Mercoledì 27 Agosto, ore 17

PER UNA COMUNICAZIONE DI PACE TRA I POPOLI DEL MEDIO ORIENTE

Partecipano:

Giulio Andreotti,

Ministro per gli Affari Esteri Italiani

Elias Freij,

Sindaco di Betlemme

Boutros Ghali,

Segretario di Stato agli Affari Esteri Egiziano

Xavier Ruperez,

Presidente della Democrazia Cristiana spagnola.

Conduce l'incontro:

Roberto Formigoni.

All'interno di un Meeting dedicato alla comunicazione, non poteva mancare un incontro sul tema, affascinante e delicato, della comunicazione tra i popoli nell'area del Mediterraneo, oggetto delle preoccupazioni e delle attese di tutti coloro che nel mondo desiderano la pace. La tavola rotonda intende proseguire idealmente il lavoro, iniziato durante il Meeting dello scorso anno, sull'Europa, la sua integrazione, la sua unità. Non c'è contrapposizione tra l'immagine di un'Europa unita e la costruzione di un'unità che tocchi le rive del Mediterraneo, il mare destinato alla pace e alla collaborazione tra i popoli. Intervengono il Ministro per gli Affari Esteri italiani Giulio Andreotti, il Sindaco di Betlemme Elias Freij, il Segretario di Stato agli Affari Esteri egiziano Boutros Ghali, il Presidente della Democrazia Cristiana spagnola Xavier Ruperez. Durante la tavola rotonda ha luogo un collegamento via satellite realizzato grazie alla collaborazione di SIP, ITALCABLE, TELESPAZIO tra l'Auditorium del Meeting e la Sala Hilton di Washington, dove sono presenti due illustri ospiti americani, il professor Frank Coppa della Saint John University di New York e il professor William Quandt della Brookings Institution di Washington.

