Povertà e sviluppo:

l’uomo interessa al mercato?

Venerd

29, ore 11.30

Relatori: Renato Ruggiero, Emma Bonino,

Gabriele Gatti, Direttore Generale Commissario dell’Unione Europea

Segretario di Stato per gli Affari dell’Organizzazione Mondiale per gli Aiuti Umanitari

Esteri della Repubblica di San Marino del Commercio Roberto Formigoni,

Presidente della Regione Lombardia

 

 

 

 

Gatti: Il tema del nostro incontro è di grande interesse e di grande attualità, particolarmente per la Repubblica di San Marino. La Repubblica di San Marino ha infatti un accordo di unione doganale e di cooperazione economica con l’Unione Europea e punta ad una sempre maggiore integrazione europea. È impensabile che una piccola realtà come San Marino possa entrare all’interno dell’Europa e dell’Italia senza essere pienamente integrata nell’Unione Europea: questa è anche la possibilità di superare il rischio di perdere quelle specificità (tradizioni, storia, cultura) che ad un piccola realtà non possono che essere molto care.

La Repubblica di San Marino in campo economico ha fatto delle scelte molto precise, che non guardavano al semplice e immediato obiettivo della crescita o del vantaggio economico. San Marino non è un paradiso fiscale, né una piazza finanziaria. Per questo, elementi come i soggiorni, le residenze, o la casa da gioco non sono stati utilizzati in una maniera che poteva anche produrre distorsioni, anche se apparentemente avrebbero contribuito al rilancio delle presenze, almeno di un certo tipo, a San Marino. Ci siamo sempre preoccupati di avere una economia diversificata, non una monoeconomia, dipendente da una economia particolare. La nostra è stata una scelta che mirava soprattutto e mira a preservare la sovranità e l’autonomia dei sanmarinesi. I piccoli Stati debbono preservare questi obiettivi e combattere per essi.

Per questo auspico che in un mondo in cui, giustamente, si parla molto di economia, di mercato, di regole, di parametri, ci sia sempre comunque uno spazio adeguato per l’uomo, perché l’uomo è l’obiettivo fondamentale. Mi auguro anche - come rappresentante di un piccolo paese - che nella comunità internazionale tutte le realtà abbiamo una loro giusta collocazione, una loro giusta dignità, che non ci siano quei paesi che possono decidere per tutti, ma che ci siano sempre di più le regole del consenso, del rispetto, e che le decisioni siano sempre legate al diritto e non a ragioni militari o economiche.

 

 

Ruggiero: Vorrei innanzitutto fare due osservazioni iniziali. Il mercato è una relazione oggettiva fra la domanda di beni e di servizi e l’offerta di beni e di servizi. Il mercato in se stesso non può interessarsi all’uomo, deve essere l’uomo che si interessa al mercato, che deve costruire le regole migliori possibili perché il mercato produca risorse e perché queste risorse vengano distribuite nel migliore dei modi. Non possiamo appellarci alle forze del mercato quando qualcosa non funziona, ma dobbiamo dire che siamo noi uomini che non abbiamo saputo creare le regole necessarie affinché queste forze operino nel modo migliore.

La seconda osservazione è che esistono molte tipologie di economia: una tipologia di carattere europeo, che si identifica talora con l’economia sociale di mercato dello sviluppo renano; una tipologia anglosassone fondata sulla ricchezza finanziaria; una tipologia asiatica fondata su un insieme di altri valori. Il mercato di per se stesso non si identifica con un modello, appunto perché vi sono moltissimi modelli e sottomodelli.

