Irenej Friderik Baraga

Martedì 25, ore 11

Relatore:

Alojz Rebula

Alojz Rebula, nato a Sgonico (Trieste) nel 1924, è considerato il maggiore scrittore sloveno vivente in Italia. All’insegnamento ha unito l’attività di saggista, critico letterario, traduttore e romanziere.

Rebula: Oggi fra i diversi tentativi di far rivivere il paganesimo panteista c’è anche quello di contrapporre al pensiero occidentale, greco-cristiano, dilaniato da un presunto dualismo (ad esempio del bene e del male), un altrettanto presunto innocentismo, cosmico ed esistenziale, delle culture indiane d’America. E’ il mito rousseauiano che tarda a morire, anche dopo la morte del mito fratello, quello marxista: è, fondamentalmente, la negazione del principio cristiano del peccato originale, quel peccato originale messo in sordina anche da tanta teologia moderna, ma ancora una volta dimostrato con tragica spettacolarità dalla storia di questi giorni.

Com’è stato allora quel mondo indiano? Nel secolo scorso, un mio connazionale, allora cittadino austriaco, vi si immerse per la vita, facendosi egli stesso indiano, prima indiano ottavano e poi indiano ocipwe: e ciò non per evasionismo storico, ma in ragione di una meditata scelta spirituale, per portare a quel popolo la luce e le misure di Cristo.

Il primo dicembre 1830, dopo aver attraversato una Francia ancora scossa dalla Rivoluzione di luglio, ad Havre de Grace, oggi Le Havre, s’imbarcava per New York un trentenne sacerdote sloveno, dal tratto vagamente aristocratico, Irenej Friderik Baraga. Scopo del viaggio: raggiungere le missioni tra gli indiani del Nord America. Si trattava di una decisione sorprendente, sia per il personaggio, sia per l’ambiente da cui proveniva. Baraga era, infatti, nato in un castello, un tempo residenza di caccia dei conti Auersperg, per poi passare, bambino, in un altro castello più grande, a Trebnje, tra le verdi colline della Carniola inferiore. Terminati gli studi ginnasiali a Lubiana, si era iscritto all’Università di Vienna, per attendervi agli studi di Giurisprudenza, nella prospettiva di ritornare al castello di Trebnje e rimetterne in sesto l’economia che un padre assennato, ma forse troppo intraprendente, aveva indebitata. A tale prospettiva, tra borghese e feudale, non poteva mancare un risvolto di felicità coniugale e familiare. Esso aveva già un nome: Betty Dolinar, figlia di quel professor Dolinar, presso cui Baraga aveva abitato a Lubiana, un uomo dalla vita cristianamente esemplare e che influenzò profondamente il giovane studente.

Nella capitale danubiana, oltre agli studi giuridici, il giovane sloveno si diede, con un ardore che preannunziava il futuro poliglotta, allo studio delle lingue: francese, inglese, italiano, spagnolo. Ma ecco che, già al secondo anno, in quella Vienna dove al tramonto napoleonico si accompagnava la rinascenza cattolica, lo attendeva un incontro che doveva cambiare la rotta della sua vita. In una giornata di luglio del 1817, il giovane studente si inginocchiava al confessionale di un futuro santo, il redentorista Klemen Dvorak germanizzato Hofbauer, apostolo della Vienna di Francesco I. Iniziava così una frequentazione che avrebbe conquistato il giovane castellano alla causa del soprannaturale, all’avventura dell’invisibile. Quando, nel 1821, l’anno in cui il Congresso della Santa Alleanza portò la piccola Lubiana alle cronache europee, ritornò, laureato, al castello paterno; le sue prospettive erano ormai cambiate. Unum est necessarium: questo ormai il motto della sua vita. Senza traumi rinunciò sia all’amore della delicata Betty Dolinar, che ai suoi diritti di eredità e, dopo due anni, fu consacrato sacerdote a Lubiana. Fece le sue prime esperienze pastorali come cappellano a Smartno (1824-1828) e a Metlika (1828-1830): sei anni di un ferventissimo apostolato, accompagnato da pubblicazioni ascetiche, la cui santa irruenza stentava a conformarsi alle temperie giuseppinista e giansenista dell’epoca, in quell’appartata provincia asburgica. A squarciare un orizzonte sempre meno respirabile, concorse un volumetto stampato a Vienna di sole 60 pagine, ma con contenuto per lui dirompente: Abriss der Geschichte des Bistums Cincinnati in Nord America, schizzo storico della diocesi di Cincinnati nell’America del Nord. Era il 21 giugno 1829 quando il cappellano di Metlika se lo trovò sul tavolo. Permettetemi se qui mi autocito da una mia opera uscita dieci anni fa su Baraga(1): "Cincinnati. Ma dove mai si trovava quella città che spassosamente evocava il ricordo di un condottiero dell’antica Roma, di Cincinnatus, il ricciuto? E che storia avrebbe potuto avere quella diocesi di un Paese che era esso stesso privo di storia, gli Stati Uniti d’America, quella favolosa terra del tabacco e del granturco, dal sapore vagamente selvaggio, che era indipendente da appena cinquant’anni, dal 1776, e che da appena quarant’anni, dal 1789, aveva avuto la sua prima diocesi, Baltimora, quella lontana terra dove, fra tredici milioni di abitanti, soltanto il 4% erano cattolici?".

