EDUCARE PER COSTRUIRE. CICLO DI INCONTRI PROMOSSO DALLA COMPAGNIA DELLE OPERE

Gli eredi di Basaglia:
i matti vivono con noi

Martedì 24, ore 18.30

Franco Rotelli,
Direttore Generale A.S.S. N.1 Triestina

Angelo Righetti,
Responsabile del Dipartimento di

Salute Mentale di Padova A.S.S. N.5 Bassa Friulana

Lorenzo Crosta,
Manager d’Impresa

Moderatore:

Marco Bertoli,
Responsabile del Centro di Salute Mentale di Palmanova A.S.S. N.5 Bassa Friulana

Bertoli: Sono nato a Udine nel quartiere di Santo Osvaldo, dove c’è un grande manicomio, che ha contenuto fino a tremila e cinquecento persone. Adesso ne contiene molto poche; la cosa che fin da piccolo mi colpiva è che da questo manicomio uscivano giornalmente le persone più addomesticabili, cioè quelle più ripiene di psicofarmaci e quindi sedate, oppure quelle che "non erano pericolose" o così erano giudicate. Nel quartiere giravano queste persone, inavvicinate ed inavvicinabili. In seguito, continuando nella mia esperienza di medico e di psichiatra, oltre a questo dolore ho cominciato a percepire il dolore delle famiglie, distrutte dalla presenza in casa di un ammalato; molto spesso queste famiglie non avevano strumenti, non avevano risorse o le esaurivano tutte per cercare di arginare il male del congiunto.

Questi due dolori hanno sempre accompagnato la mia vita; circa tre anni fa, il dottor Righetti ha voluto che gli fossi compagno in un’avventura di chiusura di un manicomio a Palmanova, un manicomio femminile che nel piccolo ripercuoteva gli stessi schemi del manicomio di Santo Osvaldo che avevo conosciuto da giovane: le galere, le celle di contenimento, gli spruzzi d’acqua per i malati quando erano incontenibili. Ho potuto anche leggere alcune cartelle cliniche di questo ospedale. Quella che mi colpì di più fu quella di due ragazze di 33 anni handicappate, fortissimamente handicappate, che erano a Sottoselva da trenta anni: erano state ricoverate a tre anni di età. Molto spesso queste bambine piangevano e l’ordine del medico era di legarle. Sottoselva adesso è chiusa; abbiamo cercato di pensare a delle case, dei luoghi familiari dove potessero condurre la loro vita. Quelle bambine di tre anni, handicappate fino all’inverosimile, non c’entravano niente con l’ospedale psichiatrico, come non c’entravano niente le donne brutte che erano ricoverate perché brutte, perché prostitute, perché orfane. Io non ho vissuto direttamente il manicomio, però da quello che ho visto e da quello che è rimasto negli scritti, è stato proprio un momento difficile non tanto per la psichiatria quanto per la cura delle persone ammalate.

Mi colpiva anche il dolore della famiglia, come già dicevo. Quello che più mi faceva soffrire, avendo conosciuto attraverso gli scritti cos’era il manicomio, era evocare dalle famiglie l’utilità del manicomio: era meglio quando c’era il manicomio perché le persone avevano almeno un posto.

Credo che questa sera possiamo raccontarvi una storia diversa. Nel nostro ambiente parlare di Basaglia evoca dei sentimenti non sempre condivisi: per questo ho voluto chiamare qui delle persone proprio per raccontarci brevemente chi fu Basaglia e che cosa ha significato per la storia sanitaria italiana e per la storia delle persone che vivono un disagio mentale.

