividendolo con tutte le presenze già attive sul posto. Questo ci consente una continua verifica delle esperienze in atto, e rinnova la volontà di intervento a qualsiasi livello. Anche un pozzo può essere il motore per tante altre opere.

Il nostro fiume continua il suo percorso raccogliendo le energie dei volontari sparsi per il mondo con quelle di chi in Italia si impegna costantemente nell’organizzazione. In Italia infatti ricerchiamo i fondi affrontando le difficoltà burocratiche nel rapporto con gli enti finanziatori nazionali ed internazionali, e ci impegniamo a vincere l’egoismo – o forse solo la pigrizia – della gente. Studiamo i nuovi progetti di intervento, sempre con una visione di approccio globale come quella che ci ha consentito la grande esperienza di condivisione con la gente delle favelas. In Brasile abbiamo realizzato scuole, asili, centri assistenziali, e soprattutto progetti di risanamento ambientale che hanno coinvolto oltre trecentomila abitanti delle favelas, che hanno potuto così diventare legalmente proprietari del terreno su cui sorge la loro abitazione, trasformando le favelas in quartieri delle città che usufruiscono a pieno diritto dei servizi. E da queste opere ne sono nate altre gestite totalmente dalla popolazione locale: officine, laboratori, centri di incontro, negozi.

Il nostro impegno non conosce confini. In Romania, con la collaborazione sanitaria degli ospedali italiani, abbiamo ricostruito il reparto pediatrico per bambini afflitti da AIDS all’ospedale di Bucarest. Il nostro sogno è ridare una famiglia a questi piccoli.

In Polonia abbiamo realizzato un progetto di formazione professionale.

In collaborazione con organismi internazionali siamo in prima linea nell’aiuto comunitario ai profughi del Sudan e della Ruanda. In Albania aiutiamo chi opera a ridare speranza.

Abbiamo grandi progetti, come quello di riabilitare il sistema sanitario della regione settentrionale del Libano. Ma soprattutto abbiamo una grande commozione e condivisione per il dolore dei nostri fratelli. Siamo presenti dove c’è bisogno di aiuto, ma siamo anche promotori di condivisione tra esperienze lontane. Quattromila e cinquecento adozioni a distanza sono un risultato straordinario che ha dato la speranza di un futuro migliore a bambini, ragazzi e giovani in ben dieci paesi.

Questa esperienza straordinaria ha portato noi dell’AVSI ad un altissimo tasso di autofinanziamento e infatti oltre il 55% dei fondi provengono da donatori privati, risultato eccezionale ottenuto anche grazie alla grande mobilitazione delle "Tende di Natale". Dal 1990 un sempre crescente numero di volontari porta in più di trecento città italiane migliaia di tende ideali, per far conoscere le nostre iniziative e perché tutti possano dare il proprio contributo a sostegno dei nostri interventi.

Ma la sensibilizzazione non si limita a questo. Formazione di insegnanti, incontri con gli studenti, convegni, la pubblicazione di una rivista, sono tutti strumenti per aumentare la condivisione, portando l’operato dell’AVSI a conoscenza di tutti: singoli cittadini, aziende, associazioni, istituzioni pubbliche e private.

Siamo orgogliosi di aver sostenuto l’opera di tanti volontari nel mondo, e di essere riconosciuti come collaboratori di enti e agenzie internazionali. Per noi un giocattolo per i bambini più sfortunati non rimane una goccia, ma l’inizio del mare della solidarietà".

Questo lavoro di solidarietà qui sinteticamente descritto, si svolge all’interno di alcune categorie metodologiche che per noi sono molto importanti. Qualche anno fa, don Giussani all’Assemblea nazionale della Compagnia delle Opere, cui anche l’AVSI aderisce, si rivolse in questo modo ai partecipanti: "La vostra compagnia è tesa a creare una casa più abitabile per l’uomo, e ci riesce, poco o tanto non importa, ma ci riesce. Ognuno di voi l’ha sperimentato. Perché la vostra compagnia è tesa a creare una casa abitabile per l’uomo? Perché la vostra passione è l’uomo nella sua concretezza evidente. Vale a dire l’uomo che è nel bisogno. È nel bisogno infatti che l’uomo è e si ritrova veramente se stesso, e il bisogno è oggi. Pensare di risolvere il bisogno domani o tra un anno, è altamente equivoco, e non colloca subito i fattori in modo più propizio per rispondere alla fame e alla sete, alla necessità che l’uomo vive adesso. Domandiamoci perché Gesù suscitava tanta curiosità e stupore in chi lo incontrava? Perché era un uomo nel quale chiunque lo vedeva agire e lo sentiva parlare, percepiva una cosa, soprattutto una cosa: non la Trinità, non l’inferno e il paradiso, ma una passione per l’uomo. Innanzitutto una passione per il bisogno dell’uomo, una pietà per l’uomo: ‘Volse lo sguardo e vide tutta quella folla ed ebbe pietà per loro perché erano come un gregge senza pastore’ ".