Il libretto era stato stampato in 4.500 copie. Quanti sacerdoti dell’Austria, fra i quali era stato distribuito, si premurarono di leggerlo? Forse che, più di un qualunque scritto di storia, non era interessante il presente, il giornale del giorno, lasciato dal postino insieme al volumetto? Si parlava di un impero all’ombra della morte, in cui, al di là dell’oceano, stava nascendo un’altra giovane chiesa, duemila anni dopo Paolo. La storia della diocesi di Cincinnati? Ma se dalla sua erezione nel 1821 non erano trascorsi più di otto anni! E poteva chiamarsi diocesi con i suoi 27.000 fedeli e 25 sacerdoti sperduti nelle sconfinate e semipopolate distese boschive dell’Ohio, del Michigan, dell’Huron? Ebbene, questi numeri non erano europei, erano numeri americani, numeri in esplosione, come era in esplosione l’America, sotto le vertiginose immigrazioni dall’Europa, nell’euforia dell’avanzata, oltre la prima barriera montuosa degli Appalaci, verso il Middle West e il Pacifico.

Chissà, se quel giorno il terzo cappellano di Metlika si chinò sulla carta geografica, chissà se fissò lo sguardo sul triangolo dell’America del Nord, in quell’arazzo terreo svolazzante tra due oceani e sfrangiato di sotto nel profondo azzurro delle Antille, per trovare là, in mezzo, sotto il grappolo dei Grandi Laghi, Ontario, Huron, Superior, Michigan, Erie, in mezzo al verde versante del Mississipi, quella Cincinnati che lo faceva sognare...

Se, effettivamente fece quel gesto, di chinarsi sulla carta dell’America, la sua commozione era senza romanticismi: era la commozione di un apostolo, che aveva percepito l’S.O.S. lanciato da un altro apostolo che si trovava in difficoltà nella sua battaglia per il Regno.

A lanciare quel grido era Mons. Edward Fenwick, primo vescovo di Cincinnati, luminosa figura della nascente Chiesa d’America. Si trattava, a sentire quella voce, di conservare la fede delle nuove generazioni di immigrati europei, Tedeschi ed Irlandesi, Polacchi e Italiani, Russi e Ungheresi e di evangelizzare le tribù indiane ancora pagane, nel nord dell’immensa diocesi.

Più che chiamare, quel santo vescovo scongiurava e ogni frase che Baraga leggeva doveva avere per lui l’effetto di una sorsata di fuoco. Leggeva ad esempio: "Dei 581.354 abitanti dell’Ohio solo 6.000 sono cattolici. Quando il vescovo Fenwick s’insediò in questa che è la diocesi più povera del mondo cattolico, si trovò senza chiesa, senza sagrestia, senza seminario, senza proventi... Chiede sacerdoti che sappiano il tedesco".