Rotelli: Chi era Franco Basaglia è piuttosto difficile dire in pochi minuti. Uomo di cultura all’università fino a trentasette anni, scrive cose molto acute tuttora attuali; a quest’età lascia l’università perché gli offrono la direzione dell’ospedale psichiatrico di Gorizia. Era l’anno 1961. Intellettuale veneziano di famiglia alto-borghese, nonostante facesse da anni lo psichiatra in una clinica universitaria, scopre nell’impatto con la realtà del manicomio di Gorizia che dentro la Facoltà di medicina dell’Università di Padova, dentro gli studi accademici, gli avevano mentito. Scopre che ciò che ha appreso dai testi universitari, ciò che ha appreso dagli studi fenomenologici che in quegli anni cominciavano a reilluminare il panorama non brillante della cultura accademica psichiatrica italiana, non aveva nessun rapporto con la realtà. Scopre che dietro il paludamento scientifico ed il paludamento culturale, come disse in tanti convegni, il re è nudo. Il presunto sapere dello psichiatra si è trasferito nel concreto in questo luogo ignobile, in questo luogo di degrado morale, di degrado fisico, di violenza istituzionalizzata che è l’ospedale psichiatrico che incontra sul suo cammino.

A differenza di altri, intellettuale, uomo di cultura, medico e professore universitario, sceglie di rompere la complicità con la corporazione, sceglie di rompere una cortina di silenzio che dietro la costruzione di una presunta scienza lasciava centomila persone negli ospedali psichiatrici italiani privi di ogni diritto, privi di ogni possibilità di cura, privi soprattutto di un’identità, soprattutto di un riconoscimento, soprattutto dello statuto di individui. Coglie allora il nesso tra istituzioni e mancata risposta ai bisogni delle persone e scopre quanto le istituzioni rispondono a regole proprie che nulla hanno più a che fare con la risposta ai bisogni delle persone per cui le istituzioni stesse avrebbero dovute essere nate. Scopre questo scarto tra istituto e bisogno della persona e, attraverso questa semplice rivelazione, attraverso questa semplice evidenza, e attraverso il prendere rigorosamente sul serio questa dissociazione, cominicia un cammino a ritroso, sceglie di abbandonare un sapere preformato che ha prodotto quei mostri e sceglie di sfidare la realtà accettando la sfida di rispondere ai bisogni delle persone internate.

Si disse che bisognava mettere tra parentesi la malattia mentale, e non per negarne in qualche modo la esistenza, ma per ricominciare ad affrontare di faccia, il corpo, la parola, il diritto dell’internato e ripartendo dal corpo, ripartendo dal diritto, ripartendo dalla parola dell’internato, ricostruire un percorso nuovo, completamente nuovo che su quel corpo, su quel diritto, su quella parola potessero fondarsi; e non più invece sul corpo della scienza, sui diritti dello scienziato, sulla parola del medico.

Questo semplice capovolgimento, questo ripartire da colui che stava lì e dalla risposta concreta, ha sconvolto il campo non solo della psichiatria italiana, non solo della psichiatria mondiale ma anche il campo delle regole che le istituzioni sanitarie avevano consolidato in tutto il panorama nazionale come apparati e come concettualizzazione.

La figura antropologica dell’escluso riassume la sua forza, la sua evidenza, la sua visibilità; diventa centrale in una nuova concettualizzazione che reinterroga il tessuto sociale generale, che reinterroga la modalità con cui una società risponde ai più deboli, che reinterroga le regole stesse che una società si dà per costituirsi e costituendosi espelle da sé una parte di sé. Basaglia non accetta questo rifiuto, non accetta una società fondata su regole che prevedono a priori l’esclusione di una quota di cittadini dai diritti, dal riconoscimento, dalla legittimazione. In vent’anni di lotte concrete, di processi concreti, di trasformazione, partendo dalle pratiche di risposta effettiva ai bisogni delle persone, si riesce a sconvolgere una legge che ancora nel 1978 prevedeva che chiunque si allontanasse da un istituto psichiatrico portasse con sé non solo una propria responsabilità penale, ma quella dei sorveglianti. Secondo questa legge, quelle centomila persone lì erano, lì dovevano restare e i medici deputati a vigilare diventavano colpevoli se queste persone si allontanavano.

Vent’anni dopo, possiamo rivedere con occhio completamente diverso tutta la scena e tutto lo scenario sulla questione psichiatrica e della questione della follia. Giustamente preoccupati che i servizi alternativi agli ospedali psichiatrici hanno tardato e tardano tuttora a nascere in tutto il territorio nazionale, vent’anni fa a Trieste, già con Basaglia, si strutturavano i centri di salute mentale, attivi ventiquattro ore su ventiquattro, sette giorni su sette; nasceva nel 1973 la prima cooperativa sociale, in cui i pazienti che fino ad allora erano i servi dell’istituto, acquisivano i diritti riconosciuti di lavoratori, con un salario, con un appalto, con un nuovo statuto di cittadini liberi. Per la prima volta nella storia dell’umanità, con la legge 180 nessun cittadino si trova più a priori negato nel suo diritto di cittadinanza.