In questo breve testo è sinteticamente descritto il cammino di questi anni: il soggetto non è l’individuo isolato, ma una persona in compagnia. Quando si vede qualcuno in un bisogno ci si mette insieme per trovare una risposta adeguata. L’AVSI è esperienza di un "fare con", segnata dalla gratuità che continua anche oggi in tanti modi diversi con i volontari in Italia e all’estero. La compagnia dell’AVSI è tesa a creare una casa più abitabile per l’uomo. Le iniziative intraprese, i progetti grandi o piccoli, i quotidiani sacrifici dei nostri volontari in azione in Africa, America Latina o altrove, sono segnati da questa tensione all’uomo nella sua concretezza evidente. La prima casa resa più abitabile è la persona stessa, perché la povertà, la malattia, la mancanza di lavoro, le difficoltà insormontabili fanno spesso diventare l’uomo nemico di se stesso. La risposta al bisogno non ha quindi come spunto principale l’attuazione di un compito istituzionale di carattere umanitario, che discenderebbe dalla nostra natura di opera di solidarietà internazionale, ma una passione alla valorizzazione dell’io, visto nella sua globalità e unicità.

Il lavoro principale è consistito nel far nascere delle personalità che sapessero assumersi una responsabilità costruttiva per sé e per il proprio popolo, attraverso anche la presenza dei volontari. Questi uomini che abbiamo incontrato si sono sentiti guardati come persone, non definiti soltanto dai loro bisogni, hanno cominciato a dire "io" con dignità, con consapevolezza nuova e hanno fatto crescere in modo inaspettato creatività, fantasia e progettualità. Questo sguardo alla persona avviene sempre nella concretezza delle circostanze e dei bisogni: non ci interessano le categorie dei bisogni, ma le persone nei loro bisogni concreti. E il bisogno concreto ci provoca ad una risposta che non tralascia a priori nessuna opportunità e nessuna occasione.

Quando i nostri volontari in Brasile hanno incontrato i favelados che vivono nelle baraccopoli senza una vera casa, è nata una operatività che è andata dal migliorare le loro condizioni di vita quotidiane al ricercare, nel tempo, gli strumenti culturali, metodologici, tecnologici e politici per affrontare la problematica della povertà urbana che coinvolge oggi milioni di persone in Brasile e in tutta l’America Latina. Dalla pietà per il primo favelado incontrato quattordici anni fa dai nostri volontari nella favela "Primero de Majo" a Belo Horizonte, dove è parroco il nostro amico Pigi Bernareggi, si è sviluppata una esperienza che oggi è considerata punto di riferimento per esperti internazionali nel settore dell’habitat, per municipi e persino per la Banca Mondiale. La stessa dinamica è stata alla base del lavoro a favore dei bambini traumatizzati dalla guerra in Ruanda e dei bambini ammalati di AIDS in Romania.

Nelle realtà del Libano e della Bosnia – in particolare Sarajevo – abbiamo incontrato alcuni amici che ci hanno provocato ad una sfida, la sfida di cominciare una presenza per contribuire allo sviluppo della pacificazione di quelle realtà. A Sarajevo, una chiesa martire ha fatto la scelta prioritaria di dedicare tutte le proprie energie al compito educativo, e quando ancora le bombe cadevano quotidianamente su Sarajevo, la diocesi ha costituito una scuola multietnica, frequentata da croato-cattolici, bosniaci, musulmani e serbo-ortodossi. Un luogo di convivenza, di rispetto reciproco, di ricostruzione di un tessuto sociale distrutto dalla guerra e dall’odio. La scuola ha fatto incontrare non solo i bambini di differenti etnie e religioni, ma anche i genitori, che nell’impegno comune per garantire una adeguata formazione ai propri figli hanno scoperto di essere uomini accomunati dallo stesso desiderio di felicità e di compimento, e hanno cominciato a fare un cammino insieme. Stiamo cercando di aiutare questa realtà perché siamo convinti che la pace si costruisca anche dimostrando una possibilità nuova di convivenza come questa scuola, e non soltanto affermando dei principi e dei valori a priori che non trovano la conferma nella realtà. Questa scuola esiste, è una realtà, è una fatica quotidiana della realtà ecclesiale di Sarajevo che vuole dimostrare questa possibilità per tutti e non solo per i cattolici.

In Libano la guerra è finita, ma la pace è ancora da costruire. Molti cercano di dimostrare che la convivenza tra diversi è possibile, tanti altri però boicottano questo cammino e questa possibilità. Da un anno è presente un progetto dell’AVSI e dei suoi volontari, un progetto sanitario in collaborazione col governo e con la Chiesa, una Chiesa sofferente e preoccupata di non poter più avere una presenza significativa nel paese, ma nello stesso tempo decisa e impegnata a dare una risposta ai bisogni quotidiani del popolo in mezzo a cui vive e testimonia la resurrezione di Cristo.