Ma il passo che dovette per un momento strappare il giovane sacerdote dalla Slovenia era quello relativo alle missioni tra gli indiani. Dopo che la Francia, lasciato nel 1762 la Luisiana all’Inghilterra, si era ritirata dal sud del continente nordamericano, era terminata anche l’epoca d’oro delle missioni indiane, gestite dai gesuiti francesi. Coll’arrivo dei colonizzatori inglesi, la giovane seminagione, in cui s’erano prodigati missionari della levatura di Marquette, stava deperendo. E Baraga leggeva: "Ci sono territori dove gli indiani pregano di avere un sacerdote, dopo che già da 65 anni ne sono privi. Questi cattolici, tanto lontani dai sacerdoti, si vedono negata la necessaria dottrina e l’educazione cristiana. Morendo, riescono a fatica a riconciliarsi con Dio. I bambini spesso muoiono senza battesimo. I cattolici vengono uniti in matrimonio con infedeli da sacerdoti eretici".

Leggendo ciò il giovane sacerdote veniva, più che lambito, assorbito da quell’ondata missionaria che la serafica Paolina Jaricot, istituendo nel 1822 a Lione la Propagation de la Foi, aveva fatto passare nell’Europa cattolica. Sei anni più tardi, nel 1828, veniva fondata a Vienna, sotto gli auspici dell’imperatore Francesco I, la Leopoldinenstiftung (l’arciduchessa d’Austria Leopoldina era stata regina del Brasile), che si sarebbe resa estremamente benemerita per le missioni americane. Basti dire che nei 40 anni in cui durò l’attività missionaria del nostro Baraga, essa raccolse, per la diocesi di Cincinnati, circa un milione di fiorini. Ebbene, dalla Leopoldinenstiftung proveniva quel libretto che doveva dare una svolta alla vita di Baraga. Qualche mese più tardi, il 10 agosto 1829, egli inoltrava, presso l’ordinariato vescovile di Lubiana, la domanda di escardinazione dalla diocesi. Una domanda non priva di un certo qual pathos biblico: "Dopo matura e pluriennale riflessione e dopo una coscienziosa ricerca della volontà di Dio, ho preso la ferma risoluzione di andare nelle missioni del Nord America e portare là, con l’aiuto di Dio, la luce della santa fede almeno ad alcune anime che ancora languono nelle tenebre del paganesimo e nell’ombra di morte e, per la strada dell’unica salvifica religione, condurle al Regno dei Cieli".

Il 31 dicembre 1830, dopo un mese di navigazione, il neomissionario, sbarcando a New York, poteva dire felice: Teneo te, America. Una giovane America che lì, a New York, non poteva che favorevolmente impressionare la sua sana estroversione. Gli piaceva, in quella città 50 volte più piccola dell’odierna megalopoli, sull’Hudson, coi suoi 250.000 abitanti, l’organizzazione urbana, con una nuova rete stradale e con efficienti linee di traffico. Che poi, in mezzo a quella fioritura materiale, non si adorasse soltanto Mammona, stava a dimostrarlo il numero, impressionante, delle chiese: 160, anche se fra queste, solo 4 cattoliche. Un segno, comunque, di una pronunciata tendenza alla religiosità, nell’uomo americano.

Irenej Friderik Baraga si sentiva rivivere. Dopo un mese di mal di mare, si sentiva rimettere in salute, in quel clima che lo ristorava. Il Nord, colle sue foreste e i suoi indiani, aveva oramai, per lui, un richiamo sirenico. Nemmeno il suo nuovo vescovo, al quale fece subito atto di presenza, a Cincinnati, lo deluse. Anzi, in lui trovò un superiore più santo che gerarchico. Edward Fenwick, un domenicano, figlio di immigrati inglesi che, qualche secolo addietro, avevano preferito rinunciare all’Inghilterra piuttosto che al cattolicesimo, faceva pensare, colla sua amabilità, a San Francesco di Sales. Lui, ex missionario, era ben felice di esaudire il desiderio del nuovo venuto, di essere mandato non tra gli immigrati europei, ma tra gli indiani: un’opzione più unica che rara, tra i sacerdoti del tempo. Ora, in gennaio, non si trattava che di aspettare che i grandi Laghi, in realtà mari d’acqua dolce, si sgelassero. Nel frattempo, Baraga si sarebbe preso a cuore i 2.000 cattolici tedeschi di Cincinnati. In primavera, lui stesso, Fenwick, andando in visita pastorale tra i Laghi, l’avrebbe condotto sul posto. E mentre, in quell’inverno, il giovane missionario sloveno si faceva tedesco tra i tedeschi, predicando e confessando, cominciava anche a farsi indiano. Nel seminario che l’ospitava, c’era, infatti, anche un allievo pellirossa, il diciottenne William Makete Binesi, figlio del capotribù degli Ottavani, stanziati sulle sponde del Lago Michigan. Baraga non sarebbe stato lui, se non si fosse provato a spremere dal giovane indiano il massimo che potè di quella fantomatica e difficilissima lingua, dai vocaboli geometrici e con schiarite vocaliche come echi del Niagara.

