I popoli contro l’utopia

Le insorgenze popolari antigiacobine in Italia (1796-1815)

Martedì 20, ore 18.30

Relatori: Francesco Maria Agnoli, Claudio Finzi,
Adolfo Morganti, Magistrato Ricercatore del Centro Studi Avellaniti
Responsabile Organizzativo del Isabella Rauti, Franco Cardini,
Comitato Nazionale per le Docente presso l’Università Docente di Storia Medievale presso
Celebrazioni del Bicentenario di Roma l’Università di Firenze
delle Insorgenze in Italia

 

Morganti: L’insorgenza fu un fenomeno vasto, corale, popolare e spontaneo, che partì dal Piemonte nel momento stesso in cui l’esercito invasore, l’esercito francese guidato dal giovane Napoleone Bonaparte, vi mise piede, e che terminò dopo la caduta di Napoleone Bonaparte, con la cattura da parte del popolo e la fucilazione di Murat nel novembre del 1815. In questi anni, quasi 20, la penisola italiana fu interessata da una serie di invasioni militari; le battaglie campali non furono moltissime, e negli intervalli fra le varie battaglie, una serie infinita di fenomeni di insorgenza popolare, armata o meno, costellò la nostra penisola. Si tratta di avvenimenti che normalmente sono accuratamente rimossi dalla storiografia ufficiale, eventi che hanno subito l’ostracismo di una lunga tradizione culturale che parte dallo Stato unitario per arrivare poi al nazionalismo fascista e infine alla concezione statale centralista del dopoguerra, che è arrivata fino ai giorni nostri.

Le insorgenze antigiacobine in Italia prefigurano nella loro manifestazione, nelle forze in campo, nei metodi e addirittura talvolta nelle famiglie dei personaggi, l’insorgenza antiunitaria successiva, quella che noi conosciamo con il nome spregiativo, che ad un certo punto diventa un titolo di onore, di brigantaggio. L’unificazione d’Italia – che poteva essere fatta in molti modi – avvenne infatti secondo il modello centralistico, appunto giacobino, in cui il Piemonte fece quello che aveva tentato di fare la Francia precedentemente.

Normalmente gli insorgenti erano appartenenti al popolo e al basso clero; l’alto clero e i nobili erano estranei a questi fenomeni, i primi perché erano molto prudenti se non apertamente giansenisti e quindi dalla parte della Rivoluzione, i secondi perché erano quasi tutti già "infrancesati" abbastanza per essere iscritti ad una loggia massonica e quindi per parteggiare apertamente per l’invasore. Gli insorgenti non volevano difendere delle figure di re o delle superfici di ducati che si potevano attraversare a cavallo in una giornata, ma una identità popolare e religiosa che l’invasione metteva drasticamente in pericolo: l’insorgenza giacobina infatti non si spiega se non ricordando il carattere rigorosamente rivoluzionario e quindi anticristiano che nel triennio giacobino la Rivoluzione volle avere e di conseguenza imporre in Italia. Scavando nella storia locale alla ricerca delle insorgenze e ricomponendo su questa base un quadro dell’Italia, è emersa una carta del Paese che ripercorre un’unità basata sul rispetto delle diversità e sulla comunanza dei valori di fondo: in seguito però l’Italia è stata costruita sulla pelle e sulle spalle di un popolo che l’avrebbe voluta diversa.

A queste figure di perdenti, perché gli insorgenti giacobini quasi sempre persero, è dedicata questa mostra, perché dopo aver conosciuto la sconfitta della storia possano avere almeno oggi il conforto della memoria. Il popolo cristiano fa bene a ricordarsi di queste persone, perché dalla loro esperienza emersero quei filoni culturali che nell’ambito cattolico dettero vita ai grandi Santi sociali dell’800, e dai quali nacque in seguito la Dottrina Sociale; il Cristianesimo liberale rimase invece sempre indifferente a quello che accadeva alla povera gente.

Agnoli: Rispetto al fenomeno dell’insorgenza, ci dobbiamo porre tre domande: perché ci fu, perché si volle e si riuscì a cancellarla dalla memoria, ed infine perché parlarne oggi.