G. Andreotti:

Perché ci occupiamo del Mediterraneo e come? Ce ne occupiamo perché il Mediterraneo è un elemento vitale di tutta la situazione, non solo europea, ma mondiale. E’ il grande collegamento fra l'Oceano Indiano e l'Oceano Atlantico, unisce tre continenti, popoli e civiltà di religioni diverse e ha la caratteristica di avere una sola entrata e una sola uscita. Certamente, se noi guardiamo i problemi del Mediterraneo, c'è da farsi drizzare i capelli, a cominciare da Gibilterra: situazioni non facili di carattere economico in molti Paesi (la Tunisia, l'Algeria, l'Egitto), problemi che sembrano di attualità, ma lo sono da tanto tempo (le difficoltà di Cipro), problemi con una fisionomia particolare e inquietante a causa della nostalgia per una fisionomia diversa (i problemi nei quali si dibatte il Libano), la difficoltà di far convivere in un rinnovato patto di coesistenza israeliti e palestinesi, in generale il rapporto tra il mondo arabo e il mondo del giudaismo. Vi è anche una serie di altri Paesi, che pure dobbiamo considerare, Jugoslavia, Albania. Ognuno ha i suoi problemi! Dobbiamo cercare di dare due risposte: quella ad una concezione sbagliata e qualche volta posta solo per ragioni di piccola polemica indiretta, cioè se c'è un contrasto (mi riferisco per un attimo alla posizione del nostro Paese) tra politica mediterranea, l'attenzione verso questo grande mare interno nel quale noi siamo collocati, e il nostro ancoraggio nei confronti del mondo occidentale. Si è voluto qualche volta mettere un accento, quasi che fosse una vocazione alternativa; mentre così non è. Vorrei dire a chi ritiene che questo sia un modo di fare piccola politica, rispetto alla grande politica che altri sarebbero in grado di concepire, che nel dopoguerra, quando si cercava di costruire qualcosa di nuovo per impedire una terza guerra mondiale, per coordinare gli sforzi dei Paesi europei, vi era un certo tentativo di tenere isolata l'Italia. E in quella fase l'ambasciatore Quaroni, trovandosi di fronte un ministro francese che pur comprensivo, però cercava di prendere le distanze, disse (e lo cito da una sua relazione ufficiale): "State attenti, perché potremmo scegliere delle altre strade, su cui pure gli Stati Uniti ci invitano a riflettere"; e parlò - mi riferisco al 1948 - della possibilità di un "Patto Mediterraneo" fra Italia, Grecia, Turchia e Stati Arabi, per dare un certo equilibrio, e per far sì che le novità dell'Africa Occidentale, cioè la creazione di nuovi Stati, non coincidessero con una presa di distanza dall'Europa, ma attraverso l'Italia potessero avere un coordinamento ed un collegamento (…). Da allora questo discorso è divenuto più volte d'attualità, ma in una posizione complementare, quella che è la nostra naturale vocazione occidentale che poi fa in modo che si sia allargato quel concetto di Occidente, in una visione di difesa congiunta della pace, anche a due paesi di oltreoceano, Stati Uniti e Canada. Noi dobbiamo guardare più in profondità, e sentire che c'è qualche cosa che possiamo affrontare anche come cristiani, una premessa per i problemi politici. Chi crede che la politica sia una tecnica, un'arte diplomatica, sbaglia: o affonda su delle idealità, e allora ha una prospettiva, o si illude di poter affrontare e risolvere le questioni. E a me sembra molto bello che siamo qui, oggi, in questa tavola rotonda, con esperienze e posizioni diverse, il Ministro degli Esteri dell'Egitto, cristiano copto, il Senatore Ruperez, cattolico, e il Sindaco di Betlemme, cristiano arabo: siamo dei cristiani che cercano umilmente di dire una parola per risolvere quei problemi che, senza questa spinta di carattere ideale, non hanno possibilità di essere risolti. Io ho ricordato stamane, parlando coi giornalisti, che sono - e fanno bene - attentissimi a sapere cosa pensa il Papa del diavolo, che c'è stato qualche mese fa un discorso del Papa a Casablanca, durante la sua visita in Marocco, che però forse non faceva notizia, nel quale invitava a superare il fatto di considerarsi cristiani e musulmani, fedeli o infedeli, e a cercare insieme le vie per trovare, attraverso la ripresa, e qualche volta la costruzione di un dialogo, per mezzo di questa comune forma di appello a qualche cosa che ci unisce, la possibilità di superare quello che sul piano politico, e spesso anche sul piano degli interessi, ci divide. Io credo che sia necessario porre il problema del Mediterraneo anche in questo senso: non è un problema solo, e tanto, militare, mercantile, diplomatico, politico; è il problema di saper raccogliere una aspirazione, che non può che essere comune a tutte le popolazioni che sul Mediterraneo si affacciano, e in particolare ai giovani. Noi oggi cercheremo di dare questo piccolo contributo, con grande umiltà, ma anche con grande consapevolezza per far sì che veramente il Mediterraneo sia un mare di pace.

