Per una società a colori. Si scrive libertà si legge sussidiarietà

In collaborazione con Unioncamere

 

 

Domenica 23, ore 16.30

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Relatori:

Giorgio Feliciani, Ordinario di Diritto Canonico presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano

Janne Haaland Matlary, Vice Ministro degli Esteri della Norvegia

Francesco Gentile, Docente di Filosofia del Diritto presso l’Università degli Studi di Padova

Fabio Roversi Monaco, Rettore dell’Università degli Studi di Bologna

Moderatore:

Giorgio Vittadini

 

Feliciani:

1. Il valore della persona

Se i principi corrono spesso il rischio di apparire astratti e quindi inincidenti sui reali problemi dell’uomo e della società, quello di sussidiarietà, a causa del termine desueto e a onor del vero alquanto ermetico che lo designa, è particolarmente esposto a tale pericolo. È quindi per noi necessario renderci innanzitutto precisamente conto delle ragioni per cui la Chiesa vi annette tale importanza da averlo persino recepito in alcune proposizioni del proprio catechismo.

A ben guardare questo principio è una immediata e diretta conseguenza della concezione della persona umana che Gesù Cristo ha portato nel mondo, e che molti di noi hanno potuto conoscere grazie alla Scuola di comunità e agli altri scritti di don Giussani che qui mi limito a richiamare per punti essenziali. A tal fine occorre, innanzitutto, ricordare la constatazione che nell’uomo esiste "una realtà superiore a qualsiasi altra realtà" sì che "tutto il mondo non vale la più piccola persona umana". Ogni persona, infatti, possiede "un principio per cui non dipende da nessuno, fondamento a diritti individuali, sorgente di valori e costituisce essa stessa un valore che ha qualcosa di incommensurabile e di irriducibile".

Ne segue che "la speranza cristiana ha (...) come suo proprio contenuto l’affermarsi della personalità secondo tutta la sua capacità di eternità (contro tutti i leoni che nella storia l’hanno mangiata e contro tutti i poteri che hanno cercato di schiacciarla), però subito dopo - subito dopo! - implica anche che in questo mondo si battagli per i diritti di una personalità umana più compiutamente vissuta, più capita".

2. Una battaglia da combattere

Una battaglia oggi quanto mai necessaria e urgente poiché, come avverte mons. Giussani, "passato il fascismo, passato il marxismo, passato l’hitlerismo, gli Stati moderni applicano gli stessi criteri, contrari all’affermazione naturale e cristiana, secondo cui prima viene la società, poi lo Stato; cioè prima l’individuo, la persona, e poi le strutture dei rapporti che da essa, dal rispetto ad essa, dalla creatività di essa nascono e così le nazioni "vengono dissestate".

Una battaglia, dunque, che non riguarda solo la pur doverosa difesa della nostra libertà, delle nostre opere, delle nostre iniziative, ma anche, e inscindibilmente, la tutela dei diritti umani di chiunque altro. L’atteggiamento proprio di chi vuole appartenere a Cristo è, infatti, la carità, quel "dono commosso di sé" che è "affermazione dell’altro perché c’è, come è: non per un tornaconto nostro, per un calcolo nostro o come lo vorremmo noi (...) questa è la vera stima dell’uomo". Un atteggiamento che non sarebbe autentico se non implicasse anche la passione e, per quanto materialmente possibile, l’impegno perché l’altro, chiunque altro, possa liberamente esistere, esprimere tutte le sue potenzialità, realizzare compiutamente il proprio volto unico ed irripetibile.

L’esigenza della sussidiarietà non si impone, dunque, solo qualora - come spesso purtroppo avviene - lo Stato si riveli incapace di assicurare un livello decente dei servizi pubblici, e quindi occorra sopperire a tale gravissima carenza facendo ricorso alla libera iniziativa dei cittadini, singoli o associati. Al contrario: è un valore in sé, indipendentemente da qualunque altra considerazione, che ciascuno possa soddisfare le esigenze ultime o contingenti della propria umanità in un modo responsabile e creativo che corrisponda pienamente alle sue convinzioni, alla sua cultura, in una parola alla sua identità. Per questo occorre che vi sia una effettiva libertà di aprire scuole, gestire ospedali e case di cura, promuovere opere di carità e di assistenza, dare vita a organizzazioni non profit, intraprendere iniziative economiche, arricchendo la società di molteplici e variegate esperienze in un quadro di effettivo pluralismo. Come ha osservato il cardinale Biffi, "fino a che non c’è un’adeguata, efficiente, normale applicazione del concetto di sussidiarietà (...) non si può dire che sia davvero raggiunta una democrazia sostanziale".

3. Contro statalismo e liberismo

Il principio di sussidiarietà, unito a quello di solidarietà, sta dunque alla base di quella concezione cristiana della società che si contrappone decisamente a qualunque forma di collettivismo e di statalismo. Esige, infatti, che i pubblici poteri non solo riconoscano e rispettino l’autonomia dei cosiddetti corpi intermedi, ma li pongano anche in condizione di esistere, agire, perseguire efficacemente i propri fini e, quindi, li aiutino, favorendoli, promuovendoli, valorizzandoli. Lo stesso termine "sussidiarietà", deriva da una parola latina "subsidium", che vuole dire, appunto, aiuto, aiuto che il potere deve prestare alle diverse formazioni sociali.