Per quanto riguarda la questione del mercato, il tema specifico che stiamo trattando, vi sono diverse prospettive per giudicare il mercato; il mercato lo si può giudicare dal punto di vista dell’economia nazionale, di quella europea, o di quella mondiale. Queste differenze di prospettiva comportano delle visioni totalmente diverse: pensiamo ad esempio al problema delle disuguaglianze. Se noi parliamo delle disuguaglianze dal punto di vista europeo, vi è una soglia di povertà, decisa statisticamente, che si colloca a quattordici dollari e mezzo al giorno; ma se si applica questa soglia di povertà al resto del mondo, si dovrebbe concludere che tutto il resto del mondo vive sotto la soglia di povertà. Le considerazioni che si possono fare con una prospettiva europea sono dunque diverse da quelle dell’economia mondiale.

Per capire cosa sta succedendo nell’economia mondiale è necessario fare un passo indietro nella storia. Alla fine della seconda guerra mondiale, quando si è dovuto costruire quel modello di sviluppo dell’economia mondiale che si applica ancora oggi, non vi era altra scelta e possibilità che quella di basare questo modello sulla economia di mercato, per la ragione che l’Europa e il mondo intero stavano uscendo da una immensa tragedia, tragedia in gran parte alimentata dal nazionalismo economico che aveva prodotto il fascismo e il nazismo e dalla economia marxista che aveva prodotto la dittatura staliniana. L’unico modello che poteva ricostruire il mondo su basi di libertà e di democrazia era, come è ancora oggi, l’economia di mercato. Questa precisazione storica ci fa capire che il mercato non è certo un modello ideale, è semplicemente il modello meno imperfetto, dato che le altre esperienze hanno finora portato a grandi tragedie ed alla perdita della libertà.

Come ha funzionato e come funzionerà, su scala mondiale, l’economia di mercato? Sarebbe un inaccettabile errore se non partissimo dalla povertà e dalla disuguaglianze che ancora esistono, e se non ricordassimo quanti aspetti che non possiamo minimizzare o dimenticare ha ancora il mondo in cui viviamo. È inaccettabile che ancora un miliardo e trecento milioni di uomini vivano con un reddito pro-capite inferiore ad un dollaro al giorno o che il 50% della popolazione del mondo viva con un reddito complessivo inferiore al 5% della ricchezza del mondo. È inaccettabile che 840 milioni di adulti siano ancora analfabeti o che un terzo delle persone dei paesi più poveri viva meno di quarant’anni, oppure, nel caso del commercio, che i paesi più poveri che hanno il 10% della popolazione mondiale partecipino al commercio mondiale con una quota dello 0,3. Tutto questo bisogna dirlo, e dirlo con una grande forza.

Tuttavia, sarebbe ugualmente inaccettabile se non citassimo i progressi realizzato in questi ultimi cinquanta anni. Come ricorda un rapporto ufficiale delle Nazioni Unite - normalmente questi rapporti sono molto severi - sullo sviluppo umano pubblicato quest’anno, "poche persone si rendono conto dei grandi progressi realizzati nel ridurre la povertà. Negli ultimi cinquanta anni la povertà è stata ridotta più che nei precedenti cinquecento. Ed è stata ridotta, sotto certi aspetti, in quasi ogni paese del mondo. Alla fine del XX secolo, tre miliardi e mezzo di persone avranno realizzato miglioramenti sostanziali nel loro livello di vita e circa cinque miliardi avranno accesso ad una educazione di base e di assistenza medica". Sarebbe dunque un errore colossale minimizzare le disuguaglianze, ma ugualmente colossale minimizzare quello che il mondo sta facendo, quello che molti stanno facendo perché questi problemi abbiamo una migliore collocazione.