Noi, con le nostre modeste risorse umane e materiali, ci mettiamo comunque a disposizione di queste realtà così diverse ma per tanti aspetti simili, per partecipare ad un processo di ricostruzione morale e materiale e camminare insieme sulla via di una possibile e auspicabile pacificazione.

Bechara Raï: Il mio intervento si dividerà in due parti, l’esperienza e la testimonianza, precedute da una breve introduzione storica della società libanese.

Introduzione

Nell’omelia tenuta nella celebrazione eucaristica alla fine dell’assemblea speciale per il Libano del Sinodo dei Vescovi nella basilica di san Pietro il 14 dicembre 1995, il Santo Padre Giovanni Paolo II disse: "Cari fratelli e sorelle che siete in Libano, i vostri avi si trovarono tra le folle che circondavano Gesù per ascoltare il suo insegnamento. I piedi del redentore del mondo hanno camminato sul vostro suolo, i suoi occhi ne hanno ammirato la bellezza. Vorrei che il suo sguardo d’amore vi accompagni tutti sulla vostra terra resa santa dal passaggio del salvatore"1.

Dato questo fondamento storico lo stesso Pontefice asserisce nell’Esortazione Apostolica post-sinodale intitolata "Una speranza nuova per il Libano" e pubblicata il 10 maggio durante la sua visita pastorale nel Libano, che "il Cristianesimo divenne rapidamente un elemento essenziale della cultura della terra libanese, ricca oggi di molteplici tradizioni religiose" (n. 1). Vi abitano sei comunità cattoliche (cinque patriarcali: maroniti, greci melkiti, armeni cattolici, siri cattolici e caldei, un vicariato apostolico per i latini). Ci vivono anche sei comunità cristiane non-cattoliche (cinque Chiese patriarcali ortodosse: greci ortodossi, armeni, siri e copti, una comunità protestante). Altre quattro comunità musulmane (sunniti, shiiti, druzi e alawiti) costituiscono l’altra parte importante della popolazione libanese. Infine esiste una comunità israelitica.

La Chiesa nel Libano, come in altri paesi dell’Oriente, si stabilì durante i primi tre secoli, avente tre principali Chiese metropole di Gerusalemme, Antiochia e Alessandria. Annunciò la salvezza universale a tutti, per mezzo delle diverse lingue e culture esistenti, adattandovisi con stupenda rapidità, in modo da diventare presto un elemento essenziale nelle diverse culture del medio Oriente2.

In Libano, le comunità attuali riconosciute dallo Stato Libanese si sono costituite cronologicamente come segue.

Nel VII secolo i maroniti, venuti a scopo di missione dalla Siria settentrionale, dove si erano formati presso la tomba di san Marone, poi nel famoso monastero di san Marone sul bordo dell’Oronte, si stabilirono nel Nord Libano, come in una culla, e si sparsero dopo in tutto il territorio libanese. Nell’VIII secolo gli shiiti, venuti dalla Persia, si stabilirono sul litorale. Nell’XI secolo i druzi venuti dall’Egitto e sparsi in Siria e Palestina, si stabilirono nel sud del Libano. Nel XIII secolo apparvero i monofisiti melkiti e giacobiti (oggi siri ortodossi), e i nosairi (oggi alawiti). Nel XIV secolo, trasportati dalla Siria settentrionale, i sunniti si stabilirono tra Beirut e Tripoli. Nel XVIII secolo apparvero le altre comunità cristiane cattoliche, ortodosse e protestanti. In questo tessuto sociale religioso, la Chiesa in Libano offre la sua esperienza e testimonianza a Cristo e alla sua missione.

1. L’esperienza: la convivenza tra i cristiani e i musulmani in Libano

Dialogo e collaborazione – La convivenza in Libano contraddistingue il Libano da tutti gli altri paesi del medio Oriente e da quelli dell’Occidente. Essa riveste il carattere di dialogo e collaborazione su quattro livelli, rilevati dalla già citata Esortazione Apostolica post-sinodale "Una speranza nuova per il Libano": il livello della vita quotidiana, il livello religioso, il livello della cultura e il livello politico.

A livello della vita quotidiana, la convivenza è vissuta nel lavoro, nella scuola, nella famiglia e nella vita della società. Infatti il tessuto sociale della polis è intercomunitario malgrado alcuni agglomerati a maggioranza confessionale unica. La società libanese ha conosciuto e conosce diverse iniziative di solidarietà tra musulmani e cristiani.

A livello religioso, i cristiani e i musulmani scoprono a vicenda il patrimonio religioso di ogni gruppo, grazie all’esperienza della vita quotidiana, e si guardano con stima, discernono e riconoscono la grandezza delle ricerche spirituali di ogni gruppo.