Il futuro missionario non si chiese nemmeno se, per la conversione di 4000 anime, valesse la pena di inoltrarsi nella selva delle 30 coniugazioni dell’ottawano. Era infatti giunto al di là dell’Oceano, condotto da quella fede che gli diceva che sarebbe valso cacciarsi in mille coniugazioni ottawane per una sola anima.

Il 21 aprile 1831 egli partiva, unico missionario che la diocesi di Cincinnati era in grado di dare all’evangelizzazione degli indiani, per il Nord, dando così inizio alla sua quarantennale avventura indiana, un’avventura fatta di spossanti marce tra le nevi, di foreste vergini, di arrischiate navigazioni sui laghi, in fragili vascelli indiani, di lunghi viaggi a Cincinnati, Detroit, in Europa per la stampa di libri indiani e alla ricerca di nuovi missionari e di nuovi mezzi; un’incessante azione pastorale, stimolata soprattutto da una immensa fede nel sacramento del battesimo. Per battezzare un bambino malato era capace di intraprendere, su quello strumento di tortura che erano le racchette da neve, un viaggio di 100 km tra le foreste. Unico scopo di questo dinamismo (con punte sovrumane per cui forse non sarebbe esagerato chiamare Baraga il Saverio degli indiani): salvare anime immortali e civilizzare un popolo già minacciato dalle perversioni europee, soprattutto dall’alcool (l’acquavite era infatti la valuta con cui il mercante europeo, nel suo cinismo, preferiva comprare dagli indiani le preziose pelli degli animali delle loro foreste).

Quattro, le tappe della grande avventura missionaria di Baraga, prima che Pio IX lo promuovesse vicario apostolico del Michigan Superiore. La prima, di due anni (1831-1833), ad Arbre Croche, nell’estremità settentrionale del lago Michigan, potrebbe essere caratterizzata come la sua luna di miele missionaria. Viveva in una capanna, dove, quando pioveva, doveva ripararsi sotto l’ombrello, ma le sue lettere alla sorella Amalia traboccavano di una felicità che si potrebbe dire nuziale: "Felice quel giorno che mi ha condotto tra gli indiani, che mai più abbandonerò, se tale è la santissima volontà di Dio"; "O come sono infinitamente felice!" E nella terza lettera: "Non ti posso dire con quale grande commozione e intensa gioia ho celebrato queste funzioni (benedizione di una chiesetta, n.d.r.). Il pensiero che in questo luogo desolato, in mezzo alla foresta vergine, dove poco tempo addietro non si sentiva che il vociare degli indiani e dove venivano fatte idolatriche oblazioni allo spirito maligno, ora si erge un santuario al Dio vivente e al Padre dei cieli si offre l’immacolato Agnello di Dio, questo pensiero mi ha talmente commosso che non potevo trovare parole con cui esprimere a Dio la mia riconoscenza".

Già nel 1832, ecco il suo primo libro in ottavano, stampato a Detroit durante un infuriare di colera, contenente preghiere, canti e catechismo, il tutto in 207 pagine.