Ma il principio di sussidiarietà, così come lo propone la dottrina della Chiesa, è pure in insanabile contrasto con qualunque concezione liberista o neo-liberista che pretenda di affidare la realizzazione del bene comune della società alle sole iniziative private. La sussidiarietà, oltre a coniugarsi necessariamente con la solidarietà che esclude ogni forma di individualismo egoistico, non nega affatto la funzione dello Stato, non si oppone ad esso, anzi lo mette in grado di svolgere meglio le sue funzioni insostituibili e inalienabili. Come espressamente avvertiva Pio XI nelle enciclica Quadragesimo anno: "È necessario che l’autorità suprema dello Stato rimetta ad associazioni minori e inferiori il disbrigo degli affari e delle cure di minor momento" per poter "eseguire con più libertà, con più forza ed efficacia le parti che a lei solo spettano (...) di direzione, di vigilanza, di incitamento, di repressione a seconda dei casi e delle necessità". Ed esortava, quindi, tutti i governanti a convincersi che quanto più sarà rispettato il principio di sussidiarietà "tanto più forte riuscirà l’autorità e la potenza sociale e perciò anche più felice e più prospera la condizione dello Stato stesso". Il che, tradotto in linguaggio contemporaneo e a tutti comprensibile, vuol dire: più società fa bene allo Stato.

La concezione cattolica della società è dunque inconciliabile sia con lo statalismo sia con il liberismo, come ha tanto sinteticamente quanto chiaramente messo in luce lo stesso Giovanni Paolo II. Il pontefice, dopo aver denunciato come nella società attuale l’individuo "è spesso soffocato fra i due poli dello Stato e del mercato" sì che talvolta sembra che egli esista "soltanto come produttore e come consumatore di merci oppure come oggetto della amministrazione dello Stato", ha rivendicato con forza la dignità e i diritti della "convivenza tra gli uomini" che "non è finalizzata né al mercato né allo Stato, poiché possiede in se stessa un singolare valore che Stato e mercato devono servire".

4. La sussidiarietà nel nostro paese: dal Regno d’Italia alla Costituzione repubblicana

Da tutte le precedenti considerazioni risulta evidente che il principio di sussidiarietà è tutt’altro che privo di concrete conseguenze, costituisce anzi il criterio fondamentale "per valutare le situazioni, le strutture e i sistemi sociali". E sotto questo profilo la storia del Regno d’Italia non può sottrarsi a un giudizio totalmente negativo. Infatti nella seconda metà dell’Ottocento, come ampiamente messo in luce anche da attenti studiosi di storia economica, nel nostro paese venne accanitamente e lucidamente perseguito, con provvedimenti di carattere legislativo e amministrativo, il disegno di ridurre progressivamente gli spazi di libera e responsabile iniziativa dei cittadini. Gli ambienti governativi e parlamentari erano, infatti, convinti che lo Stato moderno dovesse rivendicare "alla sola potestà civile l’educazione, l’istruzione, la beneficenza".

Questo processo di accentramento trovò il suo culmine in quello che è stato giustamente definito "l’assalto alle opere pie", portato a termine nel 1890 con una legge che trasformava indiscriminatamente in enti pubblici tutte quelle istituzioni di assistenza e beneficenza, che oggi qualificheremmo come organizzazioni non profit. Istituzioni che in Italia, come in altri paesi, si erano sviluppate e consolidate in Italia fin dal Medioevo ed erano ancora tanto diffuse e fiorenti che una commissione reale d’inchiesta aveva potuto censirne, un decennio prima, circa ventiduemila, operanti in trentatré diversi settori di interesse sociale.

Una legge, dunque, chiaramente liberticida, ma che è restata in vigore, sia pure con alcune modifiche introdotte nel tempo, fino a quando la Corte costituzionale, ma solo dieci anni or sono, ha dichiarato che il monopolio pubblico in essa previsto è decisamente incompatibile col principio pluralistico che ispira nel suo complesso la nostra Carta fondamentale e che, in campo assistenziale è specificamente ed espressamente garantito dalla stessa.

Una così tardiva attuazione di principi solennemente sanciti dalla Costituzione repubblicana del 1948, che, pur non menzionando la sussidiarietà, implicitamente la afferma e la favorisce, non deve sorprendere. In questi ultimi cinquant’anni "Stato apparato, enti locali territoriali, partiti e sindacati, non hanno certamente impegnato le loro forze per garantire la vita e lo sviluppo delle formazioni sociali non politicamente organizzate e non volte alla tutela degli interessi dei lavoratori". E, da parte sua, "la cultura giuridica italiana è purtroppo rimasta in gran parte ferma su una concezione che tende ad appiattire sul singolo e a considerare il riferimento alle formazioni sociali" dell’art. 2 della Costituzione "come una mera garanzia supplementare, come qualcosa di aggiuntivo rispetto al riconoscimento dei diritti inviolabili dell’individuo in quanto tale".

Tutto questo ha fatto sì che per lunghi anni nel nostro paese la sussidiarietà è stata dimenticata al punto da non essere nemmeno menzionata non solo nei dizionari della lingua italiana, come è stato argutamente rilevato, ma persino nelle più accreditate enciclopedie giuridiche.