A livello della cultura, i cristiani e i musulmani contribuiscono oggi, come nel passato, a creare una cultura comune e a perfezionarla. Si tratta della cultura araba alla quale i cristiani del Libano tanto hanno contribuito. Essa si trova alla base della loro convivialità e collaborazione. Questa cultura araba, in Libano, è rafforzata da altre culture antiche, come la greca, la latina, la siriaca, e da altre moderne: l’armena, la francese e l’inglese, le quali fanno parte del sistema educativo ufficiale del Libano.

A livello politico, dal pluralismo culturale e religioso risultò in Libano la civiltà della convivialità, della libertà, della democrazia consensuale, dell’apertura alle culture e religioni, quindi della diversità nell’unità. Questi elementi costituiscono il sistema politico del Libano. Si tratta di un sistema che Giovanni Paolo II chiama "esempio per l’Oriente come per l’Occidente"3. Infatti, mentre nei paesi del medio Oriente il sistema politico è teocratico, o musulmano nei Paesi Arabi o giudaico in Israele, e mentre in Occidente vige il sistema laico con la netta e completa separazione tra religione e politica, in Libano il sistema politico è intermedio, cioè è un sistema civile con due note caratteristiche.

La prima è la formula libanese, secondo la quale i cristiani e i musulmani partecipano al governo e all’amministrazione pubblica, con l’uguaglianza di 50%. Essi vi sono rappresentati non a partire dai partiti politici, essendo tutti confessionali, bensì a partire dalla loro appartenenza religiosa e confessionale (articoli 9 e 95 della Costituzione libanese).

La seconda nota caratteristica è lo statuto personale, secondo il quale il potere civile riconosce alle autorità religiose una autonomia giurisdizionale, legislativa e giudiziaria in materia di statuto personale, ossia il matrimonio e i suoi effetti civili, l’adozione, i beni religiosi e le pie fondazioni, i testamenti e le successioni. Lo Stato riconosce le differenti legislazioni confessionali a condizione che non siano in contraddizione con la Costituzione né con la disciplina pubblica.

L’Islam quale sistema politico – Questo stato di fatto è dovuto all’Islam, il quale non è soltanto una religione, ma anche un sistema politico: di conseguenza, il musulmano non tollera di essere governato da un non musulmano (ossia da un infedele). Da qui il sistema libanese di partecipazione rappresentativa dei cristiani e dei musulmani, con equità e uguaglianza, rispetto alla situazione demografica, nel governo e nell’amministrazione pubblica. Quanto alla personalità degli statuti, essa è una conseguenza logica dei tre principi fondamentali sui quali è fondata la nazione musulmana (Al-Umma).

Il primo principio afferma che Dio è il capo e legislatore della nazione musulmana (quindi il Corano è la fonte della legislazione, l’autorità è in mano dei musulmani, l’Islam è la religione di Stato: è il sistema teocratico).

Per il secondo principio, l’osservanza delle leggi non è solo un dovere civile, bensì un’obbligazione religiosa.

Il terzo principio infine prevede che la personalità del diritto sia legata alla confessione religiosa. La legge musulmana "Sharia" è unica per tutti i musulmani, senza distinzione di paese, di governo e di razza. Il diritto musulmano non ha alcun legame con il concetto di territorialità.

Da questi tre principi fondamentali dell’Islam, derivano tre conseguenze: ad ognuno la sua religione, quindi la sua legge (cuius religio eius lex).; sullo stesso territorio vi sono tante leggi quante le religioni ammesse; ogni "nazione" avente le sue leggi proprie, giudicherà secondo queste leggi le controversie tra i suoi membri.

Il sistema libanese – Il terzo ed ultimo aspetto dell’esperienza di convivenza è il sistema libanese. I cristiani e i musulmani del Libano hanno potuto creare un sistema di vita pubblica, fondato sul principio della "diversità nell’unità", della struttura socio-politica intercomunitaria, delle libertà pubbliche, del pluralismo culturale, della democrazia consensuale non numeraria e dell’apertura all’Oriente e all’Occidente. I cristiani hanno rinunciato al sistema politico laico dell’Occidente per rispetto alla sensibilità dei musulmani, e questi hanno rinunciato, nonostante alcune voci contrarie, al sistema politico teocratico dei paesi arabi e musulmani per una sana convivialità con i cristiani. Ne risultò quindi il sistema civile intermedio appena descritto.

Tale sistema politico non può tollerare un regime dittatoriale, né totalitario, né di un unico colore, né di un unico partito. Esso costituisce, secondo Giovanni Paolo II, "un messaggio per l’Oriente come per l’Occidente" nel senso che offre un tipo di soluzione alle tre grandi controversie internazionali odierne: quella sull’efficacia e sulla stabilità del sistema di ripartizione del potere; quella sulla probabilità del dialogo inter-religioso; quella sul posto delle piccole nazioni nel sistema internazionale di oggi.