Tra i paesi in via di sviluppo, alcuni paesi dell’Africa cresceranno nei prossimi anni con un ritmo circa tre volte superiore a quello dei paesi industrializzati. Negli ultimi quindici anni dieci paesi in via di sviluppo, con una popolazione globale di un miliardo e mezzo di uomini, hanno raddoppiato il loro reddito pro capite. Un fenomeno di questa dimensione non si era mai verificato. È vero che all’interno di questi dieci paesi la distribuzione della ricchezza sarà comunque insufficiente, ma sta di fatto che un miliardo e mezzo di uomini ha raddoppiato il suo tenore di vita. Due terzi della crescita mondiale nei prossimi anni avverrà nei paesi in via di sviluppo e non solo in Asia e nel Sud-Est asiatico, ma anche in America Latina ed in molti paesi dell’Africa. L’Africa - o almeno parte di essa - sta uscendo da un tunnel buio nel quale ha vissuto per molto tempo: certo vi sono ancora tragedie immense ed inaccettabili, guerre spaventose, ma questi fenomeni non coinvolgono tutto il continente.

Questi dati interessano non solo i paesi in via di sviluppo, ma anche i paesi industrializzati: non è vero che la crescita dei paesi in via di sviluppo sia contraria agli interessi dei paesi industrializzati, che noi - per quanto riguarda l’Italia - perdiamo posti di lavoro a causa di questi paesi: noi esportiamo molto di più in quei paesi di quanto importiamo, e in gran parte la nostra ricchezza dipende dallo sviluppo e dalla ricchezza di quei paesi. Non abbiamo nessun alibi: quei paesi sono e saranno sempre di più il motore della nostra crescita.

Non possiamo dimenticare il problema fondamentale delle disuguaglianze inaccettabili: cosa fare rispetto a questo problema? Dobbiamo continuare nella strada che abbiamo intrapreso, sapendo che oggi la maggiore resistenza non viene dai paesi in via di sviluppo, ma proprio dai paesi industrializzati; è in questi paesi che molte volte si sente il tema del protezionismo, del pericolo degli altri paesi. Sono dunque i paesi sviluppati a dover rendersi conto della interdipendenza crescente.

Vorrei ora spiegare brevemente cos’è l’Organizzazione Mondiale del Commercio. Un tempo si chiamava GAT, era un accordo nato subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, con 23 paesi membri, quasi tutti paesi industrializzati, ricchi: infatti era chiamato anche il "club dei ricchi". Oggi invece i paesi membri sono 131: l’80% sono paesi in via di sviluppo o paesi con economia in transizione. Altri 30 paesi in via di sviluppo, o paesi con economia in transizione sono attualmente candidati, su loro richiesta, a farne parte: Cina, Russia, Arabia Saudita, Ucraina... Questo significa che credono nel modello - un modello basato sull’economia di mercato - e questo perché non soltanto l’Organizzazione Mondiale del Commercio attua la liberalizzazione, ma anche perché scrive le regole con cui i processi commerciali debbono essere attuati, ed ha - fatto rivoluzionario - un sistema vincolante per la soluzione delle controversie. Il primo caso che è stato giudicato era un caso contrario agli Stati Uniti d’America su delle norme ecologiche: ebbene, gli Stati Uniti d’America hanno modificato la loro legislazione per tenere conto di quello che era stato il parere dell’Organizzazione Mondiale del Commercio. Di fatto nella nostra epoca quasi tutti i grandi dissidi commerciali non vengono più regolati sulla base di rapporti di forza, ma sulla base di regole che consensualmente paesi piccoli e grandi, poveri e ricchi, debbono sottoscrivere. Il mondo visto dal di dentro è molto meglio del mondo visto dal di fuori, altrimenti non si potrebbe immaginare come è possibile che 130 paesi si siano trovati d’accordo su 27.000 pagine di regole. Questo è possibile soltanto perché nel mondo le forze che costruiscono sono ancora maggiori delle forze che cercano di distruggere.

