La carità come metodo di azione sociale

Mercoledì 23, ore 18.30

Relatori:
Gino Rigoldi,
Presidente di "Comunità Nuova"
Angelo Bazzari,
Presidente della Fondazione Pro Juventute "Don Carlo Gnocchi"
Claudio Cogliati,
Presidente del Consiglio degli Orfanotrofi e del Pio Albergo Trivulzio

Bazzari: Vi ringrazio innanzitutto per il cordiale invito a questa edizione del Meeting per l'amicizia fra i popoli che mi consente di riflettere con voi su un tema, da una parte molto impegnativo e dall'altra piuttosto insolito, se non inedito: il riferimento è alla carità, che dovrebbe presiedere il quadro interpretativo dell'azione sociale; in un tempo nel quale prevale l'ottica, spesso solo conclamata, della giustizia, dei diritti civili, politici e sociali; per dirla con cifra sintetica e riassuntiva dei diritti della cittadinanza.

Pare cioè che la carità sia ambito riferibile al privato, al soggettivo, all'individuale, in quanto opzione personale; che non abbbia quindi titolo per dire alcunché sull'azione sociale (che è per se stessa politica istituzionale e quindi pubblica, riferibile allo stato, al mercato, oltre che al terzo settore).

La pertinenza, anzi, l'ineludibile riferimento alla carità, all'azione sociale, vuol essere appunto l'itinerario complessivo della mia riflessione. La domanda, necessariamente, torna a collocarsi nello scenario della cultura contemporanea: quale immagine di uomo appare oggi, quasi in proiezione di fine secolo?

Ripensando alla celebre trilogia di I. Calvino potremmo chiederci: è come il "visconte dimezzato" ( e quale parte prevale?)? è come il "barone rampante" (con questa voglia di stare sugli alberi, certo per guardare dall'alto, ma forse senza più partecipare alla vicenda umana, pago di spettacolarizzare la propria vita; occhi per vedere, ma non cuore per sperare)? è come il "cavaliere inesistente" (con certe nostalgie riferibili al pensiero e forse anche all'agire debole")? O forse è più attendibile l'immagine del "sonnambulo"?

Di quest'uomo contemporaneo, quasi dimentico di sé, smemorato, dalla coscienza rattrappita dentro i confini dell'io minimo, che agisce, come se fosse ignaro; che parla, come se la propria lingua gli fosse straniera e pertanto, il più delle volte, sconosciuta; che cammina, come se non sapesse da e verso dove; che fa gesti, di cui non riconoce più il senso; evangelicamente potremmo parafrasare: "ha occhi, ma non vede, ha orecchi, ma non sente....". È così che "l'altro" appare all'uomo contemporaneo, seppur cittadino, come perennemente estraneo, straniero, fino alla fine.

È quell'azione sociale, trascritta nelle regole di un Welfare State, ormai attualmente delegittimato anche nelle sue forme storicamente più compiute, che richiede di essere interpellata: bastano le regole della giustizia a garantire rapporti umani, relazioni significative? Era stata l'illusione della ragione illuministica, di una solidarietà naturale, o di quella marxista, di una solidarietà utopica. Abbiamo, troppo sbrigativamente, dimenticato la lezione di Aristotele, che nell'Etica nicomachea dedicando ben due capitoli all'amicizia, afferma che non vi può essere giustizia senza amicizia. Anzi una giustizia senza amicizia è esposta ad un inesorabile deterioramento. Ma questa dimenticanza, questa rimozione, questa censura della carità, dell'amicizia, della solidarietà come ermeneutica di ogni rapporto umano che è all'origine della storia umana, perché all'origine della storia di Dio (l'amore del Padre che la genera, la grazia del Figlio che la incarna, la comunione dello Spirito che la porta a compimento: cfr. 2 Cor. 13,13) è gravida di nefaste conseguenze, il cui segno più tangibile oggi, come ieri, riappare nel riprodursi della violenza e dell'odio.

Torna alla mente la triste e meravigliata affermazione di Zarathustra: "Avete trasformato la verità più profonda in una canzone da organetto" (quando gli uomini del mercato ridono di una notizia sconvolgente, ma a tutti già nota: la morte di Dio). Forse, potremmo dire, oggi: la morte dell'uomo, quando v'è smemoramento della carità, dell'amore, dell'uomo, della prossimità.

È forse per questo che, provocatoriamente, il Settore Giovani dell'Azione Cattolica Italiana, scriveva con la Comunità di Capodarco un interessante libretto, qualche anno fa, sulla relazione, la diversità e la solidarietà, dal titolo: "Condividere, non è più una virtù", e Sergio Ricorsa, un economista in cattedra a Torino, poteva intitolare alcune "epistole sul dosaggio di una virtù": "I pericoli della solidarietà".

Ci sarebbero ben altre ragioni e motivazioni per dire della decadenza della "carità" dal vissuto sociale e soprattutto dall'orizzonte sociale: essa semmai s'addice al volontariato, alle buone azioni di vicinato, a chi si interessa al prossimo: certo, ma come azione privata, come etica personale e quindi soggettiva.

Basterebbe rileggere il dibattito che ha accompagnato l'approvazione della legge quadro (L. 261/1991) sul Volontariato, per rendersi conto come sia stato difficile il cammino per il riconoscimento della soggettualità sociale di un gruppo, di un'associazione che operi nell'ambito di quei beni, certo incommensurabili e non solo dal punto di vista economico, che sono "indivisibili", ma che si moltiplicano solo quando si "con-dividono" e che per questo sfuggono, nel senso che sono difficilmente omologabili, alle logiche sia del diritto privato che di quello pubblico.

Ma forse è sufficiente questo ventaglio di riflessioni introduttorie per legittimare il compito di una necessaria rivisitazione delle parole, che gli organizzatori hanno posto alla nostra attenzione: carità, metodo, azione sociale. Lo farò secondo due itinerari:

— Il primo, cercando di individuare il significato e i nessi delle parole evocate;

— Il secondo, cercando di dirvi — quale semplice testimonianza — la mia esperienza, di ieri, quale Direttore, per oltre un decennio, della Caritas Ambrosiana; di oggi quale Presidente della Fondazione Pro Juventute don Carlo Gnocchi, il prete milanese dei Mutilatini.

 

Prima parte

1.1. La Carità (ossia una gelosa differenza da custodire)

Essa appare parola logorata e semanticamente da rivisitare.