E. Freij:

Spero che mai nessuno debba vivere sotto un'occupazione, e che l'occupazione del mio Paese sia l'ultima nel corso della storia. Ogni occupazione è crudele, difficile e dura, in particolare per i giovani. Nella regione di Betlemme abbiamo 31.000 studenti, che sono i cervelli, la mente, il futuro del nostro popolo, ed essi non sono liberi. Qualunque movimento viene controllato e soppresso. Nelle Università, anche in quelle patrocinate dal Vaticano, incontriamo molte difficoltà. Ma questo è stato il nostro destino: per secoli siamo sempre vissuti sotto un'occupazione, anche se siamo uno dei veri genuini membri della famiglia delle nazioni mediterranee, e i nostri popoli hanno contribuito in molti modi alla civilizzazione di queste zone. Per delle ragioni che sono al di là del nostro controllo, siamo stati perseguitati, siamo stati soppressi, abbiamo sofferto, e adesso i nostri popoli vivono in condizioni di occupazione da quasi vent'anni (…). Vogliamo che ci sia data la possibilità di vivere in pace, da soli, nella sicurezza, nella libertà completa; vogliamo poter godere di questa libertà. Voglio che sappiate ancora una cosa: questi 31.000 studenti della regione di Betlemme non hanno nessuna possibilità di fare dello sport, non vi sono strutture per questo. Perché noi non paghiamo le tasse per migliorare la qualità del servizio e della vita, ma per pagare l'occupazione militare. Vorrei lanciare un appello a tutte le nazioni del Mediterraneo: aiutate il popolo palestinese a trovare una soluzione pacifica!. E noi accetteremo di incontrarci in pace con lo Stato di Israele, e con il popolo di Israele. Questo purché Israele si ritiri da tutti i territori occupati. Se Israele accetta di negoziare con la Giordania, con la Palestina, con le delegazioni unite e miste, sulla base di un territorio e di uno studio di pace, siamo pronti ad iniziare (…). L'occupazione israeliana è diversa dalle altre: hanno preso più del 50% della terra, hanno costruito circa 150 città e insediamenti ebrei nelle zone occupate, ogni insediamento è praticamente come un chiodo infisso nella bara della pace. Voglio che sappiate che il nostro popolo soffre la fame, che i servizi nel nostro Paese, quello sanitario, l'educazione, sono in condizioni veramente pessime. Lo Stato ha chiuso un ospedale cattolico a Betlemme nel 1984, e non abbiamo più nessun ospedale, né altri tipi di servizi sanitari. Nella maggior parte della città, la situazione è molto simile a questa. Adesso dovrei parlarvi dei nostri rapporti con l'OLP e con la Giordania. L'OLP rappresenta il nostro rappresentante ufficiale, e noi sosteniamo l'accordo che Arafat ha firmato con re Hussein l'11 Febbraio 1985; adesso c'è una grave incomprensione fra queste due persone, nociva per i nostri interessi. Noi speriamo che i nostri fratelli egizi continueranno a fare gli sforzi che stanno facendo attualmente per una riconciliazione. Tuttavia io penso che la sola chiave che potrà realmente aprire la porta alla comprensione è che l'OLP accetti la risoluzione 242338 del Consiglio di Sicurezza, e offra di riconoscere il diritto di Israele ad esistere. Se Arafat accetterà questo, per il bene della nazione palestinese, sarà veramente colui che creerà la pace. Il nostro popolo nelle zone occupate ha raggiunto una conclusione: non vi sarà mai una soluzione militare al nostro conflitto con Israele, il solo modo per poter porre termine a questo conflitto sarà ed è attraverso una pace, preceduta da negoziati. Ma molti altri Paesi, inclusi gli Stati Uniti, non si comportano in modo giusto verso i Palestinesi: abbiamo parlato con gli americani, abbiamo chiesto loro di aiutarci a sostenere il diritto dei nostro popolo alla autodeterminazione, un diritto sacro (…).

B. Ghali:

Vorrei assicurare il sindaco Freij qui presente del totale appoggio della popolazione e della diplomazia egiziana. Noi in Egitto vogliamo una pace globale, permanente, una pace che tenga conto del diritto all'autodeterminazione del popolo palestinese. Senza una giusta soluzione del problema palestinese, non ci sarà pace duratura nel Medio Oriente. Dato che parliamo del Sud, del Mediterraneo, uno dei più gravi problemi che minacciano l'avvenire, la sicurezza, la stabilità del bacino mediterraneo è il problema palestinese. L'idea è semplice: la terra in cambio della pace. I palestinesi sono pronti a vivere in pace con gli israeliani, in cambio della loro terra; ma se la terra verrà assorbita, se - come il sindaco Freij ha detto - il 50% delle terre sono state già confiscate, non ci potranno più essere i termini dello scambio, non si potrà offrire nulla per la pace, e non ci sarà pace. E se non c'è pace in questa parte del mondo, anche la sicurezza delle sponde Nord del Mediterraneo è in pericolo. Dicendo ciò, vorrei tornare alla vocazione mediterranea dell'Egitto: l'Egitto, infatti, è un Paese arabo, africano, musulmano, non allineato, ma è anche un Paese mediterraneo. E appunto perché l'Egitto è mediterraneo, al centro di tre continenti, è Paese di dialogo, dialogo tra civiltà, dialogo tra religioni. In Egitto c'è una maggioranza musulmana, e accanto una minoranza cristiana: ambedue coesistono, vivono come fratelli da 15-16 secoli. Questa coesistenza noi vogliamo allargarla a tutto il mondo mediterraneo; e questo presuppone un dialogo tra Nord e Sud, nella cornice dei rapporti tra Nord, ricco, industriale, sviluppato, e Sud, povero e in via di sviluppo (…). Oltre al problema economico, abbiamo un problema di ecologia: l'inquinamento del Mediterraneo che lambisce le nostre sponde, che raggiunge i nostri porti, e che rischia addirittura di sconvolgere la qualità di vita delle popolazioni che vivono attorno ad esso, necessita di una cooperazione tra i vari Paesi rivieraschi del Mediterraneo. Terzo problema, instabilità del Mediterraneo, diventato una vera e propria polveriera, il luogo dove le due superpotenze con le loro rispettive flotte, si fronteggiano direttamente e indirettamente. Dovremmo trovare formule per fare del Mediterraneo una zona di pace, di stabilità, di dialogo.