Possiamo dire con certezza che i cristiani del Libano sono i pionieri di un tale sistema politico grazie alla civiltà del vangelo e alla sua inculturazione nella società libanese. È in questo senso che Giovanni Paolo II scrisse il 1° Maggio 1984, nella sua Lettera Apostolica a tutti i vescovi della Chiesa Cattolica, che "lo sviluppo della cristianità nel Libano è condizione per la presenza delle minoranze cristiane nei paesi del medio Oriente".

Purtroppo l’esperienza libanese affronta oggi un’ondata di islamizzazione del potere, delle istituzioni statali e della terra, appoggiata da una politica regionale e internazionale che costringe il Libano a rimanere in stato di guerra e di divisioni interne, sotto l’effetto "dell’occupazione israeliana di una parte del sud Libano, della crisi economica vigente nel paese, della presenza di forze armate non libanesi sul territorio, della non totale soluzione del problema dei profughi, del pericolo dell’estremismo e dell’impressione di alcuni di essere frustrati nei loro diritti"4.

2. La testimonianza

La testimonianza a Cristo e alla sua missione, che i cristiani danno in Libano, offre un contributo agli sforzi di inculturazione del vangelo nella società libanese a un triplice livello: religioso, politico e sociale.

Sul piano religioso, essendo la società libanese intercomunitaria, i cristiani e i musulmani si ritrovano insieme a scuola, in modo particolare nelle scuole cattoliche, dove i musulmani seguono talvolta la catechesi; nelle città e nei villaggi dove ascoltano, in certe occasioni religiose, le prediche cristiane; e infine sul campo di lavoro dove i musulmani acquistano i costumi religiosi dei cristiani.

Sul piano politico-culturale, l’inculturazione del vangelo si manifesta nel regime delle libertà pubbliche, della democrazia consensuale, del dialogo culturale e religioso, dei diritti fondamentali dell’uomo, del valore della persona umana, del diritto di ognuno di partecipare all’edificazione della società.

Sul piano sociale, il servizio della carità e dello sviluppo della persona umana, è fondato sui principi della solidarietà, della interdipendenza e della destinazione universale dei beni della terra, per cui non se ne esclude nessuno per la sua appartenenza religiosa. Anzi, gli organismi sociali della Chiesa includono tra i programmi il servizio della carità in ambienti musulmani.

La testimonianza a Cristo e alla sua missione, comprende i seguenti elementi essenziali: rendere testimonianza al vangelo, operare per i valori del regno, lottare per la liberazione e la promozione dell’uomo, il dialogo interreligioso, l’inculturazione, lo scambio dell’esperienza di Dio. Tutto è focalizzato sull’annuncio di Gesù Cristo per la vita del mondo. La Chiesa proclama in Libano, con tutti i mezzi, senza difficoltà alcuna, a livello della predicazione nelle Chiese, della catechesi nelle scuole pubbliche e private, nei mezzi di comunicazioni sociali, negli incontri organizzati, oralmente e per iscritto, che in Gesù Cristo, il Figlio di Dio fatto uomo, morto e risorto, la salvezza è offerta ad ogni uomo, come dono di grazia e di misericordia.

Veniamo alle difficoltà: è da notare che le relazioni tra cristiani e musulmani in Libano sono state difficili in diverse occasioni. Esse sono anche oggi turbate da diverse incomprensioni che sono alimentate da dolorosi ricordi: pregiudizi radicati nei modi di pensare, mancanza di fiducia reciproca e risveglio di varie forme di estremismo. La loro convivenza, per lunghi secoli, non ha conosciuto una guerra civile vera e propria, bensì scontri e conflitti giustificati dai problemi civili interni e soprattutto manipolati da potenze politiche esterne regionali e internazionali, come è il caso oggi con le guerre che iniziarono nel 1975 e proseguirono nel sud del Libano con le armi, e in tutto il Libano con la persistente crisi economico-politica, nonché con la violazione delle tre componenti della nazione: l’integrità territoriale, la sovranità e l’indipendenza.

Per quanto poi riguarda le sfide, essendo il Libano parte integrante del mondo arabo, quanto alla cultura araba, alla causa araba e al destino del mondo arabo, i cristiani del Libano affrontano le stesse sfide affrontate dai cristiani dei paesi arabi, e se ne influiscono. Queste sfide sono state analizzate da Jean-Pierre Valognes nel suo volume Vie ed mort des Chrètiens d’Orient; egli enuncia quattro gruppi di sfide.

Le prime sono le debolezze intrinseche dei cristiani nel mondo arabo: l’evoluzione demografica (12 milioni di cristiani convivono con 150 milioni di musulmani); le mutazioni sociali con effetti sfavorevoli sui cristiani che li costringono ad emigrare in altri paesi; il conservatorismo e la mancanza di adattamento alle sfide della modernità; lo sparpagliamento e le divisioni interne dovute ad antichi scismi; i dissensi, la mancanza di solidarietà e l’assenza di una strategia comune di fronte ai problemi regionali.