La questione è diventata di attualità solo molto recentemente quando la sussidiarietà è stata espressamente sancita dal Trattato di Maastricht come principio cardine che delimita i poteri di intervento della Unione Europea rispetto alle competenze proprie degli Stati che ne fanno parte. Una affermazione indubbiamente parziale ma non priva di importanza anche a causa dell’ampio e articolato dibattito che ne è seguito tra gli studiosi e che ha talvolta consentito di far emergere in tutta la sua estensione il significato del principio così invocato.

Il problema si è poi imposto all’attenzione dell’opinione pubblica in occasione dei lavori della Commissione bicamerale per le riforme costituzionali.

5. La proposta della Commissione bicamerale

Non è certo qui il caso di ricostruire tutte le fasi e le alterne vicende dell’animata e articolata discussione che ha portato alla formulazione del ben noto articolo 56 del progetto di riforma costituzionale. Occorre invece concentrare l’attenzione sul testo di tale articolo per valutarlo criticamente.

La soluzione in esso adottata si ispira chiaramente a una distinzione tra sussidiarietà orizzontale - riguardante i rapporti tra lo Stato e gli enti locali da una parte e società civile e singoli cittadini dall’altra - e sussidiarietà verticale, relativa alla distribuzione delle competenze tra Stato, regioni, province e comuni. Una distinzione esasperata fino a introdurre una netta separazione tra queste due valenze del principio, che si è tradotta nell’affermazione della sola sussidiarietà verticale tra gli enti indicati, considerati come gli unici titolari di funzioni pubbliche, sia pure con il richiamo, del tutto insoddisfacente anche per la mancanza di una qualunque menzione delle formazioni sociali, a un non meglio precisato "rispetto delle attività che possono essere adeguatamente svolte dall’autonoma iniziativa dei privati".

Non sono mancati, anche in seno al cosiddetto mondo cattolico, tentativi di giustificare questa assurda mutilazione del principio di sussidiarietà, ma con argomenti tutt’altro che convincenti. Basti osservare che se l’attuazione di tale principio non giunge fino a tutelare e a valorizzare le libere iniziative dei cittadini, singoli o associati, viene praticamente negato il suo stesso fondamento che consiste nella dignità della persona umana. Tutto si riduce a una ripartizione di poteri pubblici che, da sola, non solo non comporta una maggior garanzia per i diritti dei cittadini, ma può persino peggiorarne la condizione. Come ha osservato il segretario generale della CEI monsignor Antonelli "senza un adeguato riconoscimento dei soggetti sociali lo stesso decentramento di molte competenze agli enti territoriali potrebbe tradursi in una maggiore invadenza della pubblica amministrazione e in una ulteriore burocratizzazione dei servizi". Una preoccupazione già chiaramente confermata dai fatti: il primo risultato delle cosiddette leggi Bassanini è stata l’imposizione di un nuovo tributo, pudicamente chiamato "addizionale. Ed è, del resto, fin troppo evidente che un assessore può rivelarsi più dispotico e accentratore di un ministro che, se non altro, standosene a Roma, ha meno possibilità di interferire direttamente e continuamente nell’attività dei cittadini.

Si aggiunga che l’affermazione parziale di un principio in un testo legislativo, e soprattutto in una Carta fondamentale, comporta necessariamente gravissime conseguenze dal momento che ne favorirà, a torto o a ragione, una interpretazione talmente riduttiva da rischiare di svuotarlo di ogni effettivo significato. Basti ricordare cosa è avvenuto in questi ultimi anni della libertà della scuola a causa di tre sole parole "senza oneri per lo Stato", così frequentemente invocate da quanti sono ultimamente fautori del monopolio educativo di quest’ultimo da essere paradossalmente diventate la parte della Costituzione più nota agli italiani.

Questi pericoli insiti nella proposta della Commissione bicamerale sono talmente gravi da avere indotto, come noto, numerosissimi enti ed associazioni, della più varia natura e ispirazione ideale, a promuovere una petizione popolare al Parlamento italiano per chiedere che "nel testo della nuova Costituzione il principio di sussidiarietà venga esplicitato e riconosciuto in tutta la sua ampiezza", anche mediante lo specifico riconoscimento della "qualifica di servizio di pubblica utilità (...) ai servizi prodotti dalle formazioni sociali" con tutte le conseguenze che ne derivano.

6. Una battaglia da continuare

La Commissione bicamerale è miseramente naufragata, il risultato dei suoi lavori accantonato, e per quanto concerne le conclusioni cui era pervenuta circa la sussidiarietà, è proprio il caso di dire: per fortuna! La partita però è tutt’altro che chiusa, ma solo per così dire sospesa.

Una riforma che adegui la Costituzione alle esigenze di un paese che in questi ultimi cinquant’anni è profondamente mutato sotto il profilo sociale, politico, economico non può essere rinviata sine die, come ormai riconosciuto pressoché unanimemente. Tutto fa quindi prevedere che ben presto una nuova commissione oppure lo stesso Parlamento, se non, come vorrebbe taluno, un’assemblea costituente, si metteranno all’opera per perseguire lo scopo che la bicamerale non è riuscita a raggiungere.

Occorre dunque adeguatamente prepararsi a tale importante scadenza, che offrirà una occasione forse unica e irripetibile, mediante sia una incisiva e capillare sensibilizzazione del nostro popolo al problema, sia un approfondito studio che consenta di formulare precise e articolate proposte di riforma che diano completa attuazione al principio di sussidiarietà.