Ricordate tutti che la parola "amore" trova nella letteratura greca tre modalità espressive. Eros per dire l'amore del soggetto, che attraversa l'altro e ritorna, compiaciuto su di sé; filia: per dire l'amore del soggetto, che attraversa l'altro e ritorna, nella reciprocità della comunicazione amicale: agape: per dire l'amore del soggetto amante, al di là della possibile risposta dell'amato, nell'orizzonte dell'incondizionato. È l'agape che ci pone davanti l'altro proprio in quanto altro, nel suo "nudo volto", come ci ricorda E. Levinas. L'agape è un'apertura senza riserve, senza pretese e senza ipoteche; essa è espressione assoluta e incondizionata di dedizione all'altro, ritenuto importante per se stesso, è un dare senza avere, un investire senza ritorno. Dell'agape, appunto, noi vogliamo parlare. Della croce, appunto, noi vogliamo parlare.

L'amore è la definizione, è il respiro di Dio. Il Dio cristiano, la Trinità si annuncia come storia eterna dell'amore; la stessa Scrittura parla di Dio raccontando l'Amore. È la via intravista da S. Agostino: "In verità vedi la Trinità, se vedi l'Amore". Di questo Amore incondizionato, ogni uomo che viene in questo mondo è a un tempo oggetto e soggetto. Per questo, quando parliamo della Chiesa, come famiglia, come sacramento dell'Amore, non possiamo che dire: Chiesa della Carità. Essa viene, come dono dello Spirito, dall'amore; essa non si legittima e non come luogo dell'amicizia, dell'amore, della comunione e dell'unità;

Chiesa per la Carità essa si struttura e si finalizza come annuncio, celebrazione, testimonianza della carità; anche se il termine a molti non piace del tutto, davvero possiamo parlare di Vangelo della Carità, appunto: annunciato, celebrato e testimoniato.

Non è possibile qui, ulteriormente, approfondire e indagare questa mirabile parola: ma solo, con cifra sintetica, dire che questo è il cuore del discorso cristiano; l'ultima parola non è la sofferenza, la morte; la parola ultima e prima è l'amore.

Sarebbe estremamente interessante provare a rileggere la storia di duemila anni di cammino della Chiesa nella società: certo tra le molti luci ed ombre, risulta incontrovertbile il grande cammino di "promozione umana", generato dalla carità. Lo stesso momento che stiamo vivendo appare, quasi suggestivamente, evocazione e nostalgia di una società che possa ancora chiamarsi ad essere "comunità", cioè gruppo umano, fondato sulla reciprocità del dono (cum munus).

Peraltro la crisi della società moderna, della cultura laica, che in una presupposta e ormai inesistente separazione e divisione delle società (civile ed ecclesiale) non riesce più, cadute le ideologie, a trovare ragioni sufficienti e capaci di legittimare un vivere "buono", propizia una maggiore libertà di ascolto dei diversi "racconti" capaci di dare senso e significato all'esistenza, di promuovere il "bene", oltre il solo e puro "ben-essere".

È la storia vissuta, è il vivere della gente, è l'esperienza quotidiana e del quotidiano il luogo ove è generata la testimonianza della carità, è il luogo dove si genera un incontro. "Là dove due o tre si trovano ad essere riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro".

In altri termini potremmo dire che il futuro della storia non si scrive là dove si fanno i grandi vertici internazionali, o dove i potenti si spartiscono la terra; il futuro della storia si scrive là dove si fanno i grandi vertici internazionali, o dove i potenti si spartiscono la terra; il futuro della storia si scrive là dove crescono e maturano gesti e atti di solidarietà, di prossimità, dove l'altro — ignoto e sconosciuto, straniero e nemico — è accolto e riconosciuto come prossimo, come conosciuto da sempre, cioè come fratello.

1.2. come metodo (la carità come metodo)

Debbo confessarvi che, ad un primo approccio, questa dizione mi ha un poco stupito: come la carità può essere o diventare "metodo" per l'azione sociale? Non ha l'azione sociale altri paradigmi di riferimento, quali l'economia, la politica, la sociologia, la psicologia sociale, l'antropologia culturale e così via? Non v'è rischio di saltare le mediazioni della società, che oggi si è fatta ancor più complessa?

Avevo dimenticato il significato originario della parola "metodo", dal greco meta odos e cioè cammino, itinerario, strada oltre, al di là: percorso paradossale, potremmo dire.

La carità è allora itinerario che indica i sentieri che vanno oltre l'ordinario vivere e convivere; indica da sempre quell'oltre che la carità non si stanca mai di suggerire anche alle forme più complete di giustizia; dice che occorre andare oltre le attestazioni, anche le più compiute, del Welfare State; prospetta quelle forme di riconoscimento dell'altro, che la cittadinanza democratica, che si attesta sulle forme dell'uguaglianza (e quindi dell'indifferenza, quale condizione previa ad ogni forma di riconoscimento universalistico), ignora, consentendo la ricerca peraltro oggi ancora inedita, delle forme della differenza, sicché l'altro non è più solo "alius" bensì "alter" cioè soggetto non tanto di conoscenza, quanto di riconoscenza; sospinge le forme anche più sottili di socialità verso gli itinerari della prossimità; ridescrive il quadro ancora incompiuto del curare (cure) sul canovaccio del prendersi cura (care).

E il perché la carità sia metodo dell'azione sociale sta scritto in quella fondazione dell'amore, che abbiamo visto essere cuore del Vangelo. E il tema della carità risulta il più idoneo, obiettivamente a ridefinire i termini del rapporto tra chiesa e società; tra solidarietà e giustizia; tra pubblico e privato; tra società e comunità.

Proprio perché non esistono più due società; ne esiste una sola, attraversata e vissuta da coloro che in nome della carità testimoniano ciò che annunciano e celebrano; ma ciò che è testimoniato scrive (e non solo dice) dentro la storia e la convivenza rapporti sempre nuovi: si chiamano "agape"; torna alla mente la celebre Lettera a Diogneto, che ha magistralmente, dalle origini, descritto la presenza dei cristiani nella società.

Su come la carità possa farsi metodo dell'azione sociale, superando la dialettica fede-laicità, che surretiziamente si è sostituita al rapporto confessionalità-laicità, si può, secondo la felice intuizione di A. Rizzi, rileggere la parabola del buon Samaritano (Lc. 10, 25-37). L'episodio può essere raccolto a tre livelli: laico, biblico e cristologico. Il testo della parabola non contiene alcuna indicazione religiosa: nè lo svolgimento dell'intervento solidale (vide... si avvicinò...) né il suo motivo (ebbe compassione...), né il suo soggetto (il samaritano) presentano elementi che possono far pensare all'influsso di una qualche fede o di una credenza. Semmai l'elemento religioso (i due addetti al culto) riceve una connotazione negativa, anche se resta sullo sfondo del racconto. Invece di amare il prossimo (amore di coappartenenza) il samaritano si fa prossimo a quell'anonimo (un tale), che è per lui semplicemente l'"altro".