Fino alla legge 180 del 1978, giustamente e ingiustamente denominata legge Basaglia, una quota di cittadini italiani erano a priori non cittadini, per legge, per definizione, per procedura di internamento; con la legge Basaglia per la prima volta nessun cittadino viene a priori privato del diritto di cittadinanza, per la prima volta in qualche modo viene stabilito che il diritto di cittadinanza è un diritto inalienabile, è un diritto che ciascuno porta con sé dalla nascita, è un diritto che non si deve meritare per comportamento o per ragione, ma che ciascuno di noi porta con sé.

Questa è una conquista irreversibile che nasce e cresce con l’opera di Basaglia.

L’esclusione nasce e si sviluppa con la società, è un cancro che esiste all’interno di qualunque società; tuttavia, l’istituzionalizzazione dell’esclusione, il legiferare attorno al formalizzare la figura dell’escluso è una perversione delle società moderne. Rompere questa perversione, impedire la istituzionalizzazione delle esclusione vuol dire riaprire un’interrogazione costante sulle regole dei rapporti sociali.

La questione non è risolvere l’antinomia tra ragione e "sragione", la questione è vivere questa contraddizione, sapere che questa contraddizione fa parte della persona umana, del processo di costruzione della persona, del processo di costruzione di una società, che nel momento stesso in cui si dà delle regole e si dà un contratto, deve pur stabilire delle forme contrattuali, delle forme di regolamentazione che includono tutti, nessuno escluso. La conquista delle libertà dovute alla legge Basaglia non fu e non è stato una conquista della libertà solamente per i folli, è stata conquista di libertà per tutti, è stata apertura di una democrazia finalmente integrale.

Questa democrazia integrale, questa libertà per i folli ha bisogno di essere materialmente sostanziata: per questo sta avvenendo l’esperienza e la costruzione di servizi per chi non aveva diritti, la lenta ricostruzione dei diritti sociali, dei diritti civili, dei diritti politici. È stata una grande battaglia culturale, civile, politica ed intellettuale, una battaglia contro una scienza medica che negava a costoro tutto ciò che non era il loro essere malati, riconduceva costoro alla unica identità di malato. Basaglia ruppe questo e seppe trasformare il malato in persona, in soggetto, e il manicomio in istituzione da negare per ricostruire la libertà possibile delle persone.

Fu battaglia feroce in molti momenti, fu battaglia partecipata, fu un ogni caso una battaglia che ha attraversato straordinariamente la cultura del nostro paese, molto al di là di quelle che potevano essere le nostre aspettative; colpiva evidentemente l’immaginario di qualcuno; era infatti una battaglia che colpiva il nesso di ciascuno con la propria identità, con il limiti della propria identità, con i limiti della propria razionalità, con i limiti del proprio progetto di vita, con i limiti di un progetto sociale.

Abbiamo ancora infinite battaglie da fare, se abbiamo ancora la capacità di scandalizzarci rispetto alla situazione di migliaia e migliaia di anziani nelle case di riposo – che non hanno molto da invidiare ai vecchi manicomi-, se abbiamo ancora la capacità di scandalizzarci rispetto alle nuove forme di istituzionalizzazione dell’infanzia, se abbiamo la capacità di scandalizzarci rispetto alle condizioni delle carceri.

Questa era la sfida di ieri ed è la sfida di oggi. Alcune battaglie fondanti sono state vinte in questo paese, ma la guerra non sarà mai né vinta e spero neanche persa, perché va continuata giorno per giorno nei rapporti con tutte le istituzioni, che possono essere al servizio del cittadino o contro il cittadino, che possono rispondere ai bisogni delle persone o essere contro i bisogni delle persone.