E, nel contempo, sarà non meno urgente e necessario vigilare sulla legislazione ordinaria e sui provvedimenti di carattere amministrativo che da qualche tempo stanno rivelando una preoccupante tendenza a gravare, nei più diversi campi della vita sociale, la libera iniziativa dei cittadini con nuovi pesanti condizionamenti, nonché a perpetuare quelli esistenti.

Gli esempi potrebbero essere numerosi, ma è sufficiente ricordare quanto sta avvenendo in quegli ambiti che più direttamente riguardano le esigenze essenziali della vita: famiglia, scuola, sanità.

Recentissime statistiche di fonte ufficiale segnalano un significativo incremento del numero di famiglie sotto la soglia di povertà, soprattutto di quelle con vari figli. E di fronte a questa tragica situazione che esigerebbe una legislazione favorevole alla famiglia simile a quella adottata da non pochi paesi della Comunità Europea, la riforma che più appassiona larghi settori della maggioranza e alcuni esponenti dell’opposizione è il riconoscimento legale delle cosiddette unioni di fatto, meglio se gay. Ogni commento è superfluo.

La condizione della scuola libera in Italia è stata giudicata incompatibile con principi di natura etica e con lo stesso dettato costituzionale da una personalità tanto autorevole quanto insospettabile di pregiudizi nei riguardi degli istituti statali di istruzione: il ministro Luigi Berlinguer. In questa stessa sede nell’agosto del 1996 ha infatti dichiarato: "Considero un obbligo morale tentare in tutti i modi di dare all’Italia una legge sulla parità (...). Ho usato volutamente la parola obbligo morale perché c’è un elemento etico nella politica formativa e l’essere stata scolpita questa norma di parità per gli studenti nella Costituzione diventa un imperativo per un governo, per un ministro, per un uomo di scuola". Ottimi propositi che hanno incontrato opposizioni tanto virulente da costringere lo stesso ministro a dichiarare nel luglio scorso: "La parità non è assolutamente un problema prioritario". Il che, tradotto in non politichese significa: per ora non se ne parla proprio e in futuro si vedrà. Nel contempo il governo considera prioritario prolungare di un anno la scuola dell’obbligo, senza nessun preciso progetto didattico, una riforma che limiterà il diritto dei genitori di scegliere il tipo di formazione più adatto ai figli e alle esigenze della famiglia e arrecherà un duro colpo alle scuole professionali gestite in larga misura dai salesiani, come Bertinotti non ha mancato di sottolineare con notevole compiacimento.

Per quanto, poi, concerne la sanità sono fin troppo note le critiche rivolte da più parti agli orientamenti del competente ministero diretti a istituire una sorta di monopolio pubblico dei servizi relativi, a limitare il diritto di scelta dei cittadini tra strutture pubbliche e strutture private accreditate, a declassare gli stessi medici a impiegati, mortificandone capacità e professionalità.

Tutto questo non ha assolutamente nulla a che vedere con la sussidiarietà e rende quanto mai attuale l’avvertenza di Giovanni Paolo II: "Intervenendo direttamente e deresponsabilizzando la società, lo Stato assistenziale provoca la perdita di energie umane e l’aumento esagerato degli apparati pubblici, dominati da logiche burocratiche più che dalla preoccupazione di servire gli utenti, con enorme crescita delle spese" e scarsa rispondenza alle esigenze delle singole persone.

Occorre dunque continuare una battaglia che, con il passare dei mesi, si rivela sempre più urgente ed essenziale per il destino del nostro paese.

Haaland Matlary: Rappresento il Partito Cristiano Democratico Norvegese, che ha alla base i principi della sussidiarietà, della solidarietà e della carità, anche se non si tratta assolutamente di un partito cattolico; io sono la prima cattolica che fa parte di questo partito. Il nostro programma a livello di partito si concentra sulla universalità del pensiero sociale e sui temi di cui si è parlato. Inoltre, sono anche vice ministro degli Affari esteri del nostro governo, governo formato da una coalizione tripartitica.

Nel mio lavoro quotidiano mi occupo della attuazione dei diritti umani: la Norvegia ha un ruolo importante nella politica umanitaria, per esempio l’assistenza umanitaria, nel processo di pace, e collabora con le organizzazioni non governative di tutto il mondo. La nostra politica estera assomiglia molto alla struttura della società e della democrazia di altri paesi: la società internazionale non è basata soltanto sulla anarchia, e l’individuo umano è la base delle nostre politiche a livello nazionale. Una giusta concezione dell’individuo è alla base di tutti i diritti umani, e si basa a sua volta sulla dignità umana. Quest’anno ricorre il cinquantesimo anniversario della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, nella quale tutti i diritti umani vengono chiaramente espressi, e si tratta degli stessi diritti umani che sono definiti anche a livello nazionale come base necessaria per la sussidiarietà: ha quindi senso parlare di sussidiarietà anche a livello internazionale.