Ma il racconto è inserito anche nel contesto di una discussione che ne fa emergere la valenza religiosa (si discute come ereditare la vita eterna e come fare per ottenerla: anzi vi è una prima risposta, classica, della legge; e poi la risposta, originale di Gesù, che è il compimento della legge). Si vede come l'atto di solidarietà, intrinsecamente laico, sia al tempo stesso atto eminentemente religioso. Ma vi è anche una terza lettura, che ci viene da tutto il contesto del Vangelo di Luca: la compassione che muove il samaritano a farsi solidale, si connette a quella che muove il Padre in un'altra parabola ad andare incontro al figlio perduto (si commosse; Lc 15,20); e poi ancora a quella di Gesù, che "mosso a compassione" alla vista di una vedova, cui la morte ha strappato il figlio adolescente, lo risuscita e glielo restituisce (Lc 7,12-15). Le diverse letture nulla tolgono alla pregnanza storica del racconto. Dicono soltanto la possibile e differenziata articolazione ermeneutica della vicenda: cioè del metodo, appunto.

1.3. dell'azione sociale (nella società contemporanea)

Ma è giunto il momento di definire l'orizzonte dell'azione sociale, per cogliere il nesso ineludibile e imprescindibile con la carità, che di essa è itinerario verso l'oltre, ad esempio di quei bisogni che non si prestano ad essere articolati nel linguaggio dei diritti politici e sociali già riconosciuti.

Quel linguaggio offre un ricco vocabolario alle richieste che un individuo può fare alla società, ma appare relativamente povero come mezzo per esprimere i bisogni di comunità dell'individuo. Parliamo qui di azione sociale, riferendoci in particolare all'area propria dei diritti sociali, ben oltre i diritti civili e politici, quella che, almeno nelle democrazie occidentali, ha dato origine al cosiddetto Welfare State. Potremmo dire di quell'azione sociale, che ha avuto attenzione ai bisogni del cittadino, non in senso formale, ma in senso sostanziale. A questo orizzonte di "giustizia sociale", mai raggiunto in passato, la ragione moderna (illuminista prima e marxista poi) riteneva non ci potesse essere un oltre.

Oggi, e da diverse parti, ci si è resi conto che non è così. La carità, per troppo tempo ritenuta affare privato, della coscienza soggettiva, è oggi invocata a titolo diverso, per mantenere vivo un senso, un significato, un valore, una promessa per l'esistenza. Quando la carità è esibita come una di quelle parole che tengono compagnia nella vita, nelle situazioni estreme, ci si rende conto che essa può diventare paradigma ermeneutico per ogni momento della vita: in fondo di essa si ha nostalgia, anche quando non si riesce a darle nome. Solo in via esemplificativa, vi segnalerò taluni di questi snodi, che segnano i percorsi verso l'oltre dell'azione sociale, suggeriti e attivati dalla carità.

1.3.1. La dialettica carità-giustizia — Un primo ambito ove la carità si fa metodo (cioè strada oltre) si può ritrovare là dove essa non si stanca di dire alla politica impegnata per la giustizia che fine e motivazione della politica è la soddisfazione di bisogni, che pur appartengono non a un cittadino in generale, ma ad una persona singola e per questo unica e irripetibile. Allora la capacità di farsi interpellare dal bisogno personale, e non da quello generalizzato, diventa premessa per cogliere e soprattutto accogliere i bisogni più profondi, spesso inediti, indicibili e quindi inauditi, quei bisogni che la cultura contemporanea ha correttamente definito post e/o trans-materialistici (es. isolamento, solitudine, incapacità di integrazione nel tessuto vitale...).

Quando la mamma di un giovane handicappato grave chiede all'equipe dei medici, che pure ha avviato un serio percorso riabilitativo: "Perché tutto questo è successo a me?", noi siamo di fronte ad una serie di bisogni pressanti eppur nascosti, di desideri trascurati eppur legittimi, di domande per la cui risposta la tecnica non conosce un idoneo vocabolario, per cui la stessa medicina appare impotente e inerte. Solo lo spazio di un'autentica condivisione, di una prossimità silenziosa, e sincera, cioè della carità, può offrire quella strada "oltre" la cura, la riabilitazione, l'integrazione, ma che pure le attraversa e che fa intravvedere l'orizzonte di una possibile vita buona, degna, vivibile.

Si scrivono qui quelle pagine mirabili di accoglienza familiare, che voi ben conoscete, perché voi le avete in buona parte progettate ed attuate, di affido e di adozione internazionale: esse vanno ben oltre i diritti del bambino alla cura e all'educazione. La giustizia dei bisogni e dei diritti già noti è chiamata ad andare oltre (met-odo) se stessa verso un modello ideale di convivenza, che la carità non cessa mai di indicare e di anticipare. Così chi opera in questi settori trova arricchite le proprie categorie concettuali nel leggere la realtà e il proprio linguaggio nel dare un nome a ciò che fino a ieri appariva indicibile e innominabile. La carità si fa metodo dell'azione sociale in quanto sposta sempre i paletti della tenda, verso forme di condivisione, quasi diventando l'utopia concreta dell'agire politico e sociale.

1.3.2. La dialettica comunità-società — Il profilo qui accennato appare quasi logica conseguenza del precedente itinerario. Quando la ragione moderna e con essa la culura, nell'irreversibile processo di secolarizzazione, enfatizza il modello di società, ove il principio fondamentale sta scritto nella libertà del soggetto e il contratto sociale regola i diritti di ciascuno, essa sembra chiudere la vicenda umana in un profilo organizzativo, di azione sociale compiuto: verso, si dice, una società quasi perfetta; è stata l'illusione di quelle democrazie avanzate, che pure hanno realizzato forme di Welfare State quasi totale.

Ma l'individuo non può essere ridotto alle categorie, pur sempre importanti e ineliminabili, della cittadinanza; esso è persona, unica e irripetibile, carica di bisogni, di aspettative, di desideri (de-sidera: dalle stelle, appunto; quella nostalgia e quel frammento di cielo, di azzurro e di pulito); vuole essere riconosciuto come un "tu" e non solo come soggetto/cittadino, uguale ma anonimo, liberato dai bisogni, ma non libero di amare e di essere amato.

Del resto la società complessa, che pur è società del frammento, ove la vita è spettacolarizzata, il linguaggio spesso banalizzato, ove s'afferma l'ipertrofia dei mezzi e l'atrofia dei fini, accresce quel processo di schizofrenia ormai non più tanto latente dei vissuti: accanto a un sempre più alto grado di autonomia e responsabilità individuale, di esasperata soggettività cresce una sempre più pericolosa e individuale solitudine.