Il secondo tipo di sfida è posta dai rapporti con l’Islam. Anche se l’Islam offre una pluralità di facce, ciononostante, esso possiede tratti permanenti in modo che il problema d’inserzione dei cristiani si pone in tutti i paesi di maggioranza musulmana. Questi tratti e le problematiche ad essi seguenti sono cinque.

Il primo è l’Islam e la laicità: mentre i cristiani sperano di avere un avvenire migliore se il processo di laicizzazione penetra nella società musulmana, l’Islam per natura sua fa ostacolo a tale evoluzione.

Il secondo è rappresentato dall’Islam e i diritti dell’uomo: questi diritti per i musulmani sono subordinati alla legge islamica, la Sunna, e al Corano, per cui differiscono dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’uomo nel fondamento stesso: il fondamento della Dichiarazione Universale stipula che la volontà del popolo è il fondamento dell’autorità dei poteri pubblici, mentre il fondamento nella Dichiarazione islamica stipula che gli affari pubblici sono determinati dopo mutua consultazione tra i credenti abilitati a partecipare ad una decisione compatibile con la legge. Tale formula esclude totalmente i non musulmani dalla vita politica.

Come terzo problema abbiamo il rapporto tra l’Islam e il progresso. L’Islam è nell’incapacità di adattarsi alla modernità. Ai problemi posti dalla realtà umana, diversa ed evolutiva, esso non potrà dare una risposta adeguata, perché la natura divina delle prescrizioni coraniche e quelle della Sunna interdiscono ogni cambiamento ed ogni lettura critica.

Per quanto poi riguarda il rapporto tra l’Islam e i cristiani, l’Islam nutre una visione dei cristiani sia religiosa che politica totalmente differente dalla realtà. A livello teologico, vi sono cinque divergenze: il politeismo dovuto al dogma trinitario; la falsificazione delle scritture da non contenere il nome del profeta Maometto; la non divinità del Salvatore quindi la negazione della incarnazione, della crocifissione e della risurrezione; la non accettazione della redenzione effettuata dalla croce di Gesù; la Chiesa quale società umana, non corpo mistico di Cristo. A livello politico, i musulmani guardano ai cristiani come agli eredi dei crociati e dei colonialisti occidentali.

Infine, abbiamo il fondamentalismo dell’Islam: il fenomeno del fondamentalismo proclama che la legge islamica (Sunna, Sharia), ovvero quel complesso che comprende il Corano, (espressione della parola di Dio consegnata a Maometto), il Hadith (trascrizione dei propositi dati al profeta e ai suoi compagni) e il Ijtihad (l’interpretazione medioevale delle legge), è il sistema migliore per organizzare la società umana; per cui tale sistema dovrebbe governare il mondo.

La terza sfida è la politica degli Stati del mondo arabo, che poggia su tre realtà: il primato del criterio dell’arabità (intendendo che arabo è sinonimo di musulmano); il processo di islamizzazione del diritto quindi dello Stato; la pratica amministrativa a base dell’appartenenza religiosa.

L’ultima sfida sono le influenze esterne. I cristiani del Libano, come quelli dei paesi del medio Oriente, risentono fortemente le interferenze delle potenze esterne. Infatti il medio Oriente suscita, per motivi economici e strategici, l’interesse e l’invidia delle potenze straniere: egli possiede una larga parte delle riserve mondiali di petrolio e assume un ruolo essenziale nel rifornimento energetico dell’Occidente.

Anche oggi, nonostante la sparizione della tensione Est-Ovest, il medio Oriente rimane chiuso in una situazione d’alienazione e appare incapace di ritrovare la libertà di risolvere egli stesso i suoi problemi. Questo stato di fatto è dovuto anche alla creazione dello Stato ebreo d’Israele e alla perenne susseguente crisi arabo-israeliana, come specialmente alle divisioni che lacerano i paesi arabi: mancanza di coesione nazionale, carattere artificiale delle frontiere, assenza di legittimità dei governi, conflitti territoriali, ambizioni di leadership regionale e slanci unitari.

Per concludere, vorrei ricordare ancora una volta l’Esortazione Apostolica "Una Speranza Nuova per il Libano". Essa infatti traccia le linee per una convivenza ricca e duratura tra i cristiani e i musulmani del Libano, che sarà di modello per quella di altri paesi. Enuncerò sinteticamente queste linee.

In vista di un dialogo costruttivo e di un riconoscimento reciproco, al di là delle divergenze importanti tra le religioni, cristiani e musulmani del Libano si considerano gli uni e gli altri partecipi della costruzione del paese: discernano prima di tutto ciò che li unisce in un unico popolo, ravvivino il desiderio di rafforzare l’intesa e la collaborazione vicendevole, costituiscano istanze d’incontro per conoscersi reciprocamente in maniera sempre più approfondita e per servire insieme il paese (n. 14).