Alla base della politica c’è sempre la dignità umana, che dà luogo alla applicazione del concetto della solidarietà e della sussidiarietà. Il programma del nostro governo afferma che le più grandi sfide di oggi sono relative alle esigenze umane immateriali: noi non vogliamo che si accetti la visione dell’essere umano quale individuo che abbia soltanto esigenze materiali, e sia semplicemente un attore sul mercato; il nostro governo combatte contro le nuove concezioni che vedono l’individuo in maniera del tutto strumentale e lo definiscono solo per le sue esigenze materialistiche. Le violenze sessuali, sempre maggiori, la violenza in generale, alcuni movimenti giovanili estremi, sono segni del declino morale della nostra società. Questa diagnosi della società norvegese è valida e credo si possa applicare a tutto il mondo occidentale: per questo i diritti umani sulla base della dignità umana sono diventati la base della politica del mio partito sia a livello nazionale che internazionale. È stato necessario fondare una commissione nazionale con rappresentanti di tutti i gruppi della società per riscoprire quelle che sono le norme di moralità comuni alla società. Si tratta di una definizione del problema comune a diversi governi: il problema dei diritti umani è comune a tutti, in quanto tutti siamo esseri umani.

La persona ha dei diritti nei confronti dello Stato e anche dei diritti di partecipazione alla politica e alla società; sono diritti che tutti quanti abbiamo e che derivano dall’essere esseri umani: essi includono il diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza della propria persona, la libertà di pensiero, di coscienza e di religione, la libertà di opinione e di espressione, la libertà di costituire associazioni, di fare parte del governo su base democratica, la libertà e il diritto di lavorare, di educare i propri figli, di godere dei servizi di assistenza sanitari e di servizi sociali adeguati. Tutti questi diritti sono diritti sia individuali che sociali; si è arrivati a questi diritti che sono stati definiti dalle Nazioni Unite già cinquanta anni fa. Questi diritti sono stati affermati da popoli di tutte le religioni e di tutte la ragioni del mondo,: è una legge morale che abbiamo scritta nei nostri cuori, quella che noi cattolici chiamiamo legge naturale e che è un dato di fatto.

Nella società internazionale abbiamo una debole salvaguardia e tutela di questi diritti, quindi per riuscire ad arrivare veramente alla solidarietà e alla sussidiarietà a livello internazionale occorre fare molto: abbiamo bisogno di un mondo più equo, perché il problema fondamentale della mancanza di solidarietà e dello sviluppo economico è alla base di molti conflitti; abbiamo bisogno di rafforzare anche il ruolo delle Nazioni Unite, e la lotta contro l’abuso dei diritti umani. Noi in Norvegia cerchiamo di fare molto attraverso le organizzazioni non governative: possiamo ad esempio sostenere, tramite queste organizzazioni non governative, il nostro lavoro nei paesi dove si abusa dei diritti umani, come ad esempio in Bosnia.

Vorrei sottolineare per concludere il fatto che abbiamo a disposizione una buona base per asserire i diritti umani e per affermare cosa veramente significhi la sussidiarietà a livello internazionale; a livello internazionale dobbiamo costruire la società civile secondo i principi della sussidiarietà, proprio come dobbiamo costruirla nella nostra società sia in Norvegia che in Italia. È una sfida importante che ci attende: dobbiamo mettere a disposizione fondi per l’assistenza allo sviluppo, dobbiamo riuscire a collaborare con le organizzazioni umanitarie, dobbiamo supportare il diritto degli individui a formare famiglie. Per realizzare questi scopi, dobbiamo considerare la società internazionale come se fosse la nostra.

Gentile: "Chi di fronte all’eterno problema di ciò che sta dietro il diritto positivo cerca ancora una risposta troverà, temo, non la verità assoluta di una metafisica né la giustizia assoluta di un diritto naturale perché chi alza quel velo senza chiudere gli occhi si vede fissare dallo sguardo sbarrato della testa di Gorgone del potere". Queste parole kafkiane non sono né di Kafka né di un anarchico, ma di un severo giurista di lingua tedesca, che ebbe la straordinaria fortuna di essere l’ispiratore della Costituzione della Repubblica di Weimar e che morì in California in una università di Stato. È la più drammatica e desolata dichiarazione di resa del positivismo giudico, la teoria del diritto che da duecento anni a questa parte ha fatto da padrone, escludendo qualsiasi altra concezione dell’ordinamento giuridico. L’unico antidoto a questa crisi del positivismo, riconosciuta dagli stessi positivisti che non hanno niente di ulteriore da proporre, è proprio nella sussidiarietà. Per spiegarmi, devo anzitutto dire qualcosa sul positivismo giuridico, perché risulti chiaro qual è la mia proposta a proposito della sussidiarietà.

Il positivismo giuridico vive su due grandi principi: il primo è che l’ordinamento giuridico delle relazioni fra i soggetti può venire solo dalla volontà dello Stato, fuori della quale non c’è possibilità di ordine; il secondo è l’assunto fondamentale dell’individualismo quale è stato teorizzato nell’evo moderno da Hobbes, Locke, Kant ed anche Spinoza e Marx, l’assunto che l’uomo come singolo non è capace di rispettare alcuna regola. Scrive Rousseau: "L’uomo dello stato di natura [che è l’uomo come singolo] è tutto per sé, è l’unità numerica, è l’intero assoluto che non ha altro rapporto se non con se stesso". Ancora più interessante è quello che dice Hobbes: "Quando un uomo è nel puro stato di natura, il suo appetito personale è la misura del bene e del male". Quindi, ‘bene’ e ‘male’ sono nomi - siamo nell’ambito del nominalismo di origine occamista - che significano i nostri appetiti e le nostre avversioni. Addirittura, "lo stesso uomo, in tempi diversi, differisce da se stesso e in un tempo loda, e cioè chiama buono, quello che in altro tempo disprezza, solo perché in un momento ha appetito e nell’altro momento non ha più appetito". Da qui, continua Hobbes, sorgono dispute, liti e alla fine guerra. Il positivismo giuridico, avendo dunque assunto l’incapacità dell’uomo come singolo di distinguere il bene dal male, di darsi e rispettare una regola, doveva per forza sostenere che tra gli uomini era necessaria e inevitabile la guerra, sicché per avere la pace bisognava che intervenisse lo Stato, un ente superiore - Hobbes lo chiama Leviatiano -, il quale sovrapponendo la sua volontà alla volontà dei singoli metteva pace tra loro. Ecco perché se sollevate il velo della legge del diritto positivo trovate il ghigno della Gorgone del potere; e questa è la terribile soluzione nella quale purtroppo oggi è coinvolto tutto l’ordinamento giuridico.