Nella seconda tappa, di un anno e mezzo (1833-1835), a La Grande Traverse, 450 km più a Sud, dove il libero territorio indiano confinava con gli Stati Uniti, il giovane missionario doveva fare l’esperienza di un ambiente meno beatificante. Due le ragioni: la penetrazione dei mercanti europei e il conseguente vizio del bere diffuso tra gli indigeni e la presenza di una missione battista, ivi già insediata e accesamente contraria ad una concorrenza cattolica. Anzi, a La Grande Traverse, Baraga ebbe la sua notte di passione, allorché una turba di indiani ubriachi, aizzati dai mercanti, cercò per ore di sfondare la baracca dove egli stava ormai attendendo la morte, pregando, e dove, passato il pericolo, fece il voto di non gustare mai più il frutto della vite, come, alcuni anni più tardi, similmente rinunciò alla carne.

A trasferire Baraga alla sua terza tappa missionaria (1835-1844), quella più lunga, sull’isola di La Pointe, nell’arcipelago delle Isole degli Apostoli, nel Lake Superior, concorse un fattore non religioso: la politica etnica degli Stati Uniti sotto il Presidente Jackson (1829-1837). Sempre più sommersi dal flusso migratorio dall’Europa, gli Stati Uniti si prefissero nuovi sbocchi coltivabili negli ancor poco popolati e liberi territori indiani, comperando dai diversi capi delle tribù i relativi diritti. Presto, però, particolarmente dopo la ribellione di Falco Nero, si cominciò a praticare l’espulsione dell’elemento nomade giusto il principio secondo cui chi non aveva un domicilio stabile, ma viveva di caccia e pesca, poteva proseguire tale stile di vita anche al di là del Mississippi, nelle selvagge solitudini prospicienti le Montagne Rocciose. Non si era ancora alla politica degli sradicamenti etnici, praticata dalle dittature del secolo XX; non si era ancora alla barbarie. I funzionari del governo avevano, anzi, la direttiva di trasferire i pellerossa nel modo più umano possibile. Ma si trattava sempre dello sradicamento di un popolo quasi misticamente legato alle sue foreste di acero e alle sue acque. Per gli Ottavani cominciava un dramma, se non proprio una tragedia.

Per alcuni di quei funzionari, il mezzo più umano di persuasione era l’infernale strumento dei mercanti, l’acquavite: l’indiano, ridotto in rovina psicologica, non avrebbe più costituito un problema. Non così un indiano non più nomade, non più cacciatore, ma legato ai suoi campi e alla sua casa, sobrio e operoso, consapevole dei suoi diritti civili e della sua identità nazionale. Era appunto, questo, l’ideale umano per il quale si prodigava, parallelamente all’iniziazione cristiana, e in contrasto con lo spirito della politica statale, il missionario sloveno, lui pure figlio di un piccolo popolo, allora appena agli albori della sua autocoscienza nazionale.

Sopravvenne allora una circostanza provvidenziale: gli indiani ocipwe, nelle Isole degli Apostoli, linguisticamente affini agli Ottavani, con cui erano legati dal comune ceppo anglonchino, chiedevano un sacerdote. E così il vescovo di Detroit, Rese, un tedesco dal nome francese, il meno esemplare tra i superiori gerarchici di Baraga, ebbe la possibilità di dare al trasferimento dell’incomodo missionario una parvenza amministrativa. Il 27 giugno 1835 Baraga sbarcava a La Point: in tasca aveva tre dollari e nel cuore, ben si può dirlo, 20.000 indiani ocipwe. Quando, otto anni più tardi, si congedava dall’isola, più che un avviato avamposto missionario, vi lasciava una ordinatissima parrocchia bilingue: oltre che da Indiani era anche composta da Francesi Canadesi. Vi lasciava una chiesa, signorilmente ornata con quadri del più noto pittore sloveno del tempo, Matevz Langus. Vi lasciava centinaia di ore passate a tavolino, in quei lunghissimi inverni polari, nell’attendere alla composizione di due nuovi libri: ad un’opera in tedesco (che nel titolo curiosamente richiamava il Germania di Tacito) sugli Indiani d’America: Storia, carattere, costumi e usanze degli Indiani nordamericani e ad un’opera in sloveno per i suoi fratelli lontani, non etnologica ma escatologica: Meditazioni sui quattro novissimi.