Nell'anonimato urbano della città di Milano sono centinaia gli anziani che muoiono soli, di cui ci si accorge spesso molto tempo dopo; una vicinanza coatta quella della convivenza condominiale, ove i regolamenti definiscono più i rapporti di estraneità che non di prossimità. L'anziano ma anche il giovane non può essere pago di sentirsi "socio" con la pluralità di appartenenze che le diverse società propiziano; sente l'esigenza di farsi "prossimo", cioè in una relazione di gratuità, non di imposizione, come necessariamente è quella segnalata dai diritti. Ma la prossimità abita solo nella comunità: e le diverse comunità oggi attraversano la società.

Superata ormai da tempo, anche nella riflessione teologica, la concezione delle due società (ecclesiastica e civile), non ci resta, positivamente, che pensare anche la comunità cristiana come ambito di persone che vivono nella società, rendendo testimonianza di ciò che annunciano e celebrano: l'amore, la carità appunto. Torna alla mente la bellissima e già evocata Lettera a Diogneto, ove è narrata la presenza dei cristiani nella società: cittadini e insieme stranieri, abitanti eppure itineranti (il termine, val la pena di ricordarlo, è "paroioi", la stessa radice di parrocchia), per quell'oltre che essi ambiscono scrivere nelle pieghe della storia e della società: "Guardate come si vogliono bene". Cos'è dunque una Chiesa su un territorio? Una parrocchia, in particolare, è — etimologicamente — "casa accanto, dentro le case". L'oltre è tutto e solo qui: la testimonianza della carità, che crea comunità.

Tutta la storia del cosidddetto terzo settore, del privato sociale sta scritta qui: non un'antitesi, semmai un'anticipazione, non un'antinomia, semmai un'integrazione delle politiche sociali o degli interventi di Welfare: cioè l'iscrizione e la descrizione nelle trame dei diritti di un disegno di prossimità; è lo spazio della comunità, delle comunità.

Il fiorire di luoghi ove è detta e mantenuta, l'un per l'altro e l'un con l'altro, una riconoscenza; quella gratuità, che non può essere dettata da una legge o riconosciuta da un decreto. È forse per questo che molti luoghi di attenzione a bisogni gravi come quelli legati alla tossicodipendenza, alla sofferenza psichica o alla malattia mentale hanno assunto il nome di Comunità (di accoglienza, di vita, terapeutica ecc.): lo stesso termine con cui si dice della Chiesa o di convivenze religiose, maschili e femminili. Senza comunità la società deperisce, anche se l'organizzazione sociale, ove sono mantenuti i diritti di cittadinanza, favorisce e propizia le molteplici forme di comunità.

1.3.3. ripartire dagli ultimi — Appare quindi di sconcertante attualità ciò che scrivevano i Vescovi italiani in un documento del 1981. "Occorre ripartire dagli ultimi... con gli ultimi e con gli emarginati potremo recuperare tutti un genere diverso di vita". Anche qui abbiamo un'indicazione di metodo della carità; non basta rispondere ai bisogni degli ultimi. È che dagli ultimi nasce un'istruzione provvidenziale, per riscoprire quelle parole che tengono compagnia nella vita.

Dunque si potrebbe delineare un profilo testimoniale delle nostre comunità: se sono a misura di queste indicazioni o se sono ancora lontane; se il metodo della carità (condivisione, gratuità, dono incondizionato, promessa) è davvero misura degli interventi sociali; e se una specificità va attribuita e forse esigita (d)alle opere di carità della comunità ecclesiale, sia pure come legittima e autonoma espressione del cd. terzo settore, essa non può che risiedere in quelle qualità che sono evocate dalla 1a lettera di S. Paolo ai Corinti, cap. 13. E gli ultimi non sono mai in prima fila nella scena della storia. Gli ultimi vanno cercati, gli ultimi vanno invitati a cena e introdotti nella scena; il mondo contemporaneo è, letteralmente, "osceno" e soprattutto per questo; per l'esistenza e la persistenza di un terzo e di un quarto mondo, che non fa più problema (non è invitato al tavolo della cena e resta perennemente fuori dalla scena).

Ma anche solo da noi l'elenco potrebbe apparire interminabile: i giovani in cerca di prima occupazione e tutti quelli che entrano a costituire il vasto e complesso pianeta del disagio e delle devianze giovanili; i disoccupati cronici e gli espulsi dal lavoro; coloro che cercano una casa o sono minacciati dallo sfratto; gli anziani soli e non autosufficienti; i malati cronici, inguaribili e terminali, che cercano terapie urgenti ed efficaci; coloro che non hanno mai avuto o hanno smarrito il gusto e il senso del vivere e si rifugiano nella droga, nell'alcool, nella violenza, nella criminalità; coloro che con una terminologia efficace, il Secondo rapporto nazionale sulla condizione del Paese, ha identificato quale espressione di povertà estreme; gli immigrati extracomunitari, privi di tutto e dello stesso diritto di contare come cittadini; i malati mentali, ormai rimossi e censurati dall'ordinario contesto del vivere, ghettizzati ed emarginati là dove vivono, e dove talvolta a stento sopravvivono; i senza fissa dimora; i nomadi; tutti coloro che, pur conducendo una vita apparentemente normale, ordinata e ordinaria, sono imprigionati dalla solitudine, dall'abbandono e dall'angoscia. Sono spesso, più spesso di quanto non si creda, famiglie trascurate vergognosamente dalla legislazione e dalla programmazione del nostro paese, a vivere il peso di una tale paura. Occorrono spazi necessari per una vita familiare accogliente, condizioni per poter stare volentieri in casa con i propri cari. La carità che si fa metodo per programmare la città non può dimenticare tutto questo. Mi sembra urgente riaprire su questo, per non continuare un interminabile dibattito politico, sia pure sulle regole, ma che la gente rischia di non capire più, un confronto culturale che forse, più di altri, può favorire un dialogo tra i cattolici sul tema della città; la fatica, oggi, di tutto ciò, a modo mio di vedere, si iscrive in questa dimenticanza, o forse in questa rimozione: dell'attenzione ai poveri, agli ultimi.

La carità come metodo dell'azione sociale è, allora, ermeneutica di ogni e per ogni rapporto umano: si chiama accoglienza. "Può essere facile aiutare qualcuno senza accoglierlo pienamente. Accogliere il povero, il malato, lo straniero, il carcerato, è infatti fargli spazio nel proprio tempo, nella propria casa, nelle proprie amicizie, nella propria città e nelle proprie leggi. La carità è molto più impegnativa di una beneficienza occasionale: la prima coinvolge e crea un legame, la seconda si accontenta di un gesto" — (E.T.C., 39). Così ci dicono, con una mirabile sintesi, i Vescovi italiani nel Documento "Evangelizzazione e testimonianza della carità": è questo il metodo che la carità suggerisce e indica per ogni autentica azione sociale.

Potremmo allora provare a pensare gli itinerari iscritti dentro tale provocazione, forse la più riassuntiva di quell'approccio ermeneutico, più volte accennato.

Almeno due appaiono evidenti: l'accoglienza o la solidarietà "in- mediata", diretta, personale (del buon Samaritano), e quella "mediata", di chi opera nelle istituzioni, in un'azione sociale più allargata, con le leggi, per la programmazione e l'organizzazione sociale ecc. e che consente e prepara però ai diversi soggetti una vita dignitosa e libera (come sembra suggerire il testo di Mt. 25).

Appaiono numerose e variamente articolate le "transizioni" (gli itinerari) possibili e auspicabili, che la carità non cessa mai di suggerire e di indicare all'azione sociale:

a) Dal curare (cure) al prendersi cura (care): quanto vi sarebbe da ripensare nella sanità, sotto questo profilo; certo la ricerca dell'efficienza e dell'efficacia è fuori dubbio: ma dovranno essere sempre le situazioni più gravi a pagare? Avverrà che con la politica dei DRG (i cosiddetti raggruppamenti diagnostici, scelti per il pagamento delle prestazioni ospedaliere) le persone inguaribili diverranno per le USSL/Aziende o per gli Ospedali/ aziende "incurabili"? La cura senza guarigione o il prendersi cura proprio là dove non vi è più speranza di guarigione non apparterranno più al sistema sanitario? Dicevamo: una vita promettente (cioè accompagnata da una promessa, oggi e qui, per la condivisione dei fratelli) anche quando la scienza medica ci dice che essa è irrimediabilmente compromessa; prendersi cura (care), nel senso della riabilitazione e dell'abilitazione anche nelle forme più gravi di compromissione; è la sfida dell'oggi anche della Fondazione Pro Juventute.

b) dal ben-essere al bene: di una vita buona, di un'autorizzazione alla speranza, anche nelle situazioni più difficili; l'assenza del benessere non deve e non può compromettere il bene (che è speranza della e nella vita), anzi la ricerca del benessere è finalizzata al bene o diventa ossessiva logica di possesso.

Stare con gli ultimi deve propiziare sempre più quelle forme di vita, gestite nella sobrietà e nella povertà dignitosa: è transizione significativa dal benessere al bene.

È memoria e istruzione continua per tutti a superare la logica corrente che rivendica, spesso surretiziamente, una concezione "proprietaria" della vita.

c) Dall'istruire all'insegnare: istruire evoca la strumentalità del sapere e quindi la fiducia illimitata nel sapere scientifico o quanto meno nel sapere tecnologico; "insegnare" suppone ed evoca una comunicazione del sapere, che lascia e mantiene, etimologicamente, un "segno dentro"; insegnare attinge ed attiene ad un sapere introspettivo, narrativo, antropologicamente significativo.

1.3.4. Verso la figura della Community Care — Se dovessimo con parola riassuntiva descrivere questo lungo e forse un po' faticoso itinerario, potremmo dire: dal Welfare State alla Community Care; cioè da forme di vita e di convivenza ove l'integrazione tra carità e giustizia, tra pubblico e privato, tra società e comunità, tra territorio geografico e territorio antropologico è mantenuta come impegno prioritario di azione sociale.

Le politiche sociali hanno ormai raccolto questa sfida: e quella della Community care, esperienza di un nuovo modello oranizzativo, di derivazione anglosassone, ma ormai assunta come luogo significativo e finalmente efficace degli interventi sociali, appare a me non tanto e non solo un'espressione di psicologia sociale o di psicosociologia dell'organizzazione, quanto l'emergere di un'urgenza, che la società anche più perfetta ha bisogno di un'anima: quella che affidiamo al terzo e al quarto settore (solidarietà primarie e secondarie, forme di accoglienza familiare e non, di self-help, di auto e di mutuo aiuto ecc.) non è tanto un'integrazione sistemica dei o tra i servizi alla persona, quanto il (tardivo?) riconoscimento che i diritti si compiono là dove è mantenuta una riconoscenza: quella della condivisione, dell'amicizia, del reciproco riconoscimento, della prossimità, di un'azione sociale, che si autolegittima (e cioè è espressione della gratuità), non per obbligo di legge, non per interesse mercantile.

Questa azione ha oggi diritto di cittadinanza sociale, nonostante qualche tentativo di ricondurla nell'ambito del privato e del soggettivo, sono, da questo punto di vista, da attuare le indicazioni della 142/90 e s.m, che è, all'oggi, l'espressione più compiuta di questa filosofia sottesa alla Community care. Ma esistono questi luoghi? "Ma ci chiediamo dov'è la città?" Dove prende corpo e visibilità storica questa realtà sprirituale che è la "Polis"? Dove accade che l'uomo si riconosca attualmente cittadino e non individuo privato? I luoghi ci sono e sono molteplici. Sono potenzialmente tutti quelli della vita e della comunicazione civile. Sono in particolare quelli il cui rapporto dell'uomo all'altro uomo non assume soltanto la forma del contratto ma quella del consenso. Sono luoghi in cui non è semplicemente pagato il prezzo, ma è mantenuta una riconoscenza, in cui sono cercati quei beni che non hanno bisogno di essere divisi per appartenere a ciascuno...

È nel quotidiano e nel semplice e nel cordiale incontro delle persone che cresce la coscienza di essere cittadini e l'opportunità di occuparsi insieme della cosa comune. Se è vero come è detto nel Vangelo "che a ogni giorno basta il suo affanno" è anche vero che nella quotidianità insieme sofferta e partecipata gli uomini sperimentano quell'amicizia e quel mutuo riconoscimento fraterno che ha le radici di ogni possibilità di convivenza" (C.M. card. Martini, 1984).

Seconda parte

2.1. Dai ricordi

Il tema finora trattato in termini teoretici, sia pure attraverso una declinazione storica delle implicazioni della carità, indagata nelle sue capacità e/o possibilità di dare forma all'azione sociale, è suffragato dall'esperienza personale.

Permettetemi di dire che ciò che ho cercato di tratteggiare più sopra, non solo è possibile; ma io l'ho personalmente vissuto sulla mia pelle, quotidianamente, soprattutto nell'esperienza alla direzione della Caritas Ambrosiana, che ha abbracciato un lungo tratto della mia vita. Anzi ciò che vi ho detto più sopra è maturato in me in quegli anni. Una Chiesa così c'è. Quella che ho meglio conosciuto, la Chiesa ambrosiana, è testimone di questa lunga storia: di una prossimità diffusa, di una condivisione aperta, di un'accoglienza spesso incondizionata.