Perché la sussidiarietà o il riferimento alla sussidiarietà può essere una soluzione? Anche qui vorrei fare una precisazione storica: il principio di sussidiarietà è diventato di moda da quando è entrato nelle disposizioni che modificano il trattato della Comunità Europea per costituire l’Unione Europea, per la sua collocazione nelle disposizioni che modificano lo statuto della comunità in relazione all’attività produttiva. Prima era solo un gravissimum, un punto fermo della dottrina sociale della Chiesa. Quello della sussidiarietà viene per lo più inteso come un principio di natura economica e tutt’al più di politica sociale. Credo che questa sia un’evidente distorsione, come possiamo capire solo se andiamo alle origini del principio di sussidiarietà. Origini che ci riportano a quel subsidium a cui faceva riferimento Feliciani che si trova nella Quadragesimo Anno, dove è detto molto semplicemente: "Come è illecito togliere ai singoli ciò che essi possono compiere con le loro forze e l’industria propria per affidarla alla comunità, così è ingiusto rimettere ad una maggiore e più alta società quello che delle minori società possono fare, perché l’oggetto naturale di qualsiasi intervento della società è quello di dare aiuto, subsidium, alle membra del corpo sociale, non già di distruggerle e di assorbirle".

Qui dunque noi troviamo il seme di un principio generale del diritto fondamentale che ci consente di superare la crisi del positivismo giuridico e che c’era già nella Rerum Novarum di Leone XIII, che costituisce la premessa della stessa Quadragesimo Anno: "Non è giusto che il cittadino, non è giusto che la famiglia siano assorbiti dallo Stato; è giusto invece che si lasci all’uno e all’altra tanta indipendenza di operare". L’indicazione è chiarissima: nel processo dell’ordinamento giuridico delle relazioni intersoggettive la società maggiore non deve assorbire le società minori dei singoli, ma deve intervenire in loro aiuto. I concetti chiave sono quelli di ‘assorbire’ e ‘aiutare’. La concezione giuridica del positivismo è una concezione dell’intervento di tipo assorbente: lo Stato assorbe i singoli, assorbe le società minori. Contro questa concezione c’è invece l’idea di una società che aiuta.

Voglio sottolineare infine che la sussidiarietà è non solo un antidoto alla crisi del positivismo giuridico, ma è un anticorpo, perché già all’inizio dell’affermarsi del positivismo giuridico era presente il problema se si dovesse interpretare l’intervento dello Stato nell’ordinamento giuridico delle relazioni fra i soggetti come assorbente i soggetti incapaci di darsi una regola o piuttosto come ausilio a dei soggetti capaci di darsi delle regole e di rispettarle.

Roversi Monaco: Il termine sussidiarietà ha almeno una trentina di significati, perché in realtà è un concetto complessivamente indefinito e può piuttosto considerarsi un principio di tendenza, un’opzione ideale con forte impatto sociale e sostanziale nella società. Il motivo per cui ultimamente la parola ha avuto tanto successo risiede nel trattato di Maastricht: è la parola che, secondo il premier inglese, ha salvato letteralmente il trattato di Maastricht. Se dunque un accordo internazionale che è in procinto di rompersi viene risolto da una parola, vuol dire che la parola ha in sé un carico di ambiguità enorme, perché altrimenti non potrebbe risolvere con un colpo di bacchetta magica una situazione di grave logoramento e di scontro fra Stati. Perché dunque la sussidiarietà salva questo trattato?

Nel trattato di Maastricht il contenuto essenziale della sussidiarietà consiste nell’adottare le decisioni al livello più possibile ai cittadini; i livelli di governo superiori intervengono solo se e nella misura in cui gli obiettivi prefissati non possano essere realizzati meglio dal livello inferiore,. Questo ha salvato il trattato perché in questo modo all’Unione Europea sono state attribuite più funzioni, quelle funzioni il cui esercizio è condizionato dalla prova della insufficienza da parte degli Stati membri nello svolgerle. È dunque una sorta di colpo al cerchio e colpo alla botte per riuscire a fare passare il trattato, il principio e due interpretazioni sicuramente divergenti su quelli che devono essere i rapporti fra l’Unione Europea e i singoli Stati. Tradotto nell’ordinamento nazionale, c’è stata una vera e propria irruzione, negli studi di diritto pubblico e amministrativo, del principio di sussidiarietà, che è stato utilizzato e discusso in modo frenetico nel corso di questi ultimi anni. In Italia ad esempio tale principio è stato ispiratore della legge così detta Bassanini e dei decreti delegati che cominciano ad essere emanati in applicazione della legge Bassanini; si è in seguito acceso un grande dibattito in sede di Commissione bicamerale, fino alla stesura dell’articolo 56, nella quale in verità si dice molto poco.

