Sabato 23 Agosto, ore 17

INTELLIGENZA ARTIFICIALE INTELLIGENZA DELL'UOMO

Partecipano:

Angelo Raffaele Meo,

Docente di Sintesi di Elaborazione per l'informazione presso l'Università di Torino, Direttore del Centro di Elaborazione numerale dei segnali dei C.N.R. e del "Progetto Finalizzato Informatico" del C. N. R..

Francesca Rivetti Barbò,

Docente di Filosofia Teorica presso la seconda Università di Roma.

Luis Alberto Meyer,

Direttore dell'istituto di Ricerca Tecnologica della Facoltà di Scienze e Tecnologie dell'Università Cattolica di Asuncion (Paraguay).

Questa prima tavola rotonda ben esemplifica come la questione posta dal Meeting '86 non riguardi tanto o soltanto gli strumenti del comunicare, i tamburi e i bit, che pure ci interessano come esempi diversi della capacità creativa che l'uomo nel corso dei millenni ha dimostrato di possedere, nell'esigenza incoercibile di comunicare agli altri, quanto il rapporto etico tra l'uomo e lo strumento.

Intelligenza artificiale intelligenza dell'uomo: un titolo aperto e intenzionalmente ambiguo, che offre lo spunto per interrogarsi sulle caratteristiche che definiscono l'intelligenza umana, la capacità di far memoria del passato e porre domande al futuro, differenziandolo, nella sua originale specificità, dalle costruzioni scientifiche più audaci, oggi ben esemplificate nel caso "intelligenza artificiale". Il prof. Angelo Raffaele Meo, italiano, che ha diretto per il C.N.R. il "Progetto Finalizzato informatico" descrive, aiutato da immagini proiettate sul muro-video, i passaggi principali della storia delle quattro generazioni tecnologiche per arrivare alla fase attuale detta "quinta generazione" e agli esempi più interessanti dei livelli cui è approdata nel mondo la ricerca sull'intelligenza artificiale, sull'automazione dei processi e dei linguaggi. La prof.ssa Francesca Rivetti Barbò, italiana, la cui ricerca è dedicata soprattutto a studi di logica, semantica e filosofia del linguaggio, sottolinea le differenze sostanziali tra l'uomo e le macchine più sofisticate, mostrando come l'irriducibile originalità della mente umana risieda nell'elemento spirituale, creato a immagine e somiglianza di Dio. Il prof. Luis Alberto Meyer, paraguayano, che coniuga un impegno strettamente scientifico con un interesse profondo per gli aspetti sociali dell'evoluzione tecnologica, descrive le implicazioni del processo di informatizzazione sulla cultura delle società in via di sviluppo.

A.R. Meo:

Quando, nel 1981, i giapponesi annunciarono il loro programma di ricerca sugli elaboratori intelligenti, o elaboratori della quinta generazione, molti amici giornalisti vennero a trovarmi, più stupiti dei solito. I più sprovveduti erano sorpresi di apprendere che i calcolatori elettronici, delle cui meraviglie avevano scritto spesso in termini altamente elogiativi, parlando di cervelli elettronici, non fossero poi così intelligenti come avevano sempre pensato, e il pitecantropo elettronico dovesse ancora generare l'Homo Sapiens. Anche quelli più addentro avevano comunque perso il conto delle diverse generazioni tecnologiche e faticavano a distinguere il confine esistente tra l'informatica di tipo tradizionale e il nuovo filone che si stava evidenziando, ossia quello dell'intelligenza artificiale. In quella occasione io confermai che i calcolatori elettronici sono bestie stupidissime, tuttavia espressi la convinzione che proprio ai calcolatori elettronici fosse dovuto il progresso degli ultimi anni e le profonde trasformazioni dello scenario scientifico, tecnologico, industriale, economico e politico della stessa società nei paesi più avanzati. Ed espressi anche la convinzione che i giapponesi non avrebbero raggiunto gli obiettivi che si prefiggevano, non dico entro il 1992 – data presunta della conclusione del progetto - ma neppure per molte generazioni e generazioni di uomini, non di calcolatori elettronici. Sono passati cinque anni da quei giorni; nella maggior parte dei paesi avanzati si comincia a credere nelle intelligenze artificiali e anche qualche imprenditore ha incominciato a investire nel nuovo settore. lo sono rimasto della stessa opinione ( ... ). Per fare un po' di opera di divulgazione, vorrei presentare qualche brevissimo flash dedicato alla storia delle prime quattro generazioni. Gli elaboratori della prima generazione usavano, come componenti fondamentali, i tubi elettronici, le cosiddette valvole, che adesso si possono ammirare solo nelle radio dei nonni, relegate in cantina o in solaio. Questi elaboratori della prima generazione nacquero verso gli inizi degli anni '50. Erano enormi, richiedevano decine di migliaia di tubi, pesavano tonnellate. Verso la fine degli anni '50 è iniziata la transistorizzazione ossia la sostituzione dei tubi elettronici con transistori. Quindi, agli inizi degli anni '60 è iniziata l'integrazione ossia l'impaccamento di più transistori in un unico microcircuito. Gli elaboratori della terza generazione erano caratterizzati dall'impiego di microcircuiti, che avevano decine, centinaia di transistori. All'inizio degli anni '70 è iniziato il passaggio alla quarta generazione, cioè all'impiego di microcircuiti più complessi dei precedenti, che impiegavano al loro interno centinaia di migliaia di transistori. Oggi dovremmo essere al passaggio dalla quarta alla quinta generazione tecnologica, quella dei microcircuiti che impiegano milioni di transistori. La parola "quinta generazione" è stata prenotata dai giapponesi per indicare qualche cosa di diverso, non una nuova famiglia tecnologica, ma un nuovo tipo di soluzione, un avanzamento di tipo concettuale, ossia il passaggio dall'informatica tradizionale all'intelligenza artificiale. (...) Da molti anni il mercato dell'informatica è in crescita costante sostenuto da un rapido miglioramento delle sue tecnologie. Anche negli anni più drammaticamente recessivi il mercato dell'informatica si è espanso a ritmi superiori al 10%. Oggi quel mercato vale all'incirca 100 miliardi di dollari e i tassi di incremento fanno prevedere che diventerà a brevissima scadenza il più grosso mercato commerciale della terra. Tuttavia parlare di informatica in termini di soli fatturati, è sicuramente riduttivo. L'importanza dell'informatica, ci spiegano anche gli economisti, sta soprattutto nel suo valore intratecnologico, ossia nella sua capacità di tecnologia orizzontale di pervadere ogni altro comparto produttivo. Non c'è prodotto dell'era industriale il cui progetto non venga oggi radicalmente rivisto, animando il prodotto stesso con un nucleo di intelligenza elementare, (che non ha niente a che vedere con una intelligenza artificiale, che è un piccolo programma su un microprocessore), che rende quell'oggetto molto più ricco di prestazioni, più flessibile, più facile da prodursi, globalmente più economico. Il Prof. Meo illustra, attraverso i lucidi, alcune esemplificazioni dell'uso dei calcolatore: la fabbrica automatica, le banche-dati, ecc. Tutto ciò è dovuto soltanto all'impiego dei calcolatori delle prime quattro generazioni, quelli non intelligenti. Per facilità di riferimento questa sera li chiameremo Pitecantropi BAI - Bifoa Artificial Intelligence, per distinguerli dai nuovi elaboratori, quelli che impiegano l'intelligenza, artificiale, diciamo così, che chiameremo "AAI", come un lamento, calcolatori Acta Artificial Intelligence. Bene, i Bai sono così profondamente stupidi che non ha senso nemmeno paragonarli con i pitecantropi, come non ha senso paragonarli con nessun tipo di intelligenza naturale, compresa quella dei molluschi e dei pesci. Così profondamente stupidi, che non ha senso nemmeno dire che sono stupidi come non ha senso dire che è stupido un martello o un coltello. Si noti bene che in questo momento non sto assolutamente parlando di un eventuale possesso dell'anima, di sentimenti e cose simili, perchè immagino che nessuno dei presenti sia sfiorato dal dubbio che possa domani esistere un calcolatore animato da sentimenti come il protagonista di 2001: Odissea nello spazio o che una stirpe di calcolatori eventualmente autoriproducenti possa prendere il potere sulla Terra. E non voglio nemmeno dire che i calcolatori non hanno fantasia o spirito creativo perché sono profondamente convinto che un calcolatore non comporrà mai musica di alto livello e non scriverà mai romanzi avvincenti. Voglio dire che mancano di tutto, tolta la facilità nel fare molto rapidamente le quattro operazioni aritmetiche e che mancano anche di operazioni logiche elementari. (...) Il disastro è che il robot non vede. Non che sia difficile dotare il robot di un apparato di visione (...). Il difficile viene a livello dell'interpretazione dell'immagine.

Ecco perché oggi siamo in grado di produrre robot che facciano lavori fortemente ripetitivi, a prezzi ovviamente molto alti, come sono i robot che lavorano nelle fabbriche, nelle linee altamente automatizzate, e non siamo in grado di produrre dei robot che facciano i lavori di casa.Perché l'automobile che arriva sotto il robot è sempre esattamente nella stessa posizione, ma le lenzuola del letto, se noi gli affidiamo il compito di rifare il letto la mattina, sono messe alla rinfusa, in posizioni diverse; così se gli ordiniamo di sparecchiare la tavola, il robot non è in grado di sapere dove è la bottiglia, e se a stento la riconosce, non è in grado di identificare la strategia ottimale per spostare la bottiglia senza colpire il bicchiere, e così via... L'esempio del robot domestico mi pare estremamente significativo, proprio perché deve avere tutta una serie di funzioni strategiche, che noi cerchiamo di attuare col ricorso all'intelligenza artificiale. In primo luogo, abbiamo visto, deve essere in grado di interpretare le immagini. Poi deve essere in grado di riconoscere gli oggetti, riconoscendo, in particolare, il gatto di casa dal gatto dei vicini, per lasciare in pace il primo e scacciare gli altri. Poi deve essere in grado di riconoscere e capire i messaggi vocali che gli arrivano dal padrone. Il difficile non è sentire, ma interpretare il significato profondo di questi messaggi, e convertirli in concetti che si traducano poi in qualche cosa di direttamente operativo. Poi deve essere in grado di riconoscere la voce del padrone per non diventare schiavo di chiunque gli dia degli ordini. Deve essere in grado di concepire delle strategie operative, tenendo conto dell'ambiente, in modo che non pretenda di passare attraverso le porte chiuse, e sia in grado di scansare il cane mentre sta scopando il corridoio. E infine deve essere in grado di ricevere messaggi per posta e interpretarli, quindi tradurre messaggi scritti in concetto perché il padrone dovrebbe eventualmente potersi assentare. E così siamo arrivati alla definizione di intelligenza artificiale: per me intelligenza artificiale è quella disciplina che cerca di realizzare un robot domestico del tipo di quello che abbiamo visto e che, con molte limitazioni, cerchi di attuare quelle funzioni. Questa mia definizione riflette il pessimismo che ho nei confronti di questa disciplina, lontanissima dalle definizioni roboanti che si riportano sui libri. (...) L'intelligenza artificiale, come l'informatica, non ha una storia così antica e gloriosa come quella di altre discipline scientifiche. La farei risalire ad Alan Turing, matematico e logico inglese che nel 1947 pubblicò un lavoro, Intelligenza e calcolatori, nel quale per la prima volta si studiò il problema di emulare l'intelligenza dell'uomo. Il lavoro rimane tuttora di massimo conforto per i fanatici dell'intelligenza artificiale, in quanto egli esaminò scientificamente tutta una serie di congetture contrarie alla intelligenza artificiale e le rigettò razionalmente. Non dimostrò che si potesse fare, ma dimostrò che qualunque congettura contraria avrebbe stentato ad essere approvata e dimostrata. Nel 1956, un gruppo di giovani studiosi americani organizzò un seminario di due mesi: l'obiettivo era di studiare la realizzabilità dell'intelligenza artificiale. Fu quella la prima volta, pare, in cui comparve la definizione di intelligenza artificiale. Dalla risonanza di quel primo convegno in poi, le file dei ricercatori della intelligenza artificiale si ingrandirono ogni giorno, soprattutto nelle università americane. Oggi, su dieci studiosi di intelligenza artificiale, circa otto sono americani e circa nove lavorano nelle università.

Alla costituzione di questa forte leadership americana hanno contribuito, credo non poco, i finanziamenti militari. L'interesse militare sull'intelligenza artificiale è legato essenzialmente a due motivi: innanzitutto il robot domestico che abbiamo visto è anche uno splendido guerriero, non mangia, non dorme, non pensa, non tradisce e può essere prodotto in serie. In secondo luogo, nelle battaglie a tutti i livelli, i tempi di azione e reazione si sono ridotti progressivamente, fino a divenire, come nel caso delle battaglie aeree, dell'ordine di secondi e di frazione di secondo. E’ allora necessario affidare a un calcolatore la decisione della strategia ottimale di reazione e il modo concreto di operare. Nel 1981, come ho annunciato all'inizio, i giapponesi stupirono il mondo col loro programma dedicato agli elaboratori intelligenti. Il documento dal punto di vista scientifico era estremamente vago, e privo di tutte quelle informazioni di carattere tecnico e scientifico che fossero in grado di conferire credibilità agli obiettivi che si cercava di realizzare. Inoltre, l'ambiente scientifico giapponese era stato fino ad allora eccezionalmente fecondo per quanto riguarda la produzione di tecnologie dure, quelle strategiche, quelle che contano per competere sui mercati, ma non aveva una lunga storia nel settore della logica, della programmazione, della stessa produzione dei software. Infine, il finanziamento previsto per quel progetto era dell'ordine di venti milioni di dollari all'anno, molto più basso degli analoghi finanziamenti militari. Con venti milioni di dollari si sviluppa una linea di personal computer, con venti milioni di dollari i giapponesi dichiaravano e dichiarano tuttora di voler conquistare al loro paese la leadership mondiale nel settore dell'informatica, e di voler capovolgere i destini futuri dell'umanità. Comunque il programma ottenne un enorme successo presso i mass-media e presso la comunità scientifica. La stessa Europa di solito così tarda nel percepire le novità della scienza e della tecnologia, almeno negli ultimi anni si mosse sollecitamente con un programma, il programma comunitario "Esprit" che ha finanziamenti che su base annua sono circa dieci volte quelli giapponesi. (... ) Negli ultimi mesi, l'intelligenza artificiale si è arricchita di un nuovo importantissimo capitolo, almeno dal punto di vista economico, Parlo di "S.D.I.", dello scudo stellare o del programma di guerre stellari. S.D.I. ha bisogno di intelligenza artificiale per due motivi: 1) Il tempo utile per colpire i missili in partenza dall'Unione Sovietica è dell'ordine di pochi minuti, pertanto il controllo e la decisione deve essere sottratta all'uomo, automatizzata; tanto più che lo scenario sul quale deve essere presa la decisione di intervenire sia a livello globale, sia a livello operativo minuto, è estremamente complesso, perché il nemico potrebbe decidere di sparare, insieme ai missili buoni, anche centinaia di missili allodole, complicando così enormemente lo scenario. Inoltre, S.D.I. ha bisogno di intelligenza artificiale, perché il programma stesso sarà composto da un software che avrà almeno cinque milioni, ma più facilmente, dieci milioni di istruzione sorgente. (...) Vorrei ancora presentare rapidamente i singoli capitoli della intelligenza artificiale così come sono stati disegnati nel programma giapponese della quinta generazione. Interpretazione del linguaggio naturale. La fotografia che vedete rappresenta un istituto di credito che legge una lettera: "Cara banca prestami un milione, devo comperarmi una barca", la interpreta, capisce che quella è la richiesta di un povero diavolo, e che pertanto deve essere respinta, e produce l'uscita automaticamente. Traduzione da lingua a lingua, è uno dei problemi centrali, perché la lingua forse è la barriera più grossa allo scambio della cultura fra i popoli. Il riconoscimento della voce, cioè la dattilografa automatica. Il riconoscimento del parlatore: i giapponesi contano di riconoscere centinaia di parlatori diversi. Questo è il problema che ha la storia più drammatica, quella di grossi errori giudiziari, e di sentenze anche capitali, pronunciate da giudici poco accorti sulla base di perizie di scienziati presuntuosi. Il gioco degli scacchi, che è forse la storia più divertente, una storia di sfide continue tra il calcolatore russo e quello americano. (...) I sistemi esperti, dei quali si parla molto, cioè una base di dati arricchita di un motore di ingerenza può memorizzare l'esperienza di un uomo ed essere utilizzata per fare diagnosi. I ricercatori dell'intelligenza artificiale si sono occupati molto poco, se non negli ultimi anni, dei problema più difficile, più nobile dell'intelligenza artificiale, che è quello di indurre i concetti dai fatti. Hanno preferito occuparsi dell'altro problema, quello più facile, di dedurre conoscenza da conoscenza (…). Il tempo in cui i calcolatori diventeranno produttori di conoscenza, è ancora molto lontano. Per oggi le conoscenze, l'intelligenza, l'informazione che contano, che costituiscono la vera ricchezza delle nazioni, sono quelle interiorizzate negli uomini, non quelle contenute nella memoria di massa dei calcolatori elettronici. Con una battuta scontata, quelle dell'intelligenza naturale, non quelle dell'intelligenza artificiale (…).

F. Rivetti Barbò:

Io vorrei rispondere a due domande. Cosa l'intelligenza artificiale può fare, sostituendosi all'intelligenza umana? E al contrario, c'è forse qualcosa che nessuna intelligenza artificiale potrà mai fare? Se si confronta ciò che le intelligenze artificiali non possono fare con ciò che invece ognuno di noi sta facendo, anche qui, ora, ci si accorge che solo umana è la consapevolezza delle attività coscienti. Cioè il mio riflettere su ciò che sto dicendo. Inoltre unicamente umana è la libertà di decidere, formando, con pensieri, volontà, amore umano, un complesso di attività mie che ha degli aspetti del tutto originali, irripetibili. Ogni uomo e ogni autentica comunità umana hanno una loro originalità (…). I risultati di Gódel e di Turing utilizzano una invenzione immensa di Gòdel; e faccio subito un confronto con la analoga invenzione di Cartesio.Ognuno di noi sa che ogni punto sulla superficie del globo terrestre è individuato dai due numeri delle coordinate. Questa è una applicazione alla geometria della aritmetizzazione delle estensioni, inventata da Cartesio. Analogamente Gódel ha inventato l'aritmetizzazione del metalinguaggio, in quanto ad ogni parola ben formata di un linguaggio formalizzato, ossia di un linguaggio sul quale si può operare con un calcolo, ha fatto corrispondere un numero, ad ogni sequenza di parole, ossia ad ogni enunciato, un numero e ad ogni sequenza di enunciati, per esempio ad ogni deduzione, un numero. In modo che c'è un numero che è il nome di una data parola, un numero che è il nome di un dato enunciato, un altro numero che è il nome di una data sequenza di enunciati. In base a questa, per ogni domanda ben formulata, in una data frase di un linguaggio di calcolo, si può programmare una macchina calcolatrice, la quale risponde sì o no, correttamente, proprio come io stessa devo rispondere, se sono corretta, sì o no. Questo è possibile in base alla solita convenzione che il sì è rappresentato da 1 e il no è rappresentato da 0. Quindi l'applicabilità delle macchine calcolatrici sembra vastissima. Ed è proprio Turing che ha dimostrato la computabilità di tutte le funzioni aritmetiche (…). In teoria basta fare una domanda... Però Gódel, nel '31, ha scoperto le cosiddette limitazioni dei formalismi. Io mi limiterò alla limitazione dimostrata da Turing e ne enuncio solo il risultato. Faccio una premessa: una macchina calcolatrice viene programmata affinché dia una certa risposta. Però è chiaro che ci sono programmi di macchine di almeno due specie: quelli di macchine che danno la risposta cercata e quelli di macchine che non possono dare mai alcuna risposta. Il mio orologio mi dice l'ora in quanto sta fermo almeno il tempo che lo possa leggere. Bisogna che la macchina si fermi per dare la risposta. Allora è importante individuare i programmi di macchine che danno la risposta per la quale sono programmati. E’ possibile escogitare una macchina che faccia questo? E’ quella che viene chiamata "di decisione". Ebbene, la dimostrazione del teorema di Turing stabilisce che è impossibile programmare una tale macchina. Riassumo ancora e completo: non c'è macchina che possa rispondere sì o no di fronte al quesito che riguarda lo scopo per cui ogni macchina calcolatrice è costruita. A questa domanda nessuna macchina in linea di principio potrà mai rispondere, neanche fra 30 milioni di anni. E d'altra parte è questo lo scopo della macchina, è questo il valore in vista dei quale si costruiscono macchine. In tutte le prove di limitazione dei formalismi, c'è un tentativo di autoapplicazione di un segno. Se io dico per esempio: "questa frase è vera, sì, è proprio vera", col mio pensiero sono ritornata, ho riflettuto, sulla frase che ho appena detto. Invece, se nell'ambito di un formalismo si tenta una autoapplicazione, si incappa nel fallimento, ossia nella limitazione. Io sono stato consapevole di decidere liberamente di venire a Rimini, ci ho anche pensato un attimo: è la consapevolezza dei miei atti quella per la quale io, e ognuno di noi, possiamo capire i valori per i quali è possibile decidere liberamente. Questa è la prima radicale differenza tra ogni possibile macchina calcolatrice, ogni possibile intelligenza artificiale e l'intelligenza umana. L'intelligenza umana può riflettere sull'atto proprio. Ognuno di noi è ben consapevole di quello che sta facendo. Ognuno di noi ha spontaneamente il desiderio di pensare, volere, amare, desiderare, sentire, in modo da formare, via via, una personalità che è chiamata essere originale. Per di più anche nel dialogo con gli altri, con persone che sono esse pure originali ed irripetibili, è facile che nasca qualcosa di originale. La macchina, ce l'ha detto il professor Meo, niente di originale. Sono possibili interazioni tra macchine, non dialogo: non c'è nulla di originale che scaturisca solo dalle macchine e che non sia giù programmato. (…) Ognuno di noi si trova spessissimo nella vita davanti a tante scelte e in particolare ad un bivio. Posso andare in bicicletta, o guidare l'automobile, in modo del tutto abitudinario, meccanico, e sarà bene che lo faccia in modo abitudinario, finché non ho imparato a guidare in modo sufficientemente conforme alle norme stradali... Però quando io guido l'automobile, posso essere consapevole delle varie manovre che faccio. E proprio perché ne sono consapevole, posso liberamente scegliere una manovra o l'altra. Non solo, ma posso scegliere tra una manovra o l'altra in vista di un certo valore, per esempio, per non mettere sotto un bambino che scappa. E’ chiaro che, più io sono consapevole di ciò che sto facendo, più guido l'automobile in modo libero e originale, inventandomi per esempio una strada nuova. Più seguo invece l'abitudine meccanica, più ripeto un modello già acquisito dalle mie abitudini. Basta confrontare la consapevolezza mia con i teoremi di limitazione dei formalismi per avere la garanzia che il riflettere sull'atto proprio è atto unicamente umano. D'altro lato, basta che confronti quel certo guizzo di originalità che qualche volta mi passa per la testa, per rendermi conto che questo non è eseguibile, non può essere inventato da nessun meccanismo che segua un suo programma. L'originalità e le consapevoli attività di pensare e volere sono proprio quegli aspetti della nostra vita in cui ognuno porta impressa la più forte somiglianza con l'Assoluto, con il Dio trascendente. Noi siamo consapevoli, in quanto riflettiamo sull'atto stesso del nostro pensare. Dio è sommo pensiero e anzitutto pensiero che pensa se stesso. L'aveva già detto Aristotele: Dio vivente che è pensiero di pensiero. Il pensiero di Dio è un conoscere tutto ciò che egli stesso crea, ma anzitutto è un essere consapevole di sé. Quindi è proprio nel nostro essere consapevoli di noi che siamo più somiglianti a Dio. Ogni uomo è chiamato ad accentuare quel tanto di originalità che Dio gli ha dato, sviluppando la propria personalità: questo è l'aspetto sotto il quale l'uomo più somiglia a Dio. E inoltre noi vorremmo essere felici. Lo desideriamo e lo sognamo. Ma sentiamo anche che per noi non c'è felicità piena, se non è illimitata, infinita. Un infinito consapevolmente vissuto, pensando e amando. Dobbiamo ricordare che anche le macchine, le intelligenze artificiali, vanno avanti all'infinito, ma è un altro tipo di infinito. Si trova la felicità nel consapevole vivere da uomini che sanno pensare e amare. Certo, insieme con altri, ma senza limite alcuno. C'è da sperarlo. Bisogna però volerlo e anche chiederlo. La nostra speranza di vivere all'infinito nel Dio vivente è una somiglianza pallida, ma comunque somiglianza, di quella felicità stessa con cui Dio vive la sua consapevolezza di sé e il suo amore. Le macchine... utili, un po'come dei poveri sgabelli che mi servono ad alzarmi di un tantino, ad alzare il mio sguardo, consapevole, personalissimo, del tutto originale, felice ed innamorato verso altri e verso l'infinito. Questa è attività unicamente umana.

L.A. Meyer:

Non c'è dubbio che l'umanità sta vivendo un tempo nuovo, contraddistinto da un'accelerazione storica, che interessa tutti i settori dell'attività umana; i cambiamenti culturali prodotti in altre epoche erano generazionali, oggi una stessa generazione è interessata a un cambiamento permanente. Sappiamo tutti che lo strumento decisivo di questo cambiamento è l'informatica, ma come tutte le precedenti scoperte e innovazioni, può essere usata in due sensi, può servire per aumentare la dominazione da parte dell'uomo sull'uomo, oppure per aprire la strada alla liberazione, a condizioni di sviluppo autonomo, così disperatamente necessarie nei nostri Paesi alla periferia del mondo. Non si tratta di uno strumento comune, bensì di uno strumento privilegiato, dato che provoca una autentica rivoluzione culturale, che coinvolge allo stesso modo i Paesi sviluppati e quelli in via di sviluppo. L'intelligenza artificiale è soltanto un tema, che compone un vasto mondo, di microprocessori, di telematica, di mezzi di comunicazione sociale, che oggi stanno davvero interessando i nostri Paesi, e che chiamiamo informatica. L'uso e l'impatto di questa informatica è direttamente in relazione con lo spazio umano. Cerchiamo di parlare delle condizioni in cui si trova il nostro continente, l'America Latina. La rivoluzione informatica trova l'America Latina in un momento molto particolare e drammatico, traumatico, della sua storia. Da un lato, l'America Latina affronta il più grave ristagno economico che abbia conosciuto, provocato da un debito estero che raggiunge cifre astronomiche: dobbiamo circa 350 miliardi di dollari, e ci vediamo così costretti a pagare interessi annuali già adesso di 35 miliardi di dollari all'anno! Questo debito estero trova la sua causa in una serie di crediti, negli anni '70; gran parte di questo "denaro facile" che giunse nel nostro continente fu investito in attività industriali, in fabbriche, e quando queste fabbriche cominciarono a produrre, gli stessi che avevano concesso i crediti chiusero il mercato ai prodotti. Non soltanto ciò, ma l'interesse stesso venne raddoppiato. Questo significa che il calcolatore ha funzionato molto rapidamente per farci pagare il doppio degli interessi, e anche per applicare prezzi molto bassi ai prodotti delle nostre fabbriche. E tuttavia oggi ci si chiede che a questo debito faccia fronte soltanto il popolo latino-americano (…). Nei Paesi industrializzati il problema è la robotizzazione, che tormenta molti sindacati e molte industrie; più ancora c'è da considerare il bombardamento informatico della cosiddetta, affermantesi, "cultura universale", che sotto il mascheramento della modernità attenta direttamente al valori più propri della nostra cultura, generando attese e bisogni artificiali. (…) Si tratta di recuperare le nostre risorse naturali che sono state incorporate molto poco al sentimento del patrimonio nazionale dei nostri popoli, dato che, attraverso colonialismi interni e dipendenze esterne, sono rimaste atavicamente aliene. Come può amare il contadino la terra, se gli neghiamo la proprietà della stessa? Lo scongiurare una catastrofe ecologica passa necessariamente attraverso la riforma agraria. Come possiamo sfruttare razionalmente le risorse, se restano lontane dal nostro controllo la conoscenza e la tecnologia informatica dei sensori remoti? Negli Stati Uniti, il Dipartimento dell'agricoltura, servendosi di questa tecnologia informatica, può conoscere con 4-5 mesi di anticipo quale sarà la produzione agricola in una certa parte del mondo, secondo le diverse colture; noi, per conoscere quali sono le risorse naturali del Paraguay, dobbiamo andare a Reston, negli Stati Uniti, dove esiste una maggiore informazione che nello stesso nostro Paese. Dobbiamo recuperare una tecnologia socialmente orientata, quella che è alla portata e al servizio dell'uomo, potenziando le sue abilità, utilizzando la materia prima locale, rispettando il suo valore sociale e rispondendo alle necessità reali del popolo. Questa tecnologia socialmente orientata, si oppone all'atteggiamento di corsa disperata dietro l'ultima innovazione tecnologica che appaia sul mercato. Ma attenzione, non si tratta di una tecnologia di seconda mano, intermedia, bensì di una tecnologia molto esigente, perché deve dare risposte a grandi sfide (…). Abbiamo l'esempio dell'industria informatica del Brasile, che ha dovuto subire il ricatto degli Stati Uniti, che ha chiuso il mercato all'acciaio brasiliano, per garantire che gli U.S.A. potessero proteggere la propria industria informatica incipiente. Questa tecnologia socialmente orientata deve rompere la fallacia ingannevole, il trasferimento di tecnologia che non è stato altro che un trasferimento di manodopera, visto che le multinazionali non svolgono ricerche e non diffondono tecnologia nei nostri Paesi, ma cercano solamente manodopera a buon prezzo. Infine, questa tecnologia socialmente orientata dovrà difendersi dai nuovi prodotti, che potranno prodursi nei Paesi altamente sviluppati, soppiantando quelli che sono adesso i nostri prodotti principali. Dobbiamo recuperare non soltanto una tecnologia socialmente orientata, ma anche le nostre risorse istituzionali, dalla ricostituzione del tessuto sociale interno dei nostri Paesi (cooperative, sindacati, associazioni professionali), facendo leva sull'etica di generosità e solidarietà, fino al tessuto regionale latino-americano, convertendo le strutture formali in una reale partecipazione di tutti i settori. Questo recupero istituzionale si sta già compiendo grazie all'apertura democratica nei nostri Paesi: il Brasile e l'Argentina hanno firmato il mese scorso il primo accordo per dar vita a un vero mercato comune. Dobbiamo poi giungere alla cosa più importante, il recupero del patrimonio culturale, affrontando quei mezzi di comunicazione che, come denuncia la Conferenza Nazionale dei Vescovi del Brasile, appaiono disegnati per promuovere la società dei consumi, propiziando inoltre un edonismo che, quale sottoprodotto della società puritana nordatlantica, è incapace di capire il valore positivo della festa e della sua celebrazione nella nostra cultura. Dobbiamo giungere ai mezzi di comunicazione, e dobbiamo difenderci dai mezzi di comunicazione più inclini al sensazionalismo e alla comunicazione delle sconosciute esperienze dei nostri popoli, perché non sono magari ideologicamente importanti. Don Helder Camara diceva giustamente: "Non soltanto occorre liberare l'uomo dalle carceri fisiche, ma anche da quel carcere che costruiscono per lui l'ideologizzazione, le mezze verità, la menzogna". E a questo si aggiunge oggi l'offensiva, in tutti i mezzi di comunicazione, della Chiesa elettronica nordamericana, delle sette protestanti, con la loro predicazione di una fede individualista, disincarnata, senza proiezione sociale, fortemente appoggiata dal capitale americano. Ma per recuperare questo patrimonio culturale dobbiamo recuperare la nostra storia comune, la quale, riconoscendo le proprie radici, non solo sostenga l'unità latino-americana, ma rivendichi di fronte alla "lejenda negra", il carattere inclusivo, non esclusivo, della colonizzazione spagnola e lusitana, sbarazzandoci dal complesso di colpa fabbricato dal mondo anglosassone. Carattere inclusivo significa che, anche con le sue ombre e le sue luci, l'abitante indigeno, originario dei nostri Paesi, venne incluso nell'avventura di civilizzazione. "Escluso": con questo termine si allude a quello che è accaduto in altri mondi, in cui l'uomo indigeno è stato distrutto, annichilito, o è stato condotto in una riserva dove i turisti del futuro possono ammirare quello che è stata una cultura determinata. La vicinanza delle celebrazioni dei 500 anni dalla scoperta dell'America e dalla nascita della fede cristiana nel continente è un'occasione unica per liberare gigantesche correnti culturali in grado di alimentare spiritualmente il processo di unità latino-americana. La Chiesa latino-americana sa oggi, dopo Puebla, che l'opzione preferenziale per i poveri si esprime pastoralmente in un gigantesco sforzo per rievangelizzare la cultura, dato che i portatori di questa cultura, autenticamente, sono i poveri del continente. Diceva Octavio Paz, rivalutando la matrice cattolica della cultura latino-americana: "Io non sono un credente, ma dialogo con questa parte di me stesso che è più dell'uomo che io sono, perchè è aperta all'infinito". Il dialogo di un non-credente messicano con i cattolici latino-americani è un dialogo con una parte di se stessi. Infine, occorre recuperare una geopolitica della solidarietà. (…) Il fallimento di tutti i modelli economici, sociali, imposti dalla modernità, rende alieni i nostri popoli e ci toglie il complesso di inferiorità per affrontare originalmente la sfida di una nuova società. Funzionalistici, monetaristi, Chicago-boys, sono tutti in ritirata totale dal nostro continente: sarà che una Chiesa che ha avuto l'audacia di Medellin e la serenità di Puebla potrà far discendere da un livello astratto la propria dottrina sociale, perché si faccia realtà, ciò che richiedeva Giovanni Paolo II: "Siate capaci di offrire al mondo un modello di civiltà che sia cristiana nelle sue opere e nel suo stile di vita più che nei suoi attributi veramente tradizionali". L'incontro delle nostre radici ci inclina necessariamente a un dialogo fecondo con la componente europea della nostra cultura, in particolare l'Europa mediterranea. Forse potremmo celebrare una nuova alleanza, seppellendo questa denominazione ingannevole di "Terzo mondo", congiungendo e ampliando il Mediterraneo con le coste dell'America Latina. Facciamo dunque geo-cultura e non geo-politica. Tutto ciò però implica la conversione dell'Europa, dell'Italia e della Spagna, che potranno emanciparsi dalle condizioni di maggiordomi ricchi e ben vestiti delle potenze dominanti, soltanto riconoscendosi in un destino comune ai fratelli latino-americani. La rivoluzione informatica è una sfida per entrambi, per l'Europa e per l'America Latina, una sfida che esige di porre in comune gli sforzi e le intelligenze, per offrire al mondo una alternativa nuova, che ponga l'uomo al centro. E speriamo che la storia ci trovi a celebrare insieme questa grande avventura guidata da Cristoforo Colombo, non nella fiera multicolore e informatizzata di Chicago, bensì nella coscienza liberata di ciascuno degli uomini dei nostri popoli, nella nuova civiltà.