G. Andreotti

(…) Se si è alla ricerca di soluzioni, bisogna rendersi conto dei motivi di certi atteggiamenti. Nella sua storia lontana e recente (l'olocausto della seconda guerra mondiale), il popolo ebraico ha aumentato i motivi della propria diffidenza, è cresciuto il senso di sentirsi braccato, come è stato in molti Paesi, dove milioni di correligionari sono finiti nei campi di concentramento e nei forni di cremazione. Chi non tiene conto di questo stato d'animo manca di un elemento essenziale (…). Chi può dare sicurezza al popolo di Israele? (…) E necessario che qualcuno rompa questo cerchio di diffidenza... Può farlo l'ONU? Sarebbe il suo fine istituzionale, ma non ci illudiamo! In un problema, in un certo senso più facile, come quello della guerra Irak-Iran, ci si sono messi tutti, comprese le Nazioni Unite: sono già cinque anni, e la soluzione non si è ancora trovata. Ma se invece si vuole veramente, accanto alla creazione di una soluzione politica per il popolo palestinese, fare un grande sforzo di carattere internazionale perché questo popolo abbia una soddisfazione alle proprie istanze di vita e di sviluppo, questa può essere una strada nella quale lavorare. Io credo che noi dobbiamo recidere la mala pianta dell'odio, recidere questa tremenda pregiudiziale di una diffidenza reciproca, che impedisce agli uomini di parlare. Il tempo, ha detto il sindaco di Betlemme, lavora contro. Certamente, perché esaspera le condizioni di reazione. Non crea condizioni di soluzione, modifica anche l'equilibrio quantitativo delle popolazioni, e questo può portare a soluzioni che non si affidano più ad una mediazione di carattere internazionale. Io credo che ieri tutti abbiano sentito da un lato gioia e da un lato amarezza vedendo alla televisione la famiglia di Sciaranskj, che poteva finalmente riunirsi: gioia, per questa riunione familiare, ma amarezza perché la riunione di una famiglia è diventata un fatto di prima pagina, alla televisione e nel giornale di informazione! E questo ci deve far comprendere che è necessaria una grande carità, una grande vicinanza spirituale ad un popolo che ha vissuto e vive di questi drammi. Dobbiamo fare appello a coloro che hanno vissuto e pagato con la morte, con il proprio sangue, l'iniquità delle persecuzioni e delle discriminazioni... E’ giusto dire: "ebrei, il giorno che vi ritrovaste in una condizione di questo genere, noi saremo accanto a voi", ma è giusto anche dire: "comprendete che altri popoli, se si trovano in queste condizioni, hanno ancora, perché sono tutti figli di Dio, il diritto a vederle superare".

R. Formigoni:

Ministro Ghali, la preghiamo di intervenire ancora su due punti: il primo è la sua reazione alla posizione di Israele. Il secondo concerne una questione che desta molte preoccupazioni: le manovre congiunte tra la flotta degli Stati Uniti e quella del suo Paese al nord del golfo della Sirte. Sono preoccupazioni ragionevoli o possiamo stare tranquilli?