La risposta alla prima domanda può prendere il via con il confronto fra l’Illuminismo e la concezione cattolica della vita, proseguendo con l’analisi della applicazione pratica e violenta delle idee illuministe. Il cosiddetto dispotismo illuminato dei vari monarchi di Europa fu infatti una sorta di preambolo dell’applicazione del vero Illuminismo, applicazione cui seguirono la reazione e la resistenza cattolica, prima in Francia e poi in Italia.

La mostra risponde anche alle altre due domande: parlare oggi dell’insorgenza ci fa riscoprire una parte di noi stessi che si era cercato di cancellare. Nei libri di scuola infatti non si parla dell’insorgenza o la si riduce a rari fenomeni di brigantaggio determinati dai ceti privilegiati, che invece – come diceva Morganti –erano in realtà quasi tutti dall’altra parte. Riscoprire l’insorgenza è di importanza fondamentale per ritrovare la nostra identità, che è stata per secoli un’identità cristiana.

Se l’insorgenza è stata un episodio così importante, esteso nel tempo e nello spazio, è senza dubbio il più grande episodio di massa della nostra storia, l’unico che ha visto in effetti una partecipazione di popolo veramente impressionante, sia per la durata che per i luoghi, essendosi verificata in tutte le regioni toccate dall’invasione francese. Il pregio dell’insorgenza era anche il suo punto debole, sia sul piano militare che su quello storico, ovvero il fatto che si trattava di un insieme di movimenti spontanei che soprattutto nel primo triennio, dal 1796 agli inizi del 99, non erano coordinati, e che coinvolgevano quasi sempre un solo paese. Per questo solo raramente gli insorgenti riescono a vincere, all’inizio e solo nei casi in cui il nemico è presente con poche forze; ma poiché in seguito i francesi giacobini hanno un centro direttivo con una visione complessiva del quadro, mentre l’insorgenza no, il comando giacobino riesce a concentrare le truppe, e quindi ad avere una enorme superiorità sia di armi che di uomini.

Rauti: Nel 1796 quella che Braudel ha definito l’onda lunga della Rivoluzione Francese – una rivoluzione sostanzialmente ideologica e politica – raggiunge la nostra penisola: il Giacobinismo maturava nei cosiddetti "club", nell’ambito della cultura illuminista riformista, nella mentalità della borghesia intellettuale, nei salotti aristocratici tra, come si usava dire, paglietta e gentiluomini, e anche tra qualche esponente clericale giansenista, o ancora nelle logge massoniche. La Rivoluzione Francese fu quindi una rivoluzione di importazione da oltralpe, che in Italia fu incapace, come le insorgenze dimostrano, di attrarre a sé il popolo, le masse contadine. Cominciava così il cosiddetto triennio giacobino (1796-1799), già iniziato con la prima campagna d’Italia ad opera del giovanissimo generale Napoleone: questo triennio segnò per il nostro paese un periodo sanguinosissimo di guerra civile – non credo che vi sia una definizione più propria – che durò anche oltre il 1799, ovviamente in forme e misure diverse. Durante questo triennio ovunque passassero le truppe francesi si scatenavano violentissime rivolte e resistenze dei contadini, che vengono definite insorgenze. Si tratta di insorgenze popolari di bande raccogliticce e male armate, che affrontavano un esercito regolare e ben armato: vi era quindi una disparità di forze evidenti. Questo triennio di insorgenza è quello che ha preparato il terreno e ha favorito l’intervento degli eserciti della seconda coalizione (Inghilterra, Russia, Austria e Turchia) che vennero a liberare l’Italia dall’occupazione francese.

Per tre anni l’Italia ha avuto quella che giustamente è stata definita la sua Vandea: tutta la penisola infatti fu percorsa dalle insorgenze. Questo fenomeno – controrivoluzionario, antigiacobino, antirepubblicano, antifrancese – non espresse assolutamente una sorta di risentimento di tipo classista, non fu una jaquerie: il risentimento tra contadini e borghesi è uno schema, un luogo comune della storiografia. Si trattò invece di una reazione popolare di comunità rurali e cattoliche, di un’ostilità viscerale, istintiva, spontanea anche e soprattutto alla scristianizzazione e alla laicizzazione che vennero portate dall’ondata rivoluzionaria. L’attestata presenza femminile rafforza l’idea che si trattò di un fenomeno di resistenza popolare, con contenuti e aspetti fortemente ideologici, religiosi ed anche sociali e politici. Le donne partecipavano alle insorgenze non sobillate dal clero, come è stato spesso scritto, ma spontaneamente, come reazione istintiva alla minaccia giacobina in nome dei propri usi e costumi, della fede e delle tradizioni, delle feste, del proprio calendario, delle proprie radici e specificità.