Righetti: In tutti questi anni di lavoro con i malati, ho trovato sempre vicine le persone che attingevano per fare questo lavoro a motivazioni che non erano strettamente tecniche, ma di tipo più umano; anche gli utenti, i pazienti hanno trovato spesso più vicine a loro persone che erano disponibili a mettersi in causa anche come persone, andando al di là della semplice impostazione tecnica.

Questo fatto mi ha molto incuriosito in questi anni. La curiosità è quella di immaginare se è possibile un percorso di cura o di aiuto che possa prediligere l’esperienza, l’osservazione, che possa escludere le idee preformate, e le tecniche psichiatriche. La psichiatria infatti è una scienza facilmente sospetta di costruire predefinizioni difensive nei confronti dell’incontro con le altre persone, persino con se stessi.

Lasciarci attraversare dalle cose può essere semplice quando si tratta di esperienze comuni, molto più difficile quando le cose sono il volto tirato della sofferenza della persona. Andare all’incontro con l’altro sforniti di desiderio o con l’unico desiderio di lasciare che siano i fatti a permettere la conoscenza, poteva essere un’ipotesi molto interessante, molto difficile e che mi incuriosiva molto. Si può fare questo partendo da qualsiasi tipo di motivazione. Noi l’abbiamo cercato di fare concretamente eliminando un manicomio e cercando di eliminare le culture che l’avevano costruito. Contemporaneamente abbiamo cercato di impostare questo lavoro in modo tale che non fosse uno schema di liberazione delle persone tout court, ma fosse un sistema dentro al quale le persone potessero continuare sempre di più a contare.

Per ottenere questo abbiamo immaginato un modello, una metodologia che potrebbe sembrare complessa, ma che in fondo è semplice: dato che queste persone erano intrattenute all’interno della loro situazione di esclusione, dall’assenza di una contrattualità, bisognava immaginare un sistema che agganciasse la varietà delle cose che possono succedere e che mantenesse questa varietà, questa complessità, dentro ad un sistema che fosse in grado di sostenerla e di riprodurla continuamente. È quello che abbiamo chiamato sistema misto, pubblico e privato, cercando di valorizzare l’informale perché questo potesse essere più capace di mantenere o di incrementare la contrattualità di persone che non avevano e non hanno, per le loro condizioni, più una contrattualità.

Abbiamo cercato di evitare un sistema di assistenza preformato attraverso il quale svolgere un’attività di mantenimento in condizioni decontrattualizzate delle persone liberate dal manicomio; abbiamo pensato invece a un sistema misto, dentro il quale fosse il più difficile possibile, per gli operatori sia pubblici che privati, utilizzare i loro schemi. Li abbiamo messi nella condizione di non poter pensare: questo era l’obiettivo. Per non pensare, li abbiamo messi nella necessità del fare, e dell’immaginare che questo sistema, questo metodo producesse contrattualità nelle persone. Questo è stato il primo elemento che ha permesso di costruire questa esperienza che non è molto diversa da quelle che sono state costituite, ma che non è un modello. È semplicemente una metodologia che riguarda l’affettività come ragione, l’esperienza come osservazione e il giudizio come modalità di messa alla prova di sé.

Per questa ragione abbiamo cominciato a riaprire delle locande, dei borghi rurali perché la cultura della socialità era affidata a queste locande, e queste locande sono possedute dalle persone che sono uscite dal manicomio, sono di loro proprietà e sono state riattivate; queste persone sono diventate il motore della ritrovata socialità di un borgo rurale, e nel contempo sono diventate anche il motore di un ritrovato egoismo, della ritrovata ferocia o della ritrovata discriminazione di cui sono piene le culture del territorio. Il territorio non è un luogo magico, la comunità non è un luogo magico, è piuttosto un luogo dove si consumano gli elementi importanti di eliminazione e di discriminazione dell’altro, dove si scontrano e si colorano i poteri.

Il nostro obiettivo è quello di mantenere ed incrementare la contrattualità delle persone disabili o istituzionalizzate. Questo tipo di imprese, miste pubblico e privato, sono diventate una modalità per trasformare i costi dell’assistenza in investimenti per la salute, perché sostengono la costruzione progressiva di imprese auto-organizzate e possedute dagli utenti, dai soci che si danno degli obiettivi di prodotto e che contemporaneamente devono raggiungere tre obiettivi importanti: la possibilità per le persone di abitare, di lavorare e di vivere in un luogo da loro suggerito. Questa è, fra l’altro, la definizione di riabilitazione data dall’Organizzazione Mondiale della Sanità.