B. Ghali:

Ho ascoltato con molta attenzione le osservazioni del ministro Andreotti, nonché la sua analisi della sfiducia israeliana, di questa ossessione della sicurezza. Ho 9 anni di negoziati con gli israeliani alle spalle e mi chiedo se questa ansia di sicurezza non nasca dalle mire espansionistiche. Non dico che tutti gli israeliani le condividano, ma certamente fanno parte dei programmi politici di certi partiti israeliani. Se parliamo di sicurezza, perché non ricordare l'ossessione di sicurezza della Siria o del Libano? Bisogna anche tener conto della sicurezza degli stati vicini allo stato di Israele e c'è una unica soluzione: un trattato di pace che tenga conto del diritto all'autodeterminazione del popolo palestinese. Ora vorrei rispondere alla seconda domanda. L'Egitto è un paese non allineato: non prende posizione né a favore dell'est, né a favore dell'ovest, ma ha bisogno per la sua difesa nazionale di insegnare alle truppe, agli avieri, ai marinai, l'arte di utilizzare le armi a loro disposizione. Quindi abbiamo tenuto delle manovre terrestri con gli Stati Uniti e manovre navali con la Gran Bretagna. (…) Tengo ad assicurarvi che queste manovre non hanno nessun significato politico. Non rientra nelle intenzioni dell'Egitto di provocare qualsiasi Stato nemmeno se si tratta di un vicino che crea parecchi grattacapi a quasi tutti i paesi africani. Vorrei assicurarvi che la solidarietà che esiste tra il popolo Egiziano e i popoli vicini ci proibisce di pensare ad una qualsiasi forma di intervento.

X. Ruperez:

(…) La Spagna sta vivendo ora il decimo anno della sua vita democratica, una esperienza positiva quanto innovatrice anche dal punto di vista delle relazioni internazionali. La Spagna era un paese che per effetto della dittatura aveva una politica estera cieca, poco definita, isolata, isolazionistica, si era fatta una idea falsa del proprio ruolo nel mondo. Nei 40 anni di dittatura franchista la politica estera della Spagna, paese europeo, occidentale, culturalmente cristiano, era stata un prodigio di incapacità e di mancanza di solidarietà (…). Questo è il momento in cui la Spagna afferma la propria volontà di condividere con tutti i paesi europei e mediterranei, occidentali e democratici, una comune volontà di pace. Da questo punto di vista il riconoscimento dello stato di Israele ha presentato aspetti drammatici per evidenti ragioni (…). La Spagna risultava infedele alla sua stessa storia, alla sua considerazione di una comunità in cui il dialogo fra le tre grandi religioni era stato il segno decisivo, determinante della propria grandezza, negando questa parte del passato che la congiunge al popolo ebraico e rifiutando sistematicamente di riconoscere lo stato di Israele. Per noi stabilire relazioni diplomatiche con Israele è un fattore di pace, non un modo di riconoscere acquisizioni territoriali indebite; non significa l'abbandono di ciò che la Spagna considera un fattore necessario alla pace nel Mediterraneo, il riconoscimento dei diritti nazionali del popolo palestinese (…).

R. Formigoni:

Veniamo ora al collegamento con Washington dove ci attendono due ospiti illustri, il Prof. Frank Coppa della Saint John University di New York, dove tiene un corso sui problemi del Mediterraneo, e il Prof. William Quandt della Brookings Institution di Washington, dove è direttore dei programmi di studio di politica estera. Buona sera amici americani, vi abbiamo fatto ascoltare un'ora e un quarto di dibattito estremamente intenso e serrato e a questo punto vorremmo sentire la vostra voce. Io vorrei sottoporvi in particolare tre questioni sulle quali ci piacerebbe ascoltare il vostro parere. Prima domanda: si sente parlare spesso di un piano degli Stati Uniti a riguardo del Mediterraneo, alcuni giornali, in particolare il "Washington Post", hanno parlato in questi giorni di un nuovo piano statunitense economico e militare. Vorremmo sapere che cosa c'è di vero, qual è effettivamente il piano degli Stati Uniti per la pace nel Mediterraneo. Secondo: quali sono le nuove prospettive individuate dall'amministrazione Reagan? Terzo: ci piacerebbe conoscere la vostra reazione agli interventi che vi hanno preceduto.

