EDUCARE PER COSTRUIRE. CICLO DI INCONTRI PROMOSSO DALLA COMPAGNIA DELLE OPERE

C’è ancora qualcosa da dire? L’impegno dei cattolici nella società e nella politica

Venerdì 27, ore 17.00

Relatori:

Sergio Zaninelli,
Rettore dell’Università Cattolica Sacro Cuore di Milano

Mario Mauro,
Parlamentare Europeo

Zaninelli: La domanda che cerca di comprendere se i cattolici hanno ancora qualcosa da dire nella politica, non nasce da un artificio retorico, ma invece denuncia una questione reale utile da affrontare. La domanda è certamente provocatoria, e consente quindi un approccio altrettanto provocatorio. Cercherei innanzitutto di scoprire se si dà ancora qualche novità nell’azione e nella presenza dei cattolici. Questo comporta il fatto che i cattolici si assumano una grande responsabilità. Esplicitare le ragioni del quesito diventa una questione di impegno morale ed intellettuale alla quale non si può sfuggire; l’arcivescovo di Milano ha parlato di "serena consapevolezza di essere minoranza". I cattolici non possono crogiolarsi nel vittimismo o, ancora peggio, lasciarsi strumentalizzare da chi pensa che non abbiano più niente da dire. Considerare la propria vita come impegno è costitutivo dell’essere cristiani. Essere cristiani comporta una novità permanente in qualunque situazione e in qualunque tempo. Il professor Lazzati, giovane ufficiale degli alpini, fatto prigioniero durante la seconda guerra mondiale, diceva sempre che i credenti nel campo di prigionia si riconoscevano tra di loro perché in ogni momento della giornata ritenevano che valesse la pena non perdere la speranza.

Non è nemmeno secondario che i cattolici siano consapevoli di una storia di presenza nella realtà sociale: una storia di novità testimoniata nel corso degli avvenimenti del paese; a questa storia se ne affianca una quasi parallela che ha negato e tende a negare il significato di questa testimonianza cattolica.

Passando rapidamente ad una sorta di inquadramento storico della presenza cattolica, si può affermare che nel corso dell’Ottocento e del Novecento il popolo cristiano ha rappresentato motivo originale e creativo. Péguy usava una bellissima espressione: il popolo solo è la terra profonda, il popolo solo testimonia. Noi sappiamo, ed è facilmente documentabile, che tutto il nostro paesaggio sociale, le nostre campagne, sono ancora oggi occupate da opere che testimoniano il collegamento con il popolo e con le istanze che il popolo esprimeva. I cattolici, infatti, non testimoniano progetti di radicale cambiamento e la promessa di un Paradiso sulla terra, ma interpretano le esigenze della gente. Gli esempi che mostrano questa originalità e creatività sono tantissimi. Don Guanella che cura i malati a domicilio, ritenendo che sia meglio così che curarli in ospedale e don Anelli che girava nelle campagne della Lombardia e del Veneto a insegnare ai contadini a cuocere il pane in modo che non si ammalassero di pellagra ne danno solo l’idea. La storia ufficiale nega fatti come questi, e non ha riconosciuto alle opere cattoliche nessuna originalità; ha esclusivamente interpretato il cattolicesimo come presenza contro il sistema, l’organizzazione, l’industria, la realtà dello Stato; salvo poi doverne ammettere l’importanza nei momenti di difficoltà, come nel dopoguerra. Credo che quanto detto costituisca la diagnosi da cui partire per cogliere alcune linee costruttive. In questa situazione, stando dentro a questa realtà italiana, i cattolici possono dire ancora qualcosa di nuovo, alla condizione che esistano come popolo che si educa quotidianamente nella solidarietà, nell’autogoverno, nella sussidiarietà concreta. La condizione è che questo popolo sia rappresentato, sia interpretato e sia fatto crescere. Come è accaduto in altri momenti della storia, per la presenza cattolica nella vita sociale e politica, è necessaria una classe dirigente, espressione diretta della ricca cultura cattolica. Non è particolare irrilevante che questi cattolici siano riconosciuti e non semplicemente tollerati.