Per una ricostruzione del paese, i cristiani ed i musulmani del Libano devono intraprendere un dialogo rispettoso delle sensibilità delle persone e delle diverse comunità (n. 90), perdonarsi l’un l’altro, far tacere dissensi ed inimicizie e cambiare mentalità, per sviluppare la fraternità e la solidarietà (n. 89).

Valendosi del dialogo che caratterizza la società libanese, cristiani e musulmani del Libano promuovano un vivere-insieme in spirito di apertura e di collaborazione, indispensabile affinché ognuno possa realizzarsi, facendo liberamente le scelte dettate dalla sua retta coscienza (n. 92).

Per costruire insieme la loro casa comune, cristiani e musulmani sono chiamati ad edificare un sistema politico e sociale giusto, equo e rispettoso delle persone e delle varie tendenze presenti. Ogni gruppo deve tener conto dei bisogni e delle legittime aspirazioni degli altri gruppi, anzi del bene comune dell’intera famiglia nazionale. Occorre sviluppare una ripartizione equa delle responsabilità in seno alla nazione, affinché tutti possano mettere i propri talenti e le proprie capacità al servizio dei fratelli e sentire di avere un contributo specifico da apportare al proprio paese, secondo il principio di sussidiarietà (n. 95).

Grazie a gesti di perdono e collaborazione, cristiani e musulmani pongano le condizioni primordiali affinché si edifichi e sopravviva un Libano democratico, aperto agli altri, in dialogo con le culture e le religioni, capace di assicurare a tutti i suoi membri un’esistenza degna e libera. È pure su queste condizioni che si fonda lo Stato di diritto, non sulla forza (n. 98).

Nessuna comunità spirituale può vivere in Libano se non è riconosciuta, se si trova in condizioni precarie e se non ha la possibilità di partecipare pienamente alla vita della nazione. I suoi membri sono allora tentati di andare a cercare in altri paesi un clima più fraterno e ciò che possa assicurare il proprio sostentamento e quello delle loro famiglie (n. 121).

I cristiani del Libano sono chiamati a mantenere e rinsaldare i loro legami di solidarietà con il mondo arabo, e a considerare il loro inserimento nella cultura araba, alla quale tanto hanno contribuito, come un’opportunità privilegiata per condurre, in armonia con gli altri cristiani dei paesi arabi, un dialogo autentico e profondo con i credenti dell’Islam. Inoltre, il dialogo e la collaborazione tra cristiani e musulmani in Libano può contribuire a far sì che in altri paesi si avvii lo stesso processo. Di fronte al fenomeni di integralismo musulmano che li minaccia, che minaccia cristiani e musulmani, come appare in Algeria, Egitto, Sudan e altri paesi, sono chiamati tutti a prendere coscienza di un tale pericolo e ad affrontarlo.

Così, si realizzerà l’auspicio espresso da Giovanni Paolo II al termine della Esortazione Apostolica post sinodale: "Allora, il Libano potrà rifiorire in pienezza; esso risponderà alla sua vocazione di essere luce per i popoli della regione e segno della pace che viene da Dio. In tal modo, la Chiesa in questo paese farà la gioia del suo signore".

Puljic: Parlerò della mia esperienza di vita in Bosnia Erzegovina, e della situazione molto difficile che questo piccolo paese sta vivendo in questi ultimi tempi.

Il Cristianesimo è arrivato in Bosnia già dal tempo dei romani. Nel secolo VII vi sono arrivati gli slavi e dopo poco tempo abbiamo ricevuto il battesimo; prima che arrivassero i Turchi, in Bosnia la maggioranza della popolazione era formata da cristiani cattolici: quasi il 90%. Quando sono arrivati i turchi, la popolazione cattolica ha dovuto abbandonare il paese. Con i turchi sono arrivati anche gli ortodossi. Durante l’impero ottomano, vi è stata una islamizzazione in Bosnia: per questo, nei quasi quattrocento anni di impero ottomano, i musulmani erano privilegiati, mentre per gli appartenenti ad altre religioni era molto difficile vivere: per questo molti hanno accettato di diventare musulmani. I musulmani della Bosnia Erzegovina sono dunque in realtà di origine slava.

Nel secolo scorso con la dominazione dell’impero austro-ungarico vi fu la costruzione della tolleranza: proprio a Sarajevo durante quel periodo sono stati costruiti quattro edifici delle quattro religioni più numerose: musulmani, ortodossi, cattolici, ebrei.

Nonostante questo ultimo secolo sia stato caratterizzato da molte guerre, tutte le religioni e le diverse nazioni vivevano insieme. Soprattutto durante il periodo del comunismo si cercava una possibilità per una migliore convivenza, perché in realtà questa convivenza sembrava una lotta contro l’ateismo. Durante gli anni novanta, quando è arrivata la democrazia, il nostro paese ha vissuto nella speranza che sarebbe arrivato un periodo migliore.