Il limite del giacobinismo e della sua utopia fu la pretesa di imporsi a una realtà diversa, particolare e specifica come quella italiana, diversa in termini non soltanto di lingua, ma di costumi, di mentalità, di storia, di usi. Il giacobinismo scontò questo limite proprio attraverso la resistenza popolare con la quale dovette fare i conti. E non fu soltanto la, peraltro proverbiale, spocchia francese, le violenze, le ruberie e le esose contribuzioni, a scatenare la resistenza, ma fu molto di più. In questo senso è un errore credere che questo pullulare così autonomo di manifestazioni locali di resistenza fosse privo di una sua articolazione, perché il filo conduttore era il ricorso comune a motivazioni di fondo. Quindi le insorgenze non furono – ecco perché questo è il termine più proprio per spiegarle – solo sommosse, non furono semplicemente rivolte e, ovviamente, non furono neanche delle rivoluzioni: si trattò però di un fenomeno profondo, complesso, che da quelle radici prendeva alimento e vigore e le cui motivazioni profonde, allora come oggi, fanno sì che questi sommovimenti non siano e non possano essere considerati un sussulto effimero, ma un fatto storico. Questo è quello che al nostro comitato interessa sottolineare, e costruire come tesi, essendo anche un nodo su cui riflettere a distanza di 200 anni, una congiuntura storica, anche ideologica di mentalità da approfondire e da riscoprire.

Penso che quando si svolge un lavoro storico, le due domande propedeutiche da porsi siano l’utilità e l’attualità di quello che si sta facendo. Nel lavoro sulle insorgenze l’utilità sta nel riportare alla luce una concatenazione di fatti storici che costituiscono uno spezzone importante di storia patria e anche di storia europea e sono dunque importanti per la coscienza nazionale del nostro popolo e anche per la formazione di un’identità comunitaria nazionale, che è la somma o meglio la sintesi di storie locali delle cosiddette piccole patrie. E si tratta anche di un lavoro attuale, perché parlare delle insorgenze ci mette obbligatoriamente in rapporto con il sentimento nazionale e con tutto quanto questo implica e comporta: parte del sentimento nazionale italiano infatti si è formato proprio nelle insorgenze. Altrimenti non si spiegherebbe come toscani, napoletani, lombardi, abruzzesi, calabresi, pugliesi, marchigiani... tutti insorgessero contro le armate rivoluzionarie napoleoniche: quel sentimento antifrancese strutturato dalle motivazioni alle quali abbiamo accennato si trasformò nel tempo in un sentimento italiano nazionale, nel contesto della situazione preunitaria del tempo.

Finzi: Dovendo sostituire il Cardinale Pietro Palazzini, assente per motivi gravissimi di famiglia, mi limiterò a trarre alcune delle cose essenziali che si possono trovare negli atti del Convegno di Fonte Avellana dell’anno scorso: Sua Eminenza il Cardinale Palazzini è infatti Presidente del Centro di Studi Avellaniti, e ne segue accuratamente tutti i Convegni. L’anno scorso il Convegno è stato dedicato appunto allo Stato della Chiesa in epoca napoleonica e di insorgenze si è parlato continuamente. Le relazioni del Convegno, fatte da persone di posizione ideologica estremamente diversa, fanno notare che nella sostanza dei fatti le differenti posizioni convergono nell’analisi, e che la differenza finisce per essere di linguaggio.