Chiedo scusa di quello che può sembrare un esercizio dettato dal mestiere di professore, ma mi sembra che oggi lo Stato e la classe politica, si comportino nei confronti della libertà di educazione come il principe del Settecento. Giuseppe II, per esempio, affermò il principio dell’Illuminismo riformatore assoluto e uno dei suoi atti fondamentali fu di evocare a sé, togliendo di mezzo i gesuiti, l’insegnamento in tutte le scuole. Il principe infatti, per regnare, aveva bisogno in modo assoluto di essere lui ad indirizzare, a guidare, a formare la sua classe dirigente. Il principe, quindi anche chi governa oggi, nega la libertà di educazione perché vi coglie una diminuzione di potere ed è consapevole che in un sistema di libertà di educazione c’è veramente la formazione alla libertà. Dal Settecento si va sempre nella stessa direzione: il potere non vuole cedere sul principio, perché sa che se cede sul principio perde una posizione di potere. Lo Stato non crede nella società, nella sua maturità, nelle sue articolazioni sociali; non crede nella società e quindi si sostituisce alla società in nome di un ideale, in nome di una ideologia, in nome di una visione integrale totale.

Il legislatore che ha voluto far passare per parità scolastica quello che ha concesso nella recente legge, e che non è altro che un capitolo dell’assistenza, si riporta a questo: non riconoscere la crisi che è generale nell’insegnamento, una crisi della vita e di come essa pretende di essere impostata.

Mauro: La prima osservazione, da parlamentare di Forza Italia, parte dall’insegnamento di monsignor Luigi Giussani, che sottolinea la necessità che la politica sia fatta da gente interessata all’uomo. Questo è un dovere che incide sulla scelta di chi ci deve rappresentare, questo rende la politica un’attività che collabora al disegno di Dio. L’uomo è uno, e allora, prima ancora del problema dell’unità dei cattolici in politica, esiste un problema dell’unità della persona, di quella che fa anche politica. Nel frequentare i corsi dell’Università Cattolica, ho imparato un adagio di san Tommaso, della Summa contra Gentes il cui senso è questo: l’uomo è uno, è un’unità, e a partire da questa unità dà un volto alle cose, dà un senso alla realtà, tenta di trasformare la realtà dotandola del proprio significato. Se l’uomo è uno, l’unità dei cattolici in politica invece è un fatto contingente, non un dogma. È frutto anzi di una tensione che oggi manca, è frutto anche di tante contingenze particolari; non per questo non è possibile un’unità di un cattolico in politica che voglia un minimo contribuire alla trasformazione di questa società.

Detto questo vorrei sottolineare le due tentazioni più grandi per chi vuole fare politica, e tentare un impegno concreto nella società a partire da un’appartenenza al Signore di tutte le cose.

La prima è quella di pensare che il compito e la capacità della politica sia dare contenuti e senso alla vita. Affrontando il tema della libertà di educazione, ho sempre affermato che lo Stato è il garante dei tentativi che i cittadini fanno per rispondere ai bisogni, non è il padrone. La situazione spesso è diversa. Mounier diceva: "L’importanza che si attribuisce alla politica, mi pare solo spiegabile con un flusso del vecchio mito ottimista, trasferito dall’individuo alle istituzioni". Dopo aver atteso i miracoli dall’uomo nuovo, da una libertà istintiva e anarchica, ora ce li riaspettiamo da un congegno politico e sociale, ritenuto quasi un immenso distributore automatico di giustizia e di ordine. Ma si aspetta sempre, perché nulla accade.

La seconda tentazione, forse ancora più sottile, è quella di pensare, al contrario, che la politica e lo Stato siano al servizio della società e dei cosiddetti corpi intermedi, ma senza riuscire ad identificare un contenuto reale di questi corpi intermedi. Nei lavori della Bicamerale, mi ha colpito che, nel riproporre il tema della sussidiarietà, si fosse incapaci di dare un contenuto di esperienza alla parola stessa, perché nessuno poteva avere esperienza delle opere che la garantiscono: scuola, Chiesa e famiglia; lo Stato era rimasto l’unica risposta ai bisogni di tutti. Senza il contenuto di esperienze, purtroppo, parole come "libertà" e "società", suonano vuote. È un nominalismo ridicolo quello che sento aleggiare nel dibattito di oggi, soprattutto quando si insiste nel riproporre, in termini di contrapposizione, un cattolicesimo sociale di destra ad uno di sinistra. Lo dico anche con la consapevolezza di chi fa l’insegnante: molti dei miei ragazzi che hanno fatto la maturità quest’anno, tredicenni nel ’92, non sanno a cosa corrisponde nella lingua italiana la parola "Democrazia Cristiana", non ne conoscono il contenuto storico.