Il futuro è già cominciato. Oggi per la prima volta nella storia dell’uomo abbiamo un enorme numero di mezzi a nostra disposizione per battere i grandi flagelli che ancora devastano l’economia del mondo: la povertà, la miseria, l’ignoranza, la malattia. Non ci si rende conto pienamente di che cosa sia il progresso tecnologico che noi stiamo vivendo: fra un anno sarà possibile avere un telefono in ogni villaggio, il che può significare per tanta gente la differenza tra la vita e la morte, tra la salute e la malattia. Uno dei nostri obiettivi è l’uguale accesso a tutti i popoli della terra dell’informazione e della conoscenza, che saranno le grandi materie prime del prossimo secolo, e che avranno la caratteristica di non essere limitate, come è invece limitato il capitale, la terra, gli altri strumenti di produzione. Se ci riusciremo o meno dipenderà dall’uomo, non dal mercato: dobbiamo batterci perché questo sia possibile, perché si possano cambiare le condizioni degli esseri umani.

Stiamo creando - non noi organizzazione, noi uomini - la società umana, stiamo creando gli strumenti per poter fare dell’uomo il centro e non l’oggetto dell’economia.

 

 

Bonino: Come è stato appena detto, l’economia di mercato in tutte le sue evidenti imperfezioni è il sistema economico più adeguato o meno imperfetto che abbiamo visto nella storia, nel quale è possibile il protagonismo della persona umana - non uso la parola "uomo" ma "persona umana" non per un veterosessismo ma semplicemente per sentirmi anch’io coinvolta -. È il sistema più adeguato proprio perché è quello che più può consentire lo sviluppo della persona umana, che evidentemente è molto di più di un personaggio economico, perché ognuno di noi è molto di più del suo conto in banca. Sicuramente il conto in banca non è un elemento marginale, ma ognuno di noi ha passioni, emozioni, valori, ideali, desideri, che vanno al di là del conto in banca.

Il mercato, essendo uno strumento neutro, da solo non ci può risolvere, o darci indicazioni per risolvere o affrontare tutte queste nostre parti di noi che sono al di là dell’uomo economico. Il problema non è se il mercato si occupa della persona umana, il problema è se noi tutti ci occupiamo del mercato, e dunque di porre le regole, i limiti del mercato, non i protezionismi. Oggi vi è una sorta di effetto moda nel nostro paese, per il quale tutti parlano di globalizzazione dell’industria, di televisione, di turismo, di gastronomia e di mercato... Anche chi di mercato capisce molto poco, o chi nella sua storia ha fatto di tutto per combattere una logica di mercato, improvvisamente si è riconvertito. Ma resta il fatto che nel nostro paese di mercato ce n’è poco, come sanno i ministri del commercio estero che ogni giorno devono lottare per aprire alcune fette di libertà economiche.

Siamo diventati un paese in cui i fautori del mercato più convinti sono proprio quelli che operano molto poco per aprire questo mercato ogni giorno. Ma ciò di cui il mercato fa piazza pulita sono le rendite di posizione: spesso alcuni signori depositari di rendite di posizione si definiscono fautori delle regole di mercato, purché non si applichino a loro stessi e alla loro impresa. Sicché viviamo in uno strano paese, in cui la piccola e media impresa non gode di situazioni di mercato facilitanti: chiunque abbia una piccola e media impresa e si arrischia ad andare a chiedere dei soldi in banca, deve essere plurimilionario, altrimenti non gli fa credito nessuno; se invece si tratta di una grande impresa, parapubblica e piena di debiti, non c’è neanche il problema di chiedere il prestito, perché gli viene dato a forza e per obbligazioni.

Vi sono due problemi sui quali bisogna lavorare per migliorare l’economia del mercato. Anzitutto, il mercato non è la legge della giungla, il mercato è un sistema che ha delle regole, dei limiti: non a caso esiste la clausola sociale, per esempio nei rapporti economici internazionali, che è stata posta come limite.

La partecipazione della persona umana a queste regole - ed è il secondo problema -, che sono stabilite consensualmente dai governi, rappresentanti di democrazia delegata, regole indivisibili sotto ogni latitudine e sotto ogni regime politico, deve diventare parte integrante dell’economia di mercato. Non si possono contrapporre i diritti umani al mercato: le regole del mercato devono invece tenere presente ed in parallelo il rispetto di alcuni elementi base dei diritti umani e della persona umana.

È necessario, alla soglia degli anni 2000, un nuovo umanesimo nella politica e nel modello di mercato. Dobbiamo porre un’etica del mercato se riteniamo che ne valga la pena. Questo perché l’economia di mercato è il sistema meno peggiore, e il sistema che meglio può tenere conto delle libertà e delle responsabilità di ciascuno di noi: le libertà umane, civili, politiche, economiche. Anche negli accordi e nei rapporti internazionali c’è bisogno di un umanesimo e di valori inseriti nella logica di mercato.

 

 

Formigoni: Come questi due interventi hanno ben focalizzato, il mondo sta cambiando, e sta cambiando ad una velocità pazzesca: ormai nessun problema può essere guardato e giudicato con l’ideologia di vent’anni fa. Oggi la realtà è estremamente più veloce di qualunque tentativo del cervello umano di capirla a priori: la realtà sfugge da tutte le parti e giustamente punisce la presunzione di qualunque uomo o di qualunque sistema politico che voglia mettere davanti alla realtà il proprio schema o la propria volontà di potere.

Soltanto negli ultimi trentacinque anni, quindi dal 1962 ad oggi, la speranza di vita nei paesi in via di sviluppo è cresciuta di quasi la metà, la mortalità infantile si è dimezzata, la popolazione mondiale è passata da quattro a quasi sei miliardi di abitanti, e nello stesso tempo la disponibilità alimentare e la produzione di cibo pro capite è aumentata del 20%. A partire dal 1993, il totale degli investimenti diretti nel terzo mondo ha superato quello degli aiuti allo sviluppo, e lo scorso anno ha superato il totale degli interessi passivi del debito estero pagati annualmente dai paesi del terzo mondo. Secondo le previsioni dell’OCSE da qui al 2020 il reddito pro capite nei paesi industrializzati crescerà dell’80%, ma nei paesi in via di sviluppo aumenterà del 270%. L’Organizzazione presieduta da Ruggiero sta esaminando in questo momento la domanda di adesione di 27 nuovi paesi in via di sviluppo e ad economia in transizione che stanno negoziando il loro ingresso all’interno di questa Organizzazione: è un salto in avanti, dal punto di vista culturale, straordinario, perché viene superata la logica dell’emergenza. Queste nuove popolazioni hanno chiaro di voler entrare a far parte, con pari dignità e pari diritti, delle organizzazioni internazionali.

È chiaro che di fronte ad un mutamento così rapido delle cose, si richiede, da parte del vecchio continente, da parte di coloro che a torto o a ragione si ritengono i depositari della cultura e dello sviluppo delle civiltà più importanti del mondo - gli europei e gli italiani - un mutamento di posizione e di iniziativa, una presa di posizione sul versante culturale, sociale e politico. Di fronte a questo mutamento occorre attrezzare i mercati europei, il sistema di produzione, superando antichi pregiudizi, antichi luoghi comuni e cogliendo le opportunità nuove, date dal protagonismo delle popolazioni in aree sino a ieri tagliate fuori dalla concorrenza. Si tratta di superare il luogo comune secondo il quale l’apertura dei mercati europei alle produzioni del terzo mondo, produrrebbe nocumento e distruzione di posti di lavoro in Europa, progressivo aumento della povertà economica.

Evidentemente non è così: si tratta invece di capire che una nuova distribuzione mondiale del lavoro va fatta, vanno dismesse antiche produzioni in Europa e vanno incentivate le ricerche per creare nuovi prodotti a tecnologia più avanzata, con più alto intervento di materia cerebrale, di capacità scientifica, per permettere che queste produzioni vengano fatte nei paesi del terzo mondo. È la battaglia dell’informatica: la guerra alla povertà sarà vinta di pari passo con l’introduzione delle reti telematiche, delle reti di informazioni, dei know how che sono destinati ad innalzare l’efficienza e la qualità della produzione.