Dopo l’introduzione del Cardinal Palazzini, c’è una relazione di Nicola Raponi dell’Università Cattolica di Milano sul trattato di Tolentino, di cui si celebra il bicentenario – come si possa celebrare una sconfitta è una cosa che mi lascia perplesso... Prendendo lo spunto da questo trattato, Raponi esamina una serie di problemi generali. Il problema più rilevante che ha toccato – problema di cui, in realtà, si rendono conto gli stessi insorgenti – è quello della natura ambigua dello Stato Pontificio. Lo Stato Pontificio infatti è contemporaneamente uno Stato come gli altri e la sede di una istituzione che non è territoriale, la Santa Sede: da questo deriva un’ambiguità che rende estremamente difficile, per esempio al Cardinal Consalvi, la politica internazionale. Infatti quando ad un certo punto si chiede allo Stato Pontificio di entrare in una lega offensiva e difensiva contro Napoleone, il Papa si rifiuta perché dice di non poter entrare in una lega di guerra. Ma Consalvi pone al Papa la questione in termini chiari, dicendo in sostanza: "Santità, o siamo una cosa o siamo un’altra: se siamo uno Stato che va dal Po a Terracina, dobbiamo comportarci come gli altri, altrimenti dobbiamo cambiare radicalmente il nostro modo di agire". Questa ambiguità forse è stata risolta soltanto nel 1929. Certo bisogna aggiungere che tutto quel periodo di lotte ha anche dato un grande prestigio al Papato e alla Chiesa; proprio attraverso le persecuzioni, le sconfitte, i drammi, Pio VI si è trovato a godere di un prestigio che forse non avrebbe avuto. La sua situazione di quasi martire, e comunque di perseguitato, ha riportato all’attenzione di tutti, anche dei paesi protestanti, la condizione di allora della Chiesa Cattolica, ed è servita molto al rinnovamento della stessa Chiesa. Secondo Raponi proprio il problema del rapporto con i francesi e con Napoleone ha preparato i cattolici d’Europa alle lotte per la libertà religiosa che si sono poi svolte durante tutto l’Ottocento.

Un’altra relazione di estremo interesse è quella di Stanislao da Campagnola, padre capuccino oltre che ordinario all’Università di Perugia, che ha un titolo abbastanza singolare: "L’esperienza giacobina degli anni 1796-1799 tra Vangelo e Apocalisse". Effettivamente, da parte giacobina c’erano ansie e speranza di rinnovamento che però, sottolinea Stanislao da Campagnola, erano anche fortemente presenti nel campo cattolico: i giacobini – e questo può spiegare il fascino che il giacobinismo ha esercitato su alcuni elementi del clero – proponeva un rinnovamento totale, ed anche chi era totalmente contro di loro si rendeva conto che la Chiesa della seconda metà del Settecento andava rinnovata, pur essendoci naturalmente anche coloro che non volevano in alcun modo il rinnovamento. Si arriva così fino all’eccesso di coloro che pretesero, dopo il 1815, che venissero levati dalle vie di Roma o di alcuni luoghi marchigiani gli orologi con le ore alla francese, perché erano portati appunto dai francesi, oppure che venisse eliminata l’illuminazione stradale, perché era stata fatta in epoca napoleonica. E a questo proposito bisogna evitare di cadere in una trappola storiografica di stampo neoilluminista: non è detto che riformatore illuminista e riformatore giacobino coincidano. Accettando questa identità, si è costretti a regalare alla storiografia neoilluminista e neorivoluzionaria tutta una serie di personaggi che invece ad essa non appartengono. Prendiamo ad esempio il Cardinale Fabrizio Ruffo, al quale nessuno può negare la patente di controrivoluzionario: egli però era anche colui che aveva incominciato in modo estremamente duro a riformare la tesoreria pontificia, provocando le reazioni di tutta una serie di Cardinali conservatori i quali erano i tangentari – l’espressione può essere brutale, ma è efficace – dell’epoca: il Cardinale dunque è il tipico esempio di riformatore contemporaneamente controrivoluzionario.

Vorrei ora ritornare su un punto estremamente interessante, che è stato già accennato sia da Agnoli che dalla Rauti. Le insorgenze perdono perché sono un’insurrezione popolare; non esiste nella storia un caso di insurrezione popolare che abbia sconfitto un esercito regolare. Gli insorgenti vincono solo quando un generale di mestiere – come Laoz – o qualche ufficiale della nobiltà si mettono alla loro testa, e da un’orda, da un branco di contadini armati, gli insorgenti diventano un esercito. Ed infatti la morte di Laoz è forse il dramma più grave, militarmente parlando, delle insorgenze, perché è la scomparsa dell’unico capo militare del Centro Italia, l’unico in cui era abbastanza chiara l’idea che lì si lottava anche per l’unità d’Italia.

Nella relazione di Brunetti si sottolinea invece che a un certo punto, insieme alla religiosità, presso gli insorgenti influì anche il nazionalismo: d’altra parte, anche se tale nazionalismo non c’era alle origini, lì comunque si combatteva contro i francesi, ed è chiaro che la lotta per la propria religione doveva finire per coincidere con la lotta per la propria piccola patria.

Leggendo le relazioni, emergono anche alcune statistiche, ad esempio delle tabelle veramente impressionanti sul numero di religiosi che c’era in certe città italiane: lo Stato della Chiesa ha avuto in quell’epoca non solo funzionari, ma anche alcuni uomini di Stato di grandissimo livello, che spesso sono stati frenati dalla situazione. Caso tipico è ancora Consalvi, che ad un certo punto deve trattare con un tale Iran per le cessioni di Benevento e Pontecorvo, ma non riesce ad avere da Roma una statistica sulla popolazione. Nello stesso tempo vi erano anche personaggi di grandissimo valore nell’ambito della burocrazia, spesso costretti a emigrare o a campare impastoiati da lacci e lacciuoli.

Cardini: Si è parlato della possibilità di leggere le insorgenze del ‘96-’99 come una sorta di contraltare preventivo del Risorgimento: ma vi è anche la possibilità di leggerle come il primo capitolo di quello che potremmo chiamare il processo di unificazione nazionale, un processo che forse in seguito si è sterilizzato, appiattendosi su una sola posizione e compiendo così una scelta che probabilmente non era né la più "popolare" e nemmeno quella maggioritaria. Si sarebbe certamente potuta fare un’unità d’Italia diversa... io sono fra coloro che pensano che la storia non solo si possa ma addirittura si debba scrivere al condizionale, perché chiedersi che cosa la pluralità dei possibili emergenti in un certo momento avrebbe potuto comportare nel processo storico se certe contingenze si fossero rivelate di un tipo piuttosto che un altro, fa emergere la potenzialità dei vari possibili di cui nel processo storico volta per volta soltanto uno diventa realtà. Evidentemente non si può forzare la realtà, altrimenti si fa della fantastoria: l’avvenimento storico, una volta avvenuto, è tale, e ce n’è uno solo, però è legittimo dal punto di vista dello storico domandarsi che cosa sarebbe potuto accadere se... Detto questo, bisogna aggiungere che il buono storico deve avere l’umiltà e anche la lucidità metodologica di sapere che a una domanda di questo genere è legittimo impegnarsi per dare risposte il più possibili precise, anche se evidentemente ad una risposta precisa non si può arrivare. Questa premessa permette anche di capire che le insorgenze sono proprio un momento contingenziale, alla fine di un secolo interessante – anche se apparentemente sfumato e addormentato – come il Settecento italiano.

Non sottoscriverei, professionalmente parlando, una visione che appiattisse il problema delle insorgenze sulla misura esclusivamente religiosa, come non approverei una soluzione di tipo "pre-nazionale" al problema dell’insorgenza contro lo straniero. Infatti questo elemento nazionale e di lotta contro lo straniero poteva essere vissuto da entrambe le parti, ed infatti anche il mondo giacobino in certe zone dell’Italia pretendeva di combattere lo straniero. Cos’è lo straniero? Da questo punto di vista, noi viviamo un crepuscolo dell’ideologia dello straniero, che è funzionale all’ideologia della patria-nazione vissuta in una maniera che è stata riletta e rivista dal giacobinismo. Ma negli avvenimenti di cui stiamo parlando, questa ideologia la troviamo proprio nel suo momento di nascita, e da entrambi le parti si parla di patria, e anche di Dio e di Cristianesimo, anche se evidentemente in maniera diversa.

Normalmente, quando si parla di insorgenze, se ne parla come ne parla una certa storiografia marxista, mettendo sul piatto della bilancia altri tipi di pericoli di appiattimento, e leggendo così le insorgenze come momento culminante di una insoddisfazione, di una paura, di un disorientamento di tempo se non proprio lungo, per lo meno medio, perché già prima dell’arrivo dei giacobini e dei francesi in Italia era stata tentata in vario modo la via delle riforme. Queste riforme, che hanno avuto un impatto notevole sulla società italiana, hanno avuto rappresentanti illustri, Maria Teresa e Giuseppe nel Regno d’Italia – fondamentalmente la Lombardia –, gli esperimenti di Pietro Leopoldo in Toscana, Carlo III nel Regno di Napoli. Questa opera di riforma ha avuto dei nemici nell’ambito della Chiesa, ma anche dei collaboratori, prosecutori ed epigoni, come il cardinal Ruffo, che passa invece a torto per essere un fiero rivoluzionario e un gran macellaio: ma sulle abilità di macellaio di molti di questi protagonisti, da una parte e dall’altra, ci sarebbero da dire molte cose, che comunque dipendono da come ci si sente, da come ci si colloca, dal punto di vista che si assume, non tanto religioso-ideologico, quanto sentimentale. E per quanto riguarda il cardinale Ruffo non bisogna dimenticare che ha fatto di tutto per frenare le orde sanfediste, e che certi spettacoli macabri, come l’uccisione di Eleonora Fonseca Primentel, non sono stati voluti tanto dal sanguinario cardinal Ruffo quando dal beneducato ammiraglio Nelson e da tutto l’ambiente che ruotava intorno alla corte.

Come vedete, è una storia dura, difficile, per la quale una spiegazione o una chiave privilegiata che elimini le altre è sconsigliabile. Allora, perché parlare delle insorgenze? Il Meeting di Rimini lancia messaggi precisi, firmandoli e avendo il coraggio di quello che firma: ricordando le insorgenze, il Meeting ha voluto dare un segnale che non è il segnale del semplice centenario, ma ha voluto scuotere, e non solo per fare un atto di giustizia nei confronti di certi massacri dimenticati, ma anche per toccare una certa forma di apatia che ha le sue radici profonde nell’ignoranza da parte dell’opinione pubblica cattolica. Se in Italia è vero che non si legge, è anche vero che quei pochi che leggono scelgono male i loro libri: in particolare conoscono poco la storia, e questo è particolarmente vero per i cattolici, ed è tragico per alcune categorie di cattolici, come i docenti – soprattutto quelli medi, ma anche quelli elementari – gli studenti, i genitori che hanno figli in età scolare...

In una società in cui veniamo martellati continuamente dallo slogan che è un dovere ricordare. Si tratta di ricostruire una memoria storica a tutto campo, che emerge sicuramente studiando il fenomeno delle insorgenze, vere radici unitarie, ma non compatte o totalitarie, della nazione italica. Uno degli elementi fondanti della nazione e dell’identità italica è l’aver vissuto un particolare tipo di Cristianesimo cattolico, alla luce da un lato della grande tradizione popolare, e dall’altro della rilettura e della riorganizzazione che del Cattolicesimo si è fatto dal Concilio di Trento in poi. Carlo Levi, che non mi risulta brillasse particolarmente di simpatia per Santa Romana Chiesa, in Cristo si è fermato a Eboli, fa alcuni discorsi, poi ripresi a modo suo da Pier Paolo Pasolini nelle Ceneri di Gramsci, quando parla dell’Italia "umìle": ed è proprio contro questa Italia umìle che il giacobinismo francese ha compiuto i suoi massacri, e dicendo massacri intendo parlare di centinaia, di migliaia di persone ammazzate.

Se noi ricordiamo giustamente i 370 martiri delle Ardeatine, o i martiri di via Rasella – i 33 soldati tedeschi e il ragazzino di 13 anni morto per caso e poi censurato –, esattamente allo stesso titolo dovremmo ricordare anche altri martiri... non per strumentalizzare dalla nostra parte queste cose orribili, ma semplicemente per ristabilire nella sua interezza la realtà storica.