La Compagnia delle Opere in questi anni è passata dallo slogan "Più società meno Stato" a quello "Più società fa bene allo Stato". Quel che si vuole proporre, ridando vita e coscienza alla propositività di un popolo, non è una forma antesignana di ostilità verso lo Stato, è qualcosa di più ed è anche qualcosa di più vero. Si tratta infatti del rilancio di una presenza cattolica che riconosce utile lo Stato solo quando la società è forte, solo nel momento in cui questa società fa albergare nel suo cuore il grande ideale per un popolo. Le sfide presenti e future – la libertà di educazione, per esempio – non implicano un’opposizione parlamentare espressa "nel segreto di una coscienza", ma la proposta di ragioni che siano opere, esperienze, forme di vita.

Non possiamo continuare a far riferimento solo alla coscienza o alla rappresentanza di una parte della società, il cosiddetto mondo cattolico, progressivamente ridotto e parallelo agli interessi reali. Ciò in cui i cattolici credono è bene, se è un bene: allora deve essere promosso e difeso come bene comune, vale a dire per tutti. Questo è possibile solo se c’è un popolo che dimostra nei fatti una convenienza umana e sociale. L’intuizione buona della Compagnia delle Opere di continuare a cercare forme di aggregazione del consenso politico libere ed innovative, va in questa direzione.

Mi sia consentito riprendere di nuovo il discorso sul mondo della scuola, che io conosco da vicino. Nel nuovo progetto di legge sulla parità, non è posta la prospettiva più semplice di questo mondo: che un padre non debba subire l’ingiustizia grave di dover pagare due volte il diritto di educare i figli. Rispetto a questa proposizione, rispetto a questa vicenda, cosa vuol dire la presenza dei cattolici? Vuol dire che uno è unito nel fare la politica, è un uomo vero e non invece uno di quegli uomini che, come molti hanno fatto, volendo fare la rivoluzione, sono finiti con un buon lavoro in banca o con un buon posto nel governo D’Alema.

Il 20 gennaio di quest’anno, l’attuale governo, approvando la legge sull’aumento dell’obbligo, ha distrutto un termini di presenza dei cattolici italiani nella nostra società: la formazione professionale, ricchezza del nostro paese grazie ai salesiani. Lo Stato si è ripreso con una mano quello che ha fatto finta di dare con l’altra. Questo problema specifico non riguarda certamente l’unità dei cattolici in politica, ma il coraggio cattolico di ridire con forza ciò che è bene e ciò che è male, ciò che è sussidiarietà reale e ciò che è statalismo allo stato puro.

Il mio partito di chiama Forza Italia, ed è il partito delle libertà; eppure non c’è un’idea chiara e condivisa di cosa voglia dire libertà. Infatti, chi desta l’anima alle libertà è il popolo: un semplicissimo punto di vista. Il popolo come lo intende Pio XII non è massa morta, ma realtà che traduce la preoccupazione grande di duemila anni di storia, quella in cui un Dio si è fatto compagno per aiutare l’uomo nell’avventura della vita. In questo senso sappiamo che il contributo dei cattolici non è esaustivo e risolutivo, ma è contributo di equilibrio nella grande confusione che vive il nostro paese, che vive il mondo intero: un contributo di ragionevolezza.

Wilfrid Marten, lasciando la presidenza del Gruppo popolare europeo, ha scelto come parole per il suo commiato, non un lungo discorso di prospettive politiche, ma semplicemente la frase di san Paolo: "Ho fatto la mia corsa, ho conservato la fede". È con questa semplicità, quasi con ironia, che i cattolici possono portare il proprio contributo.