W. Quandt:

(…) La preoccupazione principale dell'amministrazione Reagan oggi ha più a che fare con i rapporti con l'Unione Sovietica, il controllo della corsa agli armamenti e problemi economici internazionali. La situazione del Medio Oriente, che era per gli americani di altissima priorità nel passato, è diventata meno urgente per l'amministrazione di Reagan; non c'è, a Washington, un piano per la pace nel Medio Oriente. Questo non significa che gli Stati Uniti, in modo ufficiale, siano ostili a qualunque iniziativa o poco interessati alla pace nel Mediterraneo, ma non credo che l'amministrazione Reagan attribuisca sufficiente importanza, attualmente, alla situazione del Medio Oriente per intraprendere delle iniziative di enorme importanza (…). La divisione fra Israele e il mondo arabo rappresenta una rottura molto grande. Molto del terreno in Cisgiordania è già stato assorbito da Israele e di conseguenza la formula, "la terra per la pace" che ha funzionato così bene per l'Egitto e Israele come terreno di scambio e di contrattazione per la pace, non potrà, in questo caso, essere usata. Se l'iniziativa verrà da queste regioni, gli Stati Uniti cercheranno di sostenerla. Però sono molto più incorporati nella lotta contro la corsa alle armi nucleari e quindi non potranno dare loro stessi l'avvio ad una iniziativa. Da parte mia penso che gli Stati Uniti potrebbero avere un ruolo vitale nella soluzione del conflitto, ma non voglio darvi false speranze.

F. Coppa:

Ascoltando i vari relatori mi sono venute in mente due storie diverse. Una riguarda Pio IX. Quando Vittorio Emanuele disse che aveva occupato Roma, Pio IX rispose: "Non con le parole, ma con i fatti". Parliamo di autodeterminazione nazionale nelle regioni. Coloro di noi che sono interessati alla pace devono favorire questa possibilità. Nel Medio Oriente abbiamo il problema di due autodeterminazioni che provocano un conflitto di vastissime dimensioni. Abbiamo sentito che alcuni arabi sono disposti a discutere, a negoziare con Israele. Il problema comunque è che l'OLP è stato designato come unico rappresentante legittimo del popolo palestinese. E l'OLP oggi sembra molto poco disposto a riconoscere questo ruolo. Il problema è ulteriormente complicato dal fatto che vi è una grande rivalità fra gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica proprio in questa zona. Questo problema è esistito fino dal 1956: recentemente gli Stati Uniti si sono allineati ad Israele, probabilmente anche sulle posizioni degli Stati Arabi più moderati come l'Egitto. D'altra parte, l'Unione Sovietica, nel corso di questo periodo, ha preso una posizione ben diversa. Non sono dunque soltanto le due nazioni musulmane in conflitto, ma c'è anche il problema delle super potenze. In una tale congiuntura, nessuno di questi blocchi è realmente disposto a negoziare. Il mio collega ha ragione nel dire che non esiste nessuna iniziativa, a parte alcuni accordi come quello di Camp David, che ha già fornito una specie di anatomia per il futuro. Camp David è stato importante, se ne è parlato ma è un po' come quando Casanova si riferisce alle sue avventure. E’ molto difficile poter agire attualmente seguendo le condizioni stabilite nell'accordo di Camp David. L'iniziativa più recente non proviene dagli Stati Uniti, ma dall'Unione Sovietica. Ha già intrapreso dei passi cercando di avere degli incontri con Israele. Penso che la sua presenza nel Medio Oriente dovrà essere riconosciuta poiché è una realtà. Penso che lo schema che apparirà è l'unico possibile ed è quello che si svolgerà alla conferenza di Ginevra e forse sarà possibile arrivare ad un accordo. (…)

R. Formigoni:

Prof. Coppa, un'altra domanda. Abbiamo ascoltato prima la posizione molto chiara del governo egiziano a riguardo delle manovre navali in corso al nord del golfo della Sirte tra la flotta americana e la flotta egiziana. Lei ha qualche commento da fare?

F. Coppa:

Penso che non sia un segreto che l'amministrazione Reagan vorrebbe vedere sparire il regime di Gheddafi. Il punto è come il governo americano spera che ciò avvenga. Penso che non vi siano prove, oggi, che indichino che un'azione militare sia imminente ma certamente vi è in corso una guerra psicologica e non escludo una ripetizione degli eventi che si sono già prodotti nell'ultimo aprile, un attacco militare limitato delle forze militari americane contro la Libia. (…) Penso che la posizione americana per quanto riguarda la Libia a volte sia troppo semplicistica: ma riflette la percezione da parte dell'opinione pubblica americana, del terrorismo. Vi è stata una identificazione Libia - terrorismo (…) e quindi un'azione contro la Libia finisce per significare, per il popolo americano, lottare contro i problemi che stanno alla base del terrorismo e che riguardano l'intera regione.

R. Formigoni:

Sindaco, lei è universalmente ritenuto uno degli uomini ideali per una trattativa di pace, in grado di incontrare tutti coloro che contano, nello scacchiere del Mediterraneo. Qual è la sua reazione di fronte alle posizioni espresse dai nostri interlocutori di Washington e cosa chiede agli Stati Uniti che dovrebbero favorire una politica di pace?

E. Freij:

Gli Stati Uniti possono avere un ruolo estremamente costruttivo e decisivo in questo processo verso la pace. Sfortunatamente hanno assunto un atteggiamento passivo, in particolare dal maggio del 1983 (…). Penso che gli Stati Uniti, che hanno contribuito enormemente a costruire Israele, dovrebbero fare un poco più attenzione ai bisogni del popolo palestinese. Noi palestinesi vorremmo poter stabilire i migliori rapporti con l'America. Il presidente Reagan, nel settembre dell'82, ha annunciato un piano di pace: tre ore dopo il suo annuncio Israele lo ha rifiutato. Da allora gli americani hanno semplicemente detto che il piano di Reagan è da prendere o da rifiutare: questo non è il modo giusto di negoziare. (…)

La sicurezza dello stato di Israele è qualcosa che si realizzerà soltanto quando i palestinesi e gli israeliani avranno sepolto il loro odio, le loro differenze e i loro conflitti, dando l'avvio ad una vita nuova in cui un bambino arabo e un bambino ebreo potranno giocare insieme, senza avere paura uno dell'altro.

B. Ghali:

Sono perfettamente d'accordo con l'amico Quandt che si trova dall'altra parte dell'Atlantico. Gli Stati Uniti hanno altre priorità rispetto al problema della Palestina. Allora la Comunità Europea può e deve avere un ruolo. Se esiste una nuova forma per trovare la pace in Palestina deve provenire dall'Europa dei dodici, dalla Comunità Europea, dall'Italia che è così vicina al mondo arabo. La seconda osservazione riguarda il ruolo dell'URSS. Siamo a favore di un ruolo più attivo da parte dell'URSS, sappiamo benissimo che la crisi del Medio Oriente ha una dimensione di guerra fredda e non c'è alcuna soluzione ai problemi internazionali, se non con l'accordo tra le due superpotenze. (…) Siamo a favore di qualsiasi azione diplomatica sovietica. Come ha detto il Sindaco Freij, "il tempo non è a nostro favore". Ogni giorno che passa la soluzione del problema è più difficile, si accentua la degradazione della popolazione palestinese, che subisce ed ha subito 20 anni di occupazione militare. Ogni giorno che passa senza soluzione mette in pericolo la pace, ed abbiamo bisogno della pace per il nostro sviluppo, per potere iniziare un dialogo alla pari tra le rive sud e le sponde nord del Mediterraneo.

X. Ruperez:

Penso che l'Europa debba ricostituire l'identità mediterranea, recuperare il "mare nostrum" divenuto il mare delle grandi potenze. Io credo che dall'Europa occorra suscitare una riflessione che fino adesso non c'è stata sulla realtà mediterranea, credo che con l'entrata della Spagna e del Portogallo e, prima, della Grecia, con la presenza dell'Italia e della Francia, le realtà del Mediterraneo siano molto più importanti adesso di quanto non lo fossero prima nella Comunità Economica Europea. (…) Occorre anche trovare una voce europea, nella Conferenza per la sicurezza e la cooperazione in Europa, ed io vