"Questo è il mio Dio e io voglio lodarlo" (Es 15,7)

Martedì

26, ore 11.30

Relatore: Moderatore:

David Rosen, Giancarlo Cesana

Rabbino di Gerusalemme,

Direttore dell’Inter-Religious Affairs,

ADL Israel Office.

 

 

 

 

Cesana: Noi siamo molto lieti che il Rabbino David Rosen abbia accettato di tornare al Meeting sul tema del Meeting di quest’anno, circa lo splendore della realtà perché testimonianza del vero, perché certamente l’esperienza ebraica è quella che ha maggiormente influenzato tutta la civiltà occidentale e quindi tutto il mondo a riguardo di questa percezione della realtà.

Vorrei citare le parole che ha detto don Giussani sul popolo ebraico in una sua intervista di quest’anno all’Osservatore Romano: "Di fronte alla storia ebraica, non c’è vibrazione di coscienza umana più simpatetica e più umile, quasi domandasse scusa della sua certezza a chi ha portato pondus diei et aestus, cioè il peso, la fatica della storia, cioè ha portato tutto il peso della storia precedente, e non c’è coscienza più pacifica nell’affermare il già avvenuto compimento per tutto l’universo nell’ebreo Gesù di Nazareth, morto e risorto".

Don Giussani dice anche che "per essere cristiani bisogna essere ebrei": con queste parole voglio testimoniare al Rabbino David Rosen tutta la nostra stima e la nostra simpatia, e ringraziarlo ancora una volta di essere intervenuto.

 

 

Rosen: È per me un grande piacere essere di nuovo con voi anche quest’anno e di porvi il mio saluto con le parole del salmista (Sal 128): "Possa Dio benedirvi da Sion e possiate voi vedere il bene di Gerusalemme".

Quelli fra voi che mi hanno sentito lo scorso anno, ricorderanno forse un antico midrash – un’omelia di saggi ebrei di duemila anni fa – che ho menzionato verso la fine del mio intervento in quella occasione. Quest’anno desidero iniziare con quello stesso midrash. Vi si afferma che chi si alza di mattina dopo l’alba e chi si corica la sera dopo il tramonto senza dire benedizioni, è come se abbia perso la propria vita. Come molti dei vecchi detti rabbinici, il linguaggio del midrash risulta in un certo modo occulto e richiede chiarificazione. La più comune forma di benedizione nella pratica ebraica è la dichiarazione che l’ebreo osservante fa prima di consumare una porzione di cibo o una bevanda. Per esempio, prima di bere qualcosa, anche solo un bicchiere d’acqua, io mi soffermo per un attimo e recito le seguenti parole: "Benedetto sia Tu o Dio, Nostro Signore, Re dell’Universo, con la cui Parola tutto viene creato". Oppure, per una mela dico: "Benedetto sia Tu o Dio, Nostro Signore, che ha creato la frutta degli alberi". Ma cosa faccio recitando tali benedizioni? Esprimo senz’altro il mio apprezzamento per il piacere e il beneficio di cui sto per godere. Riconosco inoltre qual è la fonte di quel piacere e beneficio – il Creatore del cielo e della terra. In effetti, esprimo la mia consapevolezza e la mia piena attenzione a quanto sto facendo. Non sto prendendo il fatto per scontato e sono anzi conscio della presenza divina nel mondo. Questo è il significato della benedizione nella tradizione ebraica. Quindi, il midrash intende dirci che una persona la quale viva nel mezzo della meraviglia e della bellezza della creazione, dell’alba e del tramonto, e non recita benedizioni – ovvero prende qualsiasi cosa per scontata e non è affatto cosciente della presenza divina in noi e intorno a noi – ebbene in una persona del genere il corpo funziona, ma l’anima non vive veramente. Questo perché vivere significa vedere la luce e la bellezza della presenza di Dio, in primo luogo nella stessa gloria della creazione che viene descritta come "molto buona", molto bella (Gen 1,31). Essere in grado di apprezzare la bellezza del nostro mondo, viene perciò considerato nell’ambito dell’Ebraismo un fatto centrale rispetto allo scopo dell’esistenza umana.

Similmente, il calendario ebraico e le festività di pellegrinaggio della Pasqua ebraica, della Pentecoste e della Festa dei Tabernacoli, sono anche festività delle stagioni che rafforzano la nostra consapevolezza della bellezza e della provvidenza della natura. La letteratura biblica abbonda di apprezzamenti sulla bellezza fisica del nostro mondo, in particolare nei Salmi e nel Cantico dei Cantici ad esempio, è piena di stima e di ammirazione per la bellezza fisica della donna e dell’uomo e per l’amore fra i due.

E per la verità, l’apice della bellezza della creazione fisica è la persona umana creata ad immagine divina. Per questo nella tradizione ebraica esiste perfino una benedizione per quando si vede una bella persona o una bella vista (Tosefta Berachot 7:7). Comunque, è proprio quell’immagine divina che fornisce alla persona umana la sua più alta forma di splendore: la bellezza dello spirito. Contrariamente alla natura passiva della bellezza materiale, lo splendore spirituale è soprattutto il prodotto dinamico dell’anima attiva. È il risultato di come noi viviamo. In altre parole è il risultato delle nostre scelte. Invero, la scelta morale (o libero arbitrio), è proprio la capacità che la tradizione ebraica concepisce come l’essenza dell’immagine divina, quell’immagine secondo la quale tutti siamo creati. Ciò significa che noi abbiamo la capacità di compiere una scelta morale proprio perché siamo creati ad immagine divina.

Quindi, mentre la preghiera tradizionale ebraica quotidiana dichiara: "Mio Dio, l’anima che tu mi hai dato è pura", siamo noi invece a determinare se quest’anima pura verrà resa bella o sarà macchiata dallo stile di vita che sceglieremo.

Questo è esattamente ciò che ci viene detto nei capitoli undici e trenta del Deuteronomio: "Vedi, – dice Dio – Io ti ho dato oggi la vita e il bene, la morte e il male... scegli la vita perché tu possa mantenerti veramente in vita... per amare il Signore tuo Dio, per camminare sulla Sua strada e rimanerGli attaccato", cioè essere uniti a Lui.

Ma nel Talmud (Sotàh 14a) ci si chiede come sia possibile per noi comuni mortali camminare nella strada del Dio onnipotente, onnipresente e onnisciente. La risposta è che siamo in grado di farlo attraverso l’emulazione degli attributi divini – Imitatio Dei. Dice il Talmud: "Così come Dio veste i nudi, come ha fatto con Adamo ed Eva, vesti anche tu i nudi; così come Dio visita i malati, come gli Angeli hanno visitato Abramo dopo la sua circoncisione, visita anche tu i malati; così come Dio consola i familiari del defunto, come ha fatto con Isacco dopo la morte di Abramo, conforta anche tu i familiari del defunto; così come Dio seppellisce i morti, come ha fatto con Mosè, seppellisci anche tu i morti". Anche nel midrash, il saggio Abba Shaul dice: "Così come Lui è clemente e compassionevole, sii anche tu clemente e compassionevole".

In altre parole, il sincero amore per Dio richiede amore per il prossimo. L’Ebraismo insegna che un tale comportamento non solo preserva la purezza delle nostre anime, ma le rende ancor più belle. E in effetti, ci è stato insegnato che fin quando diamo il nostro meglio al servizio di Dio e dell’umanità, noi adempiamo alle parole dell’Esodo (Es 15,2): "Questo è il mio Dio e io lo loderò".

L’Ebraismo quindi, interpreta la Bibbia come affermazione di un inestricabile rapporto fra amore, bene e bellezza. Ed è proprio questo il punto focale del pensiero filosofico di una delle grandi personalità ebraiche del Medioevo, vissuto e morto in Italia, Leone Abarbanel. Il suo nome ebraico era Yehuda e fu il figlio di uno dei più noti leader, statisti, studiosi e filosofi della grande comunità ebraica iberica del Medioevo. Tragicamente, l’era nota agli ebrei come periodo d’oro di Spagna, si concluse in modo disastroso nel quindicesimo secolo con l’inquisizione spagnola, gli autodafé, i battesimi forzati e infine con l’espulsione di tutti gli ebrei dall’interno dei confini di Spagna e Portogallo. La famiglia Abarbanel trovò rifugio in Italia e il giovane Yehuda, già competente studioso tanto in materie ebraiche, quanto in medicina e in filosofia generale, fece la sua comparsa nella cultura italiana scrivendo in lingua italiana sia opere poetiche che filosofiche. Egli fu noto coi nomi di Leo Hebreus o Leone Ebreo. La sua maggiore opera, che ebbe influenza su molti filosofi italiani, fu i Dialoghi di Amore.