Tutti e tre questi elementi devono essere legati, perché ciò che è importante è collocare la conoscenza dentro la cosa e non dentro la persona, e quindi costruire una mediazione di oggetto continua dove effettivamente non ci sia semplicemente il rapporto fra due esseri, ma ci sia un rapporto mediato dalla costruzione e dalla presenza di una cosa, di un compito: gestire una locanda, fare insieme degli oggetti belli da produrre o da vendere... Questo è quello che noi abbiamo chiamato "L’attività abilitativa di ambiente", immaginando che sia l’ambiente abitato dalle cose quello che più permette, sostiene, incrementa l’attività abilitativa, emancipativa e di ricontrattualizzazione delle persone. Questo, nel proseguo dell’esperienza, è stato un elemento molto importante, concreto, visibile, conoscibile, non affrontabile in modo prefromato. Il rischio è che questo elemento da solo rischi di diventare quasi freddo, costruito in modo ingegneristico, molto distante, sempre più simile ad una prestazione e sempre meno simile ad una relazione libera.

Questo è il punto a cui oggi siamo arrivati; il giudizio che abbiamo raggiunto è che indispensabile sia costruire le cose all’interno di una ragione basata sull’affettività, sia togliere la separazione tra prestazione tecnica e sorriso consolatorio. Ci devono essere degli elementi che effettivamente possano fare circolare questa identità di ragione ed affettività, di etica e di estetica. Questo è difficile, perché è un problema che non può essere tanto pensato quanto agito: questa è la ragione per la quale, insieme ai nostri progetti riabilitativi individualizzati che riguardano la biografia delle persone, diversa ed irripetibile, abbiamo cercato di immettere anche degli elementi di senso affettivo.

Crosta: Nel mio lavoro, dentro i percorsi sull’inserimento lavorativo dei disabili, faccio continuamente l’esperienza di una impotenza, di una incapacità di rispondere, di un fallimento, soprattutto con persone che venivano dall’ambiente dell’igiene mentale. Continuavo a fare questa esperienza, e continuavo a domandare di capirne il senso, e di incontrare qualcuno con cui cominciare seriamente a fare un lavoro che mi potesse aiutare: Così ho incontrato Bertoli e la sua esperienza.

Ho visitato quello che ha costruito a Palmanova, e ho provato stupore, soprattutto per come hanno costruito insieme e soprattutto per la modalità con cui, attingendo anche da una risorsa finanziaria, hanno applicato in modo serio il principio di sussidiarietà. Se vale in Friuli è possibile, può essere possibile anche nella regione Lombardia, può essere possibile anche in Sicilia, può essere possibile anche in tutta l’Italia, anche nella Repubblica di San Marino. Aver visto concretamente che è possibile che un ente pubblico generi qualcosa di privato, una società mista, pubblico-privato, mi ha reso fiducioso che questo possa accadere anche altrove.

Quello che mi preme sottolineare è che stare con i disabili costringe a mettere a tema l’appartenenza: per l’educazione che abbiamo noi, il concetto di appartenenza è qualcosa che tocca la carne. Tutti abbiamo il compito di divulgare, di raccontare, di fare, di dire che siamo parte di un’esperienza, e le persone con cui trattiamo appartengono a noi e noi apparteniamo a loro. Non è possibile che si possano restituire queste persone agli ambiti che noi riteniamo più opportuni se non c’è una cultura, se non c’è una mentalità che si genera. Dal mio punto di vista, che è un osservatorio non sicuramente tra i più privilegiati, posso dire che l’uomo che non ha un’occupazione, è un uomo che non conosce, è un uomo che non vive più con la realtà, che ha perso i nessi con la realtà. I nostri tentativi rispondono in modo elementare e fondamentale a questo bisogno drammatico. La modalità può essere corretta nel tempo, ma il fattore fondamentale è il desiderio che ho io di rispondere il più possibile a chi incontro che mi chiede e vuole un aiuto.