Il sistema di produzione che garantisce insieme l’aumento di ricchezza più importante e il protagonismo sociale più significativo, non va bene soltanto in Europa, ma va esportato nel terzo mondo: si tratta della piccola e media impresa. Occorre superare, a livello mondiale, la concezione di coloro che credono che lo sviluppo sia legato soltanto ai massicci investimenti, alle fonti di produzione di alta concentrazione di capitale. Lo sviluppo della piccola e media impresa permetterà anche al Terzo mondo di diventare protagonista. Chi teme l’inquinamento e il degrado ambientale dal diffondersi della produzione industriale del terzo mondo, dovrebbe ricordare che producono più inquinamento e degrado ambientale la povertà e il dirigismo economico che non la diffusione dell’impresa, come dimostrano la desertificazione di vaste zone dell’Africa e gli alti tassi di inquinamento industriale dei paesi dell’Est europeo.

Di fronte a questo che cosa stiamo facendo, noi, i depositari della più antica e consolidata civiltà e cultura mondiale? Vorrei in particolare esaminare la posizione dell’Italia.

In questa situazione di rapida trasformazione nel mondo, l’Italia è oggi - è certamente doloroso dirlo, ma è così - del tutto assente: il nostro paese ha abbandonato anche soltanto il tentativo di essere protagonista sullo scenario internazionale. È il vergognoso capitolo, ad esempio, della chiusura della partecipazione italiana alla cooperazione internazionale, partecipazione nella quale sicuramente ci sono stati degli abusi e degli sperperi di denaro, ma questo dato negativo non può cancellare il fatto positivo di un aiuto ai paesi del terzo mondo. È un fatto gravissimo, è un errore che pagheremo molto caro, è un errore dal punto di vista culturale, politico e economico. Dal punto di vista culturale perché si lascia credere alla nostra gente - purtroppo soprattutto ai giovani - che un paese possa vivere da solo, chiuso all’interno delle proprie frontiere o guardando soltanto al proprio immediato tornaconto. Oggi la nostra politica estera non ha un respiro culturale, e questo non è un attacco al Ministero degli Affari Esteri e a colui che oggi lo detiene, ma alla politica del governo italiano e a colui che la presiede e che ha il compito di coordinarla. Non c’è respiro culturale nella nostra politica estera né respiro politico perché attraverso una politica di cooperazione si influisce sullo sviluppo dei paesi che si vanno ad aiutare.

C’è anche una miopia dal punto di vista economico. La politica di cooperazione è uno dei modi possibili attraverso i quali si promuove all’estero nei paesi in via di sviluppo l’impresa italiana, piccola e media. Una volta di più penalizza la piccola e media impresa italiana che è il vero perseguitato nella politica economica e bancaria del governo italiano. L’esame di coscienza va fatto a diversi livelli; c’è per esempio un articolo della legislazione italiana che permette alle regioni una loro limitata politica di cooperazione. Purtroppo quasi nessuna delle regioni italiane lo sta utilizzando: laddove alcune regioni sono riuscite ad utilizzarlo - non solo la regione da me presieduta -, si è trovato contro prima l’indifferenza, poi l’ostilità di chi teme forse che le regioni italiane attraverso l’aiuto di organizzazioni di volontariato internazionali residenti nel loro territorio ed operanti all’estero vogliano farsi belle ricevendo qualche re o qualche imperatore di un sopravvissuto regno africano.

Vorrei che il mio contributo in questo dibattito andasse in questa direzione: che dal Meeting di Rimini insieme ai messaggi di straordinario rilievo che si sono levati in questi giorni si aggiungesse anche questa riflessione profonda, lo spunto perché anche nel campo internazionale si avvii una critica, una riflessione, un esame di coscienza sulle occasioni mancate dal nostro paese, nel quale la politica si occupa solo di false privatizzazioni.