Un viaggio in Europa, nel 1837, viaggio che ripeterà, da vescovo, nel 1853, accolto trionfalmente dall’allora cattolicissima Slovenia, gli aveva fruttato più di 6000 fiorini, ricevimenti alla corte imperiale di Vienna ed anche un invito a cena da parte del principe Metternich, probabilmente più interessato a prospettive politiche che evangeliche. Rimessosi, così, materialmente, avrebbe potuto fare bellamente il parroco, nella quiete insulare di La Point, senonché egli rimaneva sempre un insaziabile conquistatore per Cristo. Gli bastò sapere che, a L’Anse, sulla penisola di Keweenaw, alcune centinaia di chilometri ad Est, sempre sul Lake Superior, si era insediato un pastore metodista, per precipitarsi colà, dove, del resto, era già stato invitato da un pio francese, rappresentante dell’American Fur Company, Pierre Crebassa. Una citazione dal mio libro: "E così, il 24 maggio 1843 giunse in barca a L’Anse, per restarvi dieci anni. E andò a cercare la comunità indiana, dopo che questa non l’aveva aspettato all’approdo, come era invalsa l’abitudine. E la trovò, raccolta attorno alla piccola botte di acquavite, incollata ad essa come uno sciame di vespe ad una pera marcia, in una pazza ubriacatura collettiva: uomini, donne, bambini. Era tornato là, dove si respirava senza naso (a La Grande Traverse, infatti, molte donne erano prive di naso, perché, ubriache, l’avevano avuto strappato, nelle zuffe), nel demoniaco regno dell’acquavite. Non gli restò che aspettare alcuni giorni. Sì, fino a che i suoi ipotetici futuri catecumeni avessero svuotato la botte. E poi altri giorni ancora, finché avessero smaltito l’ubriacatura". Una pagina più innanzi: "Nella sua quarta missione il nostro evangelizzatore esperimentò un miracolo sui generis: si inginocchiò nella chiesetta del Nome di Gesù (Baraga, devotissimo di questo nome, morirà il giorno della sua festa il 19 gennaio 1868), portò alla balaustra il foglio di adesione alla Compagnia della sobrietà, cominciò a vivere in una esemplare riduzione, fatta di linde casette di legno, sentì il rumore del primo mulino e il canto della prima sega".

Si trattava, effettivamente, di una consapevole riedizione delle famose Reductiones, create dai gesuiti secoli addietro nel Paraguay. Baraga riuscì a creare la sua reductio sui clivi erbosi digradanti verso il piccolo idillico golfo di Assinins, dove oggi un monumento, uno dei tanti, eretti in suo onore, accanto a denominazioni topografiche sta a ricordare quest’opera di civiltà. Lì, l’indiano nomade si stava facendo fabbro, carpentiere e, con minore predisposizione, agricoltore.

Ma un altro campo di lavoro si apriva per il missionario di una salute immutabilmente ferrea nonostante i terribili strapazzi, in quella penisola di Keweenaw, che sotto i suoi boschi rigogliosi serbava i più ricchi giacimenti di rame del mondo e che, allora, richiamava nelle sue giovani miniere operai di tutte le lingue, da tutti i venti. Torno a citarmi: "Baraga non aspettò d’esser invitato da questi diseredati figli dell’Europa. Piombò tra di loro automaticamente, per così dire. Almeno tre volte l’anno andava a trovarli. Prendeva con sé il suo tedesco, francese, inglese e vi andava. Con la croce dorata sul petto, il suo emblema missionario, portando l’occorrente per la messa, rosari ed immaginette, cibarie per il viaggio, medicamenti per i poveri. Alle volte con l’accompagnatore indiano, alle volte solo con l’angelo custode. Nelle brevi estati, attraversando paludi, nuvole di zanzare e sterpaglie di foreste vergini, nei lunghissimi inverni, invece, strisciando sulle racchette da neve, attraverso nevischi e laghi ghiacciati o boschi sepolti sotto la neve.

Allora il Manifesto Comunista era ancora nella testa di Marx e Engels; quei minatori irlandesi, tedeschi, francesi non avevano ancora preso in odio la Chiesa, quel proletariato nero non si era ancora chiuso all’Operaio di Nazareth ed accoglieva con gioia Baraga...".

Ma oramai era giunto il momento in cui la lampada doveva essere tratta da sotto il moggio. Il 29 luglio 1853 Pio IX istituiva il vicariato apostolico del Michigan Superiore, nominando a questa sede il missionario Baraga. "Nato in Italia, eccelle per pietà, zelo e conoscenza delle lingue indiane, è universalmente conosciuto ed amato, tra tutti è il più qualificato": così l’aveva caratterizzato nella relazione alla congregazione De Propaganda Fide, il vescovo di Chicago, Van de Velde. Il 1 novembre 1853 Baraga riceveva nella cattedrale di Cincinnati la consacrazione episcopale. Il suo motto episcopale: Unum est necessarium. La sua sede episcopale dopo 13 anni sarebbe cambiata nella più centrale Marquette. Sault Sant Marie, nell’estremità orientale del Lake Superior, nel punto della sua defluenza nel Lake Huron.

Frattanto, negli ultimi anni spesi anche per la cultura, erano usciti ben 3 volumi attinenti alla lingua ocippwea: a Detroit Considerazioni di un cristiano cattolico sulle verità eterne, in ben 712 pagine, e A Theorical and pratical grammar of the Otchipwe Language e, nel 1835, a Cincinnati, il suo dizionario occipweo: A Dictionary of the Otchipwe Language, explained in English: 622 pagine comprendenti 30.000 vocaboli.

Nel summenzionato viaggio in Europa, da vescovo, non poteva non fare tappa a Roma. E nelle due udienze che gli concesse Pio IX, non mancò di perorare l’elevazione del suo vicariato apostolico a regolare diocesi, inoltrando la relativa supplica. L’amarezza che ebbe a provare, al suo ritorno a New York, nel sapere che il governo centrale gli aveva negato tanto la concessione di un’area per l’erezione di un centro missionario quanto l’esenzione dalle tasse doganali per l’importazione di materiale religioso, non era che l’ouverture di un episcopato che si svolse molto più all’ombra del Golgota che in quella del Tabor.

Come definire il Baraga vescovo? Il vescovo dalle racchette da neve, su cui camminò migliaia di chilometri, passando le notti sdraiato sotto gli alberi delle foreste del Michigan? O il vescovo pellegrino, sempre in visita pastorale in una diocesi grande come l’Austria di allora, o su carretti a tratta canina o su vascelli indiani fatti con scorza di betulla o, come si è detto, a piedi tra le foreste, dove, prima di coricarsi sulla neve, cercava, alla luce di uno stento focherello, di leggere il breviario del giorno? O il vescovo parroco, là nella minuscola Sault Saint Marie, dove non trovava un sacerdote ad assisterlo nemmeno nelle cerimonie della settimana santa, dove, durante la messa, il vino gli si gelava nel calice e doveva, prima della consacrazione, liquefarlo col fiato? O il vescovo poliglotta che, in una relazione alla Leopoldinenstiftung del 1865, diceva: "In una delle domeniche di questa estate ho tenuto sei prediche diverse, in tedesco, inglese e francese, tre durante la messa solenne e tre nel pomeriggio, in un’altra chiesa"? O si potrebbe anche, senza troppo forzare, definirlo il vescovo martire, se si prendono in considerazione i suoi ultimi anni, quando, stroncata la sua fibra, si trovò inchiodato a letto, da dove non poteva che mandare angosciati appelli per potersi liberare dai debiti contratti per la costruzione della Cattedrale di Marquette?

"Già da nove mesi sono talmente malato, scriveva il 28 giugno 1867 alla Leopoldinenstiftung, "che non sono in grado né di celebrare la messa, né di pregare il breviario e per la debolezza stento a parlare". Nel suo diario c’è qualche annotazione terribile, dove il giorno della sua consacrazione episcopale viene definito "nero" e gratificato dalla maledizione che il biblico Giobbe ebbe per il suo giorno natale.

Ma si tratta di un’eccezione, in quel suo diario estremamente scarno e pragmatico, tutto incontri, orari e dollari, specchio veritiero di una natura equilibrata, realisticamente portata all’azione, anche se fermissimamente ancorata al soprannaturale.

Si potrebbe definire Barraga un vescovo ecumenico, nella misura, s’intende, consentita dai tempi di Gregorio XVI e Pio IX? Quasi, se si prende in considerazione la relazione di amicizia che ebbe con pastori protestanti, o il fatto che, durante la permanenza a L’Anse, il giornale protestante New York Observer fece il suo nome in un articolo, pieno di ammirazione per il missionario della Chiesa di Roma più zelante di quello protestante.

Né, sulle sponde del Lake Superior, era venuta meno la sua sollecitudine per la patria lontana: nel 1831 uscì a Lubiana la sua traduzione delle Visite a Gesù Cristo nel Santissimo Sacramento, del suo antenato spirituale, a lui legato per il tramite Redentorista, S. Anfolso de Liguori. Nel 1844 offrì ai suoi lontani connazionali un libro di considerazioni sulle principali virtù che poeticamente intitolò Zlata jabolka (Mele d’oro): con tale metafora erano caratterizzate le parole dei santi, che l’autore incastonò nelle sue meditazioni.

Ormai indiano tra gli Indiani (qualche fotografia è di una somiglianza fisionomica impressionante), rimaneva legato alla sua cattolica e, si può dire, missionaria Slovenia. Se Irenej Friderik Baraga ne è, infatti, il missionario più prestigioso, non è affatto l’unico; anzi, attorno a lui si muove, sullo scenario dei Grandi Laghi, e da lui attratta colà, un’intera pleiade di missionari sloveni dai profili eroici, come ad esempio Mrak, suo successore sulla cattedra episcopale di Marquette; Pirc, pomologo ed evangelizzatore, che ha dato il suo nome, americanizzato Pierce, ad una città del Minnesota; Lavtizar, morto epicamente in una bufera di neve sopra un lago ghiacciato. Per non nominare un altro grande evangelizzatore di un altro continente Ignacij Knoblehar, esploratore dell’alto Nilo e vicario apostolico del Sudan, che, tra i missionologi, ha forse un nome più prestigioso di Baraga (conquistato, da ragazzo, all’idea missionaria da una predica del Nostro, al suo primo viaggio in Europa).

Tale dedizione eroica all’Unum necessarium, dedizione che ha fatto promuovere, per Baraga, la causa di beatificazione, seguita con grande partecipazione dai suoi connazionali, non ha affatto smorzato i tratti di generosa umanità, simpaticamente aperta alla vita.

Le lettere alla sorella, come si è visto, traboccavano di tenerezza. Al genero, in Slovenia, spedì sacchi di materiale indiano etnologicamente interessante. In treno per il Canada, non mancò di controllare, l’orologio in mano, la velocità del percorso, affascinato da quei 40 chilometri all’ora che gli parevano fantastici, del convoglio. Come, d’altra parte, questo giurista, fatto vescovo, ebbe anche idee politiche, inclusa qualche riserva su Lincoln. Di fronte alle cascate del Niagara, non potè reprimere la sua ammirazione per quel capolavoro del Creatore. Sulle navi che facevano la spola sul Lake Superior, lesse non soltanto le Vite dei Santi di Butler, ma anche Le vite degli antichi filosofi. Nel suo aprirsi alla santità, Irenej Friderik Baraga assunse anche la pienezza di una calda e signorile umanità.

Portare Cristo e portare la civiltà: queste due missioni si identificavano in lui, anche se non riconosceva l’equivalenza, essendo il suo orizzonte l’eterno. E questa identificazione lo accumunava ai grandi cristiani suoi contemporanei, al Cottolengo delle iniziative ospedaliere, al Don Bosco dell’apostolato della gioventù, al Kolping della redenzione del mondo del lavoro, allo Slomsek, per nominare un suo santo collega nell’episcopato sloveno, delle imprese di promozione culturale.

Una volta ancora, lavorare per Cristo si dimostrò come la via ottimale per lavorare per l’uomo e ciò in un’epoca in cui Karl Marx, col suo mito, dava a questo assioma una propria tragica dimostrazione e contrario, dimostrazione che ancora stiamo vivendo.

 

NOTE

(1) Alojz Rebula, Duh velikih jezer (Lo spirito dei grandi Laghi), Meherjeva druzba, Celje 1980.