Sono molti questi luoghi di Chiesa: alle Caritas parrocchiali (vicariali) decanali e zonali ai molti gruppi di volontariato, movimenti, associazioni, cooperative di soliarietà sociale, alle molteplici forme diaccoglienza, ai preti impegnati nelle zone di frontiera. Un vasto territorio, abitato da gente meravigliosa: giovani obiettori di coscienza, ragazze che si sono impegnate nell'Anno di Volontariato Sociale; sperimentazioni inedite di accoglienza per i malati di Aids per i rifugiati politici, gli interventi per le emergenze, le attività promozionali. Davvero, come dice la canzone, una carità che fa fiorire il deserto! E davvero il territorio è fiorito, con forme spesso inedite, di frontiera, tra pubblico e privato, con altri gruppi, con le amministrazioni locali.

Permettemi di esprimere qui il mio grazie al Card. Martini che mi ha consentito quest'esperienza così meravigliosa: oggi mi sento ricco di questi incontri e credo sia questa la verifica più autentica dell'assunto che mi avete chiesto di illustrare.

2.2. ... agli impegni

Ma passiamo dai ricordi agli impegni odierni. Due anni fa anni fa il Card. Martini mi ha affidato la responsabilità di una grande opera, frutto della carità di un giovane prete milanese, don Carlo Gnocchi. È la Fondazione Pro Juventute don Carlo Gnocchi. L'eredità che io ho raccolto è certamente testimonianza di come la carità possa diventare metodo di azione sociale nel campo della riabilitazione di persone, a vario titolo raggiunte da un qualche evento lesivo: dai mutilatini e dai poliomelitici di don Carlo, agli attuali 13 centri di riabilitazione sparsi per tutta Italia.

Solo in termini informativi: 13 Centri, sparsi in 7 regioni; circa 2.000 dipendenti, un IRCCS a Milano, amplissimi spazi riabilitativi, educativi e socioassistenziali residenziali, diurni, ambulatoriali, extramurali e domiciliari.

Ma qual è la sfida dell'oggi? Che cosa direbbe e farebbe oggi don Carlo Gnocchi, questo prete per il quale è in corso la causa di beatificazione? Quali le frontiere che il 2000 dischiude, nel campo della riabilitazione, dell'abilitazione e dell'assistenza? Don Carlo Gnocchi, raccogliendo la sfida della guerra, non volle solo assistere i mutilatini; lavorò, anche con contatti internazionali, per la loro riabilitazione e integrazione sociale, in un tempo in cui queste erano parole sconosciute.

La carità diventa metodo dell'azione riabilitativa, quando ne scruta e ne scopre le pieghe, anche più nascoste, quando indica parole capaci di restituire dignità esistenziale anche all'handicappato più grave. Una riabilitazione non riducibile alle parole della sola scienza o della sola tecnica, pur irrinunciabili, in qualunque serio percorso curativo. Una riabilitazione, che di fronte — come ho scritto in un breve messaggio a tutti gli operatori della fondazione a Pasqua di quest'anno ("Col cuore aperto") — all'orizzonte muto di disabilità gravissime interroga e si interroga anzitutto sul significato indicibile e inaudito della sofferenza ricercando qualche spiraglio negli spazi interni del sé della persona disabile; riabilitazione che si pone spesso ai confini di interrogativi esistenziali, sinteticamente ricompresi nella dialettica di poli (apparentemente) antagonisti: accanimento terapeutico ed eutanasia (che spesso appare più come invocazione di aiuto, eutanasia da abbandono, o come richiesta di alleviamento della sofferenza; eutanasia che invoca anestesia).

La sfida dell'oggi è riuscire a dire (nell'azione sociale) che tutto ciò fa parte della sanità, se non vogliamo ridurre l'intervento sanitario alla cura del guaribile. È solo la carità capace di suggerire itinerari per ciò che allo sguardo comune può apparire paradossale. Ricordate le transizioni: dalla cura al prendersi cura, dal benessere al bene, dalla socialità alla prossimità? Questo cammino con tanti amici e collaboratori io l'ho, faticosamente, iniziato. E chiedo il vostro aiuto. I Centri della Fondazione non possono essere isole, sparse lungo la Penisola; realizzeranno ciò che si è detto, e ci sarà un'interazione con il territorio, con la gente, con chi vive accanto a coloro che transitano, per poco o molto tempo, nei Centri della don Gnocchi. Che la transizione sia propizia dipende da tutti noi, così come la speranza che i Centri siano luoghi di Community care.

Vi invito a leggere qualche pagina di scritti di don Gnocchi, per il quale, in occasione del 40° della sua morte, stiamo organizzando momenti di riflessione, utilizzando il logo di "itinerari differenziati". E mi piace ricordare qui il suo sguardo "i suoi occhi, così belli, così profondi, così spirituali, che avevano un che di ingenuo e di puro, gli occhi di un bambino nel volto di un uomo, occhi che dicevano parole che le parole non sanno dire". (A. Fraccaroli, 1956). E per questo che, al di là della legge, ne volle far dono: ad Amabile e a Silvio. Erano gli ultimi giorni di febbraio del 1956! Ma quella parola "oltre", propria della carità, per la Fondazione, l'ha scritta il Card. Martini, in una splendida prefazione agli scritti di don Carlo, che io ho voluto raccogliere, proprio all'inizio del mio mandato, anche per significare le nostre scelte: ritornare a don Carlo: "... E mi auguro che il messaggio perenne di don Carlo stimoli le nostre parole quotidiane, feriali o festive, a essere sempre parole di carità, mai vuote, bensì ricche perché esplicative di una prossimità testimoniata nelle opere. Desidero, infine, esprimere un mio sogno di Vescovo: che i Centri della Fondazione Pro Juventute continuino e tornino ad essere luoghi e spazi attraversati (oltre che dal rigore scientifico e dalla cura riabilitativa) dalla fraternità di una terra, di una Chiesa che riconosce in essi la profezia di un'umanità nuova, che attende agli ultimi, allevia i dolori e le sofferenze, circonda i disabili, gli handicappati e gli anziani, di quell'amore che nasce dalla contemplazione del cuore di Gesù. Come profezia della storia, come ambiti dove la vita anche dei potenti della terra viene istruita e accompagnata, come spazio e tempo dove il senso dell'esistenza è intravvisto e l'aurora di un nuovo giorno già si annuncia per tutti".

Ma consentitemi, da questa terra, che intravvede, al di là del mare, i bagliori di un'assurda e interminabile guerra, di volgere lo sguardo ai tanti bambini, adolescenti e giovani della ex Jugoslavia, menomati nel corpo e vulnerati o feriti nello spirito dalla violenza atroce della guerra. Stiamo lavorando per la costruzione di un Centro diurno, residenziale, e di formazione socio-sanitaria a Mostar — una delle tre diocesi della Bosnia Erzegovina — per i disabili più gravi; ma stiamo già pensando anche alla cura e alla riabilitazione dei moltissimi, giovani soprattutto, mutilati dalla guerra. Avremo bisogno anche di forme di accoglienza familiare, per il tempo della cura e della riabilitazione. Conto anche sulla vostra generosità e disponibilità.