Purtroppo questo periodo migliore non è arrivato, è invece arrivata la guerra. Prima della guerra nella Bosnia, secondo le statistiche, il 43% della popolazione era musulmana, il 31% ortodossa (nonostante molti non fossero neppure battezzati), il 18% croati cioè cattolici. C’erano poi altre minoranze, come gli ebrei.

La guerra – vale la pena chiarirlo – non è iniziata in Bosnia Erzegovina: è stata invece creata a Belgrado attraverso varie strumentalizzazioni: bisognava creare un atteggiamento di odio, e l’odio si allargava grazie ai mass media. Anche i sentimenti religiosi sono stati manipolati: più di due milioni di abitanti sono stati costretti a muoversi e ed abbandonare i propri focolari perché è stata compiuta la scelta politica di far abbandonare dalle varie nazionalità il proprio paese. Per effettuare questa pulizia etnica sono stati uccisi più di duecentomila abitanti civili: circa cinquecentomila civili sono stati deportati in campi di concentramento.

La "Pace di Daton" che è stata appena sottoscritta non è una pace giusta ma è migliore che una guerra. In Bosnia fino ad oggi non si è ancora trovata una soluzione politica giusta: per crearla, bisogna rispettare ogni nazionalità, ogni identità religiosa e culturale. Nella Bosnia infatti si sono sempre incontrate diverse culture e anche diversi interessi politici: il problema è che oggi la politica intera del paese è fatta sempre dal di fuori: noi abitanti della Bosnia sperimentiamo di essere piccoli nelle mani dei più potenti, ed è per questo che i più grandi e i più potenti effettuano i loro interessi nel nostro paese.

Per quanto riguarda i rapporti tra le diverse religioni, soprattutto con i musulmani che sono in Bosnia, vorrei brevemente parlare delle diverse posizioni delle varie religioni. La comunità ebraica è molto piccola, mentre la comunità cattolica si sente più antica, sente di avere le proprie radici in Bosnia; la comunità ortodossa si lega sempre al proprio popolo e alla propria nazionalità, ha come caratteristica di essere una Chiesa nazionale. La comunità islamica è definita secondo la propria religione, non secondo l’appartenenza etnica, e proprio in questa guerra i musulmani hanno iniziato a costruire la propria identità etnica. Questa identità è di fatto una identità religiosa: è molto difficile separare ciò che appartiene all’identità etnica e ciò che invece appartiene all’identità religiosa. Ad esempio, secondo i musulmani un uomo che ha difeso la Bosnia ed è morto per la libertà della Bosnia, viene detto "colui che è morto per la religione".

Durante la guerra abbiamo parlato molto gli uni con gli altri, perché sentivamo di dover fare qualcosa per la pace; non era facile parlare a livello teologico, perché il potere ha influenzato molto il clima e perché i politici hanno spesso manipolato sentimenti religiosi. Ciò nonostante siamo riusciti a fare una riunione, da cui è risultata una dichiarazione, frutto di tutto quello che accomuna le diverse religioni, i principi etnici.

Il programma su cui stiamo lavorando adesso è l’organizzazione di un sinodo, un dialogo interreligioso con l’intenzione di risolvere tutti i problemi che dividono le varie religioni. Questo sinodo affronterà anche tutte le questioni relative al rapporto tra le religioni e lo Stato. Secondo i cattolici, questo potrebbe anche essere un ponte tra Oriente e Occidente: per questo durante la guerra abbiamo pensato di aprire i centri scolastici interreligiosi, che faranno proprio imparare ai giovani la tolleranza.

Nel realizzare questi obiettivi sentiamo di avere alcune difficoltà, perché ci sono alcuni influssi – soprattutto da parte dei paesi arabi – che vogliono cambiare questo clima di tolleranza. Spesso, sperimentiamo che anche i paesi dell’Occidente non capiscono la Bosnia e i suoi problemi: chi viene dall’Occidente vuole creare un clima ecumenico, mentre le popolazioni ortodosse e mussulmane ci accusano di procurare gli aiuti umanitari solo per costringerle a diventare cattoliche. Proprio per questo è molto importante che noi che viviamo lì, noi locali, costruiamo una vita di convivenza: non c’è un’altra alternativa.

Il Papa quando è venuto a Sarajevo ci ha indicato come costruiremo questo: chiedendo perdono e facendo ritornare la fiducia reciproca.

NOTE

1 AAS 88 (1996), 716.

2 Conseil des Patriarches Catholiques d’Orient: Mysrère de l’Eglise, Noêl 1996, nn. 5-7.

3 Lettera Apostolica ai Vescovi Cattolici della Chiesa Cattolica nel mondo, 7 Settembre 1989.

4 Esortazione Apostolica post-sinodale, paragrafo 17.