Il frutto di questo dibattito è che la sussidiarietà è stata vista come strettamente legata o all’assetto dei rapporti fra Stati, o all’assetto interno dei singoli Stati: rapporti fra lo Stato e gli Stati federati, rapporto tra lo Stato e le regioni, rapporto fra lo Stato e gli enti autonomi locali... si tratta quindi di una interpretazione pubblicistica che ha fortemente deformato le caratteristiche di questo principio. Il principio di sussidiarietà infatti è molto più complesso, e ingloba i principi di autogoverno, di buona amministrazione, di imparzialità, di giusto procedimento, di giustiziabilità, di responsabilità: è in definitiva la sintesi di molti dei principi fondamentali che dovrebbero reggere, secondo la Costituzione, il nostro Stato.

Il principio di sussidiarietà si pone come logica deduzione della affermata centralità della persona umana nell’ambito dell’ordinamento sociale. Ogni attività sociale ha come scopo quello di aiutare i componenti del corpo sociale ad esprimersi, e dunque l’ordine sociale deve essere incarnato nel principio della funzione sussidiaria; individuo, famiglia, istituzioni coesistono fra loro in una sovrapposizione quasi a centri concentrici di diversi livelli di diritti e doveri, il cui funzionamento è appunto disciplinato dal principio di sussidiarietà. Poiché Stato e società sono una conseguenza dell’evoluzione dell’esigenza dell’individuo, essi devono venire in soccorso solo quando l’individuo da solo, o nelle formazioni sociali, non riesce a realizzare con le proprie forze quanto risponde ai suoi bisogni. Il che si verifica molto spesso nell’ambito dello Stato contemporaneo, se si considera l’invadenza che c’è stata e le cresciute esigenze dei cittadini.

Quindi si può anche accettare un’interpretazione verticale del principio di sussidiarietà - fra enti territoriali di governo, per limitarci all’ordinamento nazionale: lo Stato, le regioni, gli enti locali, gli enti funzionali e così via - purché si riconosca che esiste in misura ancora più ampia, con uno spettro di possibilità ancora più ampio, una sussidiarietà orizzontale fra gruppi sociali. Si può riconoscere allora che in questa accezione più ampia viene coinvolto il problema dei rapporti fra pubblico e privato nell’ambito di questa concezione di sussidiarietà orizzontale. Ma questo va affermato con chiarezza: attualmente sussidiarietà significa uguaglianza, democrazia, libertà e responsabilità, salvaguardia delle autonomie private, solidarietà sociali, valorizzazione di enti territoriali, centralità della persona umana, elemento di discrimine fra ciò che è pubblico e ciò che è privato... troppe cose, che fanno perdere di vista la natura fondamentale del concetto. Credo che debba farsi molta attenzione all’applicazione della sussidiarietà soltanto alle strutture pubbliche, per farne quasi uno strumento di miglior scorrimento fra queste nei loro reciproci rapporti. In realtà il principio di sussidiarietà di per sé limita necessariamente l’invadenza dello Stato ed è rilevante come elemento che supera definitivamente l’idea di una società caratterizzata da un rapporto diretto individuo e Stato che non ammette altri interlocutori.

Non c’è nulla di nuovo dal punto di vista della nostra Costituzione: gli articoli 2 e 5 infatti contengono largamente questi principi. Con la sussidiarietà non è stato scoperto nulla di nuovo, però il concetto di sussidiarietà penetra potentemente in questa fase della vita del paese, nel contesto del rapporto tra individuo e Stato, come elemento che mira a valorizzare la libertà dell’individuo, come elemento il cui sviluppo porta a valorizzare la libertà dell’individuo sia direttamente sia attraverso le strutture che in qualche modo al principio di sussidiarietà si possono collegare, valga l’esempio del non profit o quello del volontariato.

Se quindi vogliamo parlare di principi di sussidiarietà a tutto tondo, dobbiamo affermare che vanno ridefiniti i compiti essenziali dello Stato, che va riaperto un nuovo insieme di spazi ai cittadini e che questa è una questione anche di libertà: esistono delle libertà fondamentali che ineriscono al singolo in quanto tale, che richiedono un rispetto da parte dello Stato, ed esistono invece delle libertà fondamentali che possono essere soddisfatte soltanto nella società e attraverso la società. È stato tale l’irrompere dello Stato nella sfera dei bisogni dei cittadini per questo tipo di libertà, garantito da determinati servizi, che fa sì che il principio di sussidiarietà, se effettivamente riconosciuto ed applicato, implichi necessariamente che si debba fare arretrare l’area dell’amministrazione rispetto all’area della società. Quando si collega il principio di sussidiarietà al decentramento amministrativo, all’autogoverno, allo Stato federale, si dice qualche cosa di esatto, perché è la società che è necessariamente decentrata, e la valorizzazione della società e delle sue articolazioni inevitabilmente non dà nuovi compiti, ma sottrae compiti già gestiti allo Stato stesso: sviluppo della sussidiarietà significa quindi riduzione dello statalismo.