Mi torna alla mente e mi scolpisce dentro come monito urgente e improrogabile quella pagina di don Carlo, certamente a voi già nota, tratta da quello che, a buon diritto, è stato definito il suo testamento spirituale: "Cristo con gli alpini". Sento, pensando a quella orribile guerra, che è qui di fronte a noi, il bisogno di rileggere con voi quel grido: "Bambini di guerra: quanti ne ho visti, di bimbi, nel mio triste pellegrinaggio di guerra. Tragico fiore sulle macerie sconvolte e insanguinate d'Europa, pallida luce di sorriso sulla fosca agonia di un mondo! E i bimbi di Albania neppure questo sorriso malato sapevano offrire alla loro terra squallida e ambigua. Alacri e fieri bambini del Montenegro, dai costumi fantasiosi, come se fosse sempre festa e dai riflessi d'acciaio negli occhi fermi e intelligenti. Poveri bimbi di Grecia, con lo stupore della fame e della sconfitta nel viso scarnito.

Miserabile frotta dei fanciulli jugoslavi che sostavano tutto il giorno alle porte delle caserme e degli accampamenti, con latte di pomodoro, scatolette della carne e gavette arrugginite tra le mani, aspettando avidi e silenziosi la distribuzione degli avanzi di cucina e un po' di rancio dei soldati...

Che cosa non avevano addosso quei bambini e quelle bambine? Teli da tenda mimetizzate, per le contrade deserte della Polonia che invocavano pane: quante volte non mi tornate nell'anima come un pianto lontano e un rimorso inquietante! Ed erano tutt'ossa quei piccini, le mani rinsecchite e protese, bastoncini le mani rimanenti nei calzoncini fatti troppo larghi... Facevano sciame improvviso intorno alle tradotte italiane, nelle lunghe e inspiegabili soste dai convogli in aperta campagna o nelle stazioncine diroccate dalla guerra, s'azzuffavano sui pezzi di pane gettati loro dai finestrini ... ed ho visto io la sentinella tedesca sparare macchinalmente in quel groviglio cinguettante di stracci!

Bambini di Russia, dell'Ucraina, delle steppe del Don e della Russia Bianca.

Paffuti e incuriositi da prima dietro i vetri delle isbe ad osservare senza paura il fiume delle macchine di guerra e degli armati che marciavano tronfi e vittoriosi verso l'annientamento della Russia; rassegnati e assenti poi a spingere il carrettino delle masserizie, nelle lunghe e mute teorie di profughi che bordavano le strade delle retrovie rombanti di motori e di armi, sotto l'incubo degli aerei saettanti nel cielo.

Da ultimo poveri esserini disperatamente attaccati al seno esausto delle madri immote, piangenti delle case deserte, atterriti e sobbalzanti a ogni rumore di guerra. Poveri bimbi della mia guerra, miei piccoli amici di dolore, dove sarete oggi e che sarà di voi?"

Diciamo noi oggi: poveri bimbi delle nostre guerre, nostri piccoli amici di dolore, dove siete oggi e che sarà di voi?

Amici, abbiate fiducia e date credito, oltre che rendere ragione della speranza, alla speranza! Fin quando ci saranno persone così, la vita manterrà la sua promessa.

Rigoldi: Ho incominciato dal carcere minorile, incontrando dei bisogni molto urgenti, intervenendo un po' per indole, un po' per cultura, un po' per fede, anche per convinzione, a fare tante cose, a confrontarle con il Vangelo. Il mio punto di riferimento cerca di essere continuamente Gesù Cristo che è stato molto tenero con la povera gente, con i peccatori, durissimo con gli ipocriti e con gli egoisti, molto spesso in polemica con le autorità religiose e civili.

La carità è un dono di Dio e proprio perché tu vuoi bene alla gente, li prendi così come sono. Vi dico sei caratteristiche, cioè come io, che cerco di essere un cristiano, vivo questa vicinanza con le persone e questa continua ricerca di fedeltà a Gesù Cristo.

La prima vi sembrerà un po' strana, è quella legata alla vita interiore: per essere degli operatori sociali, degli educatori, bisogna avere una grossa vita interiore. Noi siamo gente veloce che fa tante cose, ma che ha poca capacità di riconoscersi, di capire bene il motore che muove le sue azioni, di qualificare i suoi desideri e le sue frustrazioni, le sue paure e i suoi entusiasmi. Gente che poiché si coltiva poco, non si dà un nome interiore, finisce per essere, per un verso, poco capace di riconoscere gli stessi problemi di vita che ci sono negli altri, ma per un altro verso anche di ascoltare la parola di Dio che giudica i suoi comportamenti, che gli dà carica per le imprese che deve fare. La seconda cosa l'onestà: l'interiorità o la capacità di riconoscersi fa anche capire la purezza dei motivi e delle azioni, delle cose che dici e che fai per gli altri. Ma c'è anche un'onestà nei comportamenti. Molte volte mi sento dentro e sento intorno a me questa opinione che si può anche rubare se poi i soldi si destinano a fin di bene. Non si può mai essere disonesti, l'onestà è un fatto di motivazioni, ma poi si esprime come testimonianza vissuta.

Il terzo punto è quello relativo all'opzione privilegiata per i poveri. La cultura che circola è che i due terzi che stanno bene possono casomai fare l'elemosina agli altri, ma comunque importanti sono quelli che producono, che hanno il benessere, la salute. L'idea di stare dalla parte dei poveri perché si tenta di esere come Dio miericordiosi, con la voglia di accettare la gente con la sua povertà, di volerli capire, di fare con loro dei percorsi di crescita, ritenendoli come preziosi, come importanti, è proprio una scelta di fede, sempre di più.

La quarta è che per fare un'attività sociale e per essere poi capace di pensare politiche sociali, nel nome e col sostegno della carità, io credo che bisogna essere capaci di vedere le persone. Io ho fatto qualche corso, con pochi risultati, di comunicazione parlata. E questi miei insegnanti mi dicevano: quando uno parla in pubblico due cose soprattutto deve sapere: la prima è che uno parla se ha qualcosa da dire; la seconda cosa è che quando uno parla in pubblico deve sapere che gli altri esistono, hanno una faccia, delle esigenze, capiscono certe cose, non ne capiscono certe altre, si stancano dopo un certo periodo, hanno una storia dietro di loro. Decidere, quando si fanno operazioni di intervento sociale, di non volere i grandi numeri, dove le persone diventano appunto dei numeri, ma creare modalità di intervento o strutture dove la persona la riconosci individualmente, dove sai che lui è un mondo, è un figlio di Dio che Dio conosce.

La quinta è questa: io credo che un cristiano deve sempre praticare la carità e quindi la comunità e quindi la comunione. Siccome l'uomo è stato fatto a immagine di Gesù Cristo, immagine di Dio e Dio è una comunità di persone che si conoscono e che si vogliono bene, gli uomini hanno bisogno di comunità, di essere assieme, di essere trasparenti e affettuosi. Io credo che bisogna proprio ricominciare come educatori, come operatori sociali cristiani, a dire che è la comunione che ci salverà, è il luogo dove noi potremo vivere come persone e incontrare Dio.

Per l'ultima cosa faccio due battute. La prima è quella che mi ripete tante volte un mio amico che io vado a trovare ogni tanto, che è Don Camara, vecchio arcivescovo di Recife. Mi dice: "Sai, quando dò da mangiare agli affamati, mi dicono che sono un santo. Appena comincio a chiedere perché gli affamati hanno fame, mi dicono che sono un comunista". Don Milani diceva che la giustizia senza la carità è incompleta, ma la carità senza la giustizia è un po' una truffa. Bisogna che noi ricominciamo a fare politica: la politica è una cosa fondamentale, importante, necessaria, inostituibile, per la quale ci vogliono grosse competenze. Io spero proprio e prego e che anche da qui nascano volontà di politiche che si ispirino al Vangelo e sappiano guardare alla faccia della gente.

Cogliati: Sono responsabile di una struttura che si occupa di anziani, il Pio Albergo Trivulzio, e di fanciulli, i Martinitt e le Stelline, gli orfani di Milano. Nell'occuparci di bambini (vicini all'inizio) e di vecchi (vicini alla fine), riprendiamo un po' la regola che è stata di San Benedetto, in quanto fu proprio la regola dei Benedettini che assimilava i vecchi ai bambini dicendo: "si avranno per loro tenere premure", "si avrà sempre riguardo per la loro debolezza".

Alcuni dati dal bilancio consolidato del '94. Movimentazione di capitali pari a 130 miliardi: risorsa umana: 1572 unità: 1730 posti letto, circa 1400 nell'area di Milano, gli altri a Merate, ha un patrimonio immobiliare con un valore di stima di circa 330 miliardi. Quindi è una struttura che sicuramente può esere considerata una media azienda. A Milano i Martinitt nascono nel 1532 per l'intraprendenza di un laico che raccoglie questi bambini nella Chiesa di S. Martino, posta nell'attuale Via Manzoni da cui il nome Martinitt. Nel 1575 è San Carlo Borromeo che vuole raccogliere in Santa Maria della Stella, che è in corso Magenta, le orfani di Milano (le Stelline). A Milano orfani non ce ne sono più, attualmente noi ci occupiamo di bambini che hanno un provvedimento di affido familiare da parte del Tribunale di Milano e quindi vengono affidati al Comune e dal Comune agli orfanotrofi. Attualmente noi seguiamo circa 54 bambini distribuiti in sette comunità e un centro di pronto intervento. Ma sono le nuove orfanie di Milano che in questo momento ci interessano di più. Proprio per questo motivo abbiamo voluto togliere dallo statuto la parola orfani, dopo cinquecento anni, perché riteniamo di adattarci a quella che è la nuova proiezione nel terzo millennio della povertà del fanciullo a Milano, che è rappresentata proprio da quei fanciulli che, in qualche modo, non hanno una reale famiglia. Sono quei bambini che sono affidati al Tribunale dei Minori, ma sono anche quei bambini che conoscono il carcere minorile. Questi ragazzi devono poter essere reinseriti ed è uno dei progetti proprio quello di attivare una comunità agricola per l'inserimento di questi ragazzi nell'ambiente sociale. Nostro compito è anche quello di interessarci dei bambini affetti dall'AIDS. Sono bambini che saranno orfani, nella maggior parte dei casi vivranno, mentre i loro genitori, che sono tossicodipendenti, periranno. A Milano è stimato un numero di circa centocinquanta. Stiamo tentando di fare questo esperimento con il privato. A me la parola privato non spaventa. Don Giuseppe Bettoni, che segue Arché, ha voluto cercare di lavorare per fare un progetto comune di una nuova comunità per bambini sieropositivi. Ci manca solo un sì della Regione.

Ci occupiamo anche di anziani emarginati. Il Pio Alberto Trivulzio nasce nel 1771, è la Milano illuminista, è la Milano del Verri, del Beccaria (è del '64 il celebre "Dei delitti e delle pene"), sono gli anni in cui vengono pubblicati i fogli del "Caffè", l'Accademia dei Pugni discute dei temi della felicità pubblica, suddivisa con la maggiore uguaglianza possibile. Questi temi discussi dagli illumunisti lombardi, che vedono nel dispotismo illuminato asburgico la possibilità della soluzione del pubblico, è il terreno culturale in cui un nobile, Tolomeo Trivulzio, fa questa donazione e permette a una Milano di circa 130-140 mila abitanti di avere a disposizione cento posti per anziani non autosufficienti.

Oggi a Milano, su 1.383.000 abitanti il 19,53% è oltre i sessantacinque anni. E i dati di questi giorni sulla situazione della famiglia, che è polverizzata (a Milano ormai sono più i singles delle famiglie), devono far pensare gli amministratori pubblici per una politica dei prossimi quindici-vent'anni, perché non avremo più la famiglia, che è in qualche modo il momento aggregante per la difficoltà dell'anziano. Tenete conto che adesso addirittura i vedovi e le vedove sono il 14,59%. Si creerà uno scenario di città popolata da anziani, prevalentemente di sesso femminile, con poca possibilità di aggancio alla famiglia. La cosa che preoccupa di più l'anziano è la perdita dell'autosufficienza che vive come perdita della dignità. Il nostro compito sugli anziani è quello di lavorare per la dignità, cioè per il suo livello di autonomia, per la sua autosufficienza. Il momento riabilitativo, che è sia sociale sia sanitario, è il momento che noi riteniamo vincente perché, allungata la vita, si possa permettere di rimanere nell'ambito dell'autosufficienza.

Alcune modalità di intervento: riconoscimento dell'altro come identità e non come oggetto; accudimento e terapia degli anziani, mantenimento delle relazioni, accompagnamento alla morte, ed è questa nuova caritas che noi abbiamo voluto trasferire nella nostra risorsa umana lavorando e investendo sulla formazione del personale che deve essere finalizzato a questo tipo di risposta: preparare il personale, soprattutto la parte intermedia: infermieri, operatori professionali, tecnici, formali per una nuova pietas. Inoltre abbiamo voluto inserire a pieno titolo il volontariato per una qualità totale di prestazione nei confronti degli anziani e perché la pratica della caritas da parte dei volontari induca alla pietas anche tutto il personale.