Già il grande rabbino Maimonide nel dodicesimo secolo, aveva insistito sul fatto che non si può veramente amare Dio senza studiare la bellezza e la scienza della creazione. Ma per Leone, nel suo pensiero platonico, Dio e bellezza sono inseparabili. La bellezza, egli spiega, è di fatto l’essenza del mondo ed ha un significato metaforico. Dio è la fonte di tutta la bellezza che è tutto il bene. L’amore, spiega Leone, è l’ardente e continua espressione dell’unione con quella sublime bellezza e bene di Dio, il quale Egli Stesso cerca questa relazione d’amore con le Sue creature. Quindi, non solo lo scopo della nostra esistenza, ma la stessa capacità di esistere della creazione, dipendono dal patto di mutuo amore fra l’universo e il suo Creatore, patto che forgia ciò che viene descritto come un forte "circolo d’amore" che sostiene tutti i componenti del cosmo. Tutti i comandamenti biblici che compongono il modo di vivere dell’Ebraismo, sono di conseguenza visti come espressione di questa bellezza e di questo abbellimento che ci unisce alla fonte dell’essenza di tutto, e cioè a Dio Stesso.

Considero provvidenziale che sia stato scelto come tema di questo incontro la bellezza, cosa questa che mi ha permesso di ricordare uno dei più importanti pensatori ebrei del Rinascimento, un grande rabbino il quale, fuggendo dalle persecuzioni, trovò rifugio ed ospitalità in Italia, e qui si fece poi conoscere nella cultura di questo paese scrivendo in lingua italiana. Comunque mi sembra anche che il tema centrale del suo pensiero offra una comprensione persino maggiore dei fondamenti che uniscono gli ebrei e i cristiani, malgrado le profonde differenze fra loro esistenti. La nostra comprensione della centralità dell’amore per Dio e per il prossimo come ultima espressione della vera bontà e splendore del mondo dovrebbe realmente colpirci e portarci a capire quanto ciò che il Concilio Vaticano II descrive come nostro "patrimonio comune" ci leghi gli uni agli altri.

In conclusione, vorrei brevemente affrontare la questione dell’ecumenismo e del suo futuro.

Partirei da un’affermazione teologica. Tutte le nostre tradizioni accettano il concetto di un Dio onnipresente e onnisciente, che al tempo stesso si riferisce a tutte le Sue creature. Questa sembra un’ovvia contraddizione, perché se Dio è in relazione a tutte le Sue creature, allora tutte le Sue creature nella loro diversità dovrebbero essere in grado di collegarsi a Lui.

Nell’imparare a superare questa contraddizione noi riconosciamo sempre di più la presenza di Dio nella diversità della cultura umana. Dobbiamo distinguere questa percezione da ciò che chiamiamo "sincretismo". Se noi affermiamo una fede, dobbiamo affermare quella fede totalmente; dunque ciò che la gente vede come contraddizione, non è solo una contraddizione, è invece la verità: la verità è nell’affermazione della fede di uno, e nello stesso tempo nel riconoscimento che nonostante la verità della fede di ciascuno, Dio deve essere altresì trovato in un altro luogo – nella fede dell’altro.

Le attività ecumeniche possono essere suddivise in tre: una è universale, una è la relazione speciale all’interno della famiglia di Abramo, e una è la relazione unica all’interno della famiglia di Israele. Per famiglia di Abramo, io intendo la verità essenziale che Abramo capì in maniera unica; il termine "famiglia di Israele" è forse più complicato, essendo anche spesso all’origine di un conflitto fra cristiani ed ebrei. Il Concilio Vaticano II ha parlato di "patrimonio comune": questo significa che noi siamo chiamati in modi differenti a un certo tipo di rapporto, condividiamo certe verità che provengono da una medesima eredità scritta. Questo ci chiede di vedere gli uni negli altri parti e pezzi di ciò che Dio ci chiama a fare nel mondo. Parte del problema delle nostre incapacità di capire cosa questo significa, o di vederlo, è il peso della storia. Per molte persone questa è la pietra d’inciampo. Ma più noi impariamo a capirci, più dobbiamo rispondere a quella che io credo sia la chiamata di Dio: stabilire un rapporto fra ebrei e cristiani.

La relazione ecumenica fra cristiani e ebrei non è semplicemente un modo per evitare pregiudizi e bigottismo, o per creare un miglior clima culturale e sociale. Anche se queste cose sono importanti, l’ecumenismo è molto di più: un imperativo religioso.