Veniamo da un’esperienza storica lunga in cui ciò che è collettivo è pubblico, ciò che è pubblico è statale, lo Stato è la misura di tutto ciò che è pubblico e i bisogni del cittadino li soddisfa lo Stato attraverso le sue strutture, strutture di amministrazione attiva e non strutture di regolamentazione, di programmazione e di controllo. Lo sviluppo del principio di sussidiarietà, così come lo sviluppo del decentramento e dell’autogoverno, riducono lo spazio per una tale amministrazione e quindi sotto questo profilo c’è un collegamento fra organizzazione statale e principio di sussidiarietà. Questo passa sicuramente attraverso la valorizzazione degli enti locali: tuttavia, nel nostro paese questa è stata l’unica chiave di lettura del principio di sussidiarietà e di valorizzazione del pluralismo. Bisogna invece fare i conti con le istituzione del pluralismo in modo definitivo, anche perché questi principi sono contenuti già nella nostra Costituzione e io temo che la bicamerale possa più rovinare che migliorare quello che nella nostra Costituzione è già scritto.

L’aspetto più grave è che tutto ciò che la Commissione bicamerale, la Camera, il governo hanno scritto e hanno normato in tema di sussidiarietà è stato concepito sempre nell’ottica della ripartizione di potere fra gli apparati pubblici, mai dal punto di vista dei cittadini. La domanda allora è questa: non è dei cittadini, forse, che deve partire la filosofia stessa della sussidiarietà? E allora dobbiamo immaginare di rovesciare il prisma e pensare che si possa parlare di riorganizzazione amministrativa dello Stato o riorganizzazione dello Stato in assoluto in termini di sussidiarietà verticale. Se dipendesse da me, userei il termine sussidiarietà in senso molto più ridotto, riconoscendo il diritto del cittadino a valorizzarsi per sé medesimo e attraverso il contatto con gli altri cittadini, con gli altri uomini, con le altre donne, e riconoscendo semmai il diritto del cittadino ad avere finalmente, per determinate funzioni, un unico interlocutore amministrativo e una priorità di organi amministrativi.

Vittadini: Mi permetto di sintetizzare brevemente le conclusioni. Oltre ad avere evidenziato un aspetto della sussidiarietà fondativo - in cui abbiamo visto che la sussidiarietà si basa sulla definizione di persona e di carità e sulla Dichiarazione dei diritti umani di 50 anni fa; questo dunque pone la necessità di un diritto che non sia solo un diritto statale -, sul piano delle urgenze sono emersi almeno quattro punti.

Anzitutto, la necessità che i popoli abbiano vita libera, come ha messo in rilievo la nostra autorevole esponente internazionale. Ci deve essere la libertà di azione dei popoli, l’autodeterminazione; il crollo dei blocchi ha aumentato la possibilità di guerre, di invasioni, di distruzioni di libertà e quindi di sussidiarietà a livello di Stato.

In secondo luogo, la necessità della rinascita di un diritto che non sia solo statale: il diritto statale - come abbiamo sentito dal professor Gentile - è una invenzione moderna, una prevaricazione, una violenza, soprattutto quando ci fanno credere che è l’unico diritto. Invece, è solo un tipo di diritto, il diritto che è nato dall’Illuminismo, dagli Stati assolutistici. Noi vogliamo un altro diritto che si basi sulla libertà della persona, vogliamo tornare a quella miriade di possibilità di fonti di diritto che nascono dalla società civile.

In terzo luogo, noi non vogliamo una lotta al welfare state, ma una chiarezza sul fatto che quando lo Stato invade la possibilità di risposta della persona finisce per costruire, nei decenni, disastri; nel momento in cui non ha più soldi da spendere crea strutture inefficienti, con il risultato che i poveri non sanno più come rispondere ai loro bisogni, perché hanno solo una struttura pubblica inefficiente, e i ricchi possono rispondere attraverso strutture private che pagano. Noi in Italia abbiamo questo welfare state che in realtà è la fonte non solo della non sussidiarietà, ma, nel tempo, della distruzione nel nostro paese di una possibilità di aiuto dei meno abbienti.

La quarta urgenza è legata alla terza, e la interpreta in positivo: è necessaria la promozione delle risposte dei cittadini, delle libere associazioni e delle forme sociali, come è nella tradizione del nostro paese. Dalla fine del Medioevo, dall’inizio di questo secolo a livello di scuola, di sanità, di lavoro, di credito, è stata questa la differenza del nostro paese rispetto ai paesi del nord Europa, ed è il motivo per cui nel nostro paese non si è mai morti di fame. Magari la gente emigrava, ma nessuno è mai morto di fame, ci si è sempre dati una mano, si è costruita una società in un mondo molto più povero di altri, si sono date risposte immediate. Questo è stato distrutto, molte volte anche dai cattolici, per errore dei cattolici. Noi vogliamo riprendere questa tradizione, che oltretutto non è solo cattolica: la tradizione di opere è una tradizione cattolica, laica e comunista, dunque veramente pluralista.

Infine, vale la pena di ribadire la denuncia del professor Feliciani. Siamo di fronte, purtroppo, al sogno europeo e ad un incubo italiano, che è fatto anche di una surrettizia, progressiva, strisciante invasione dello Stato in mille aspetti, che sta peggiorando quello che non è successo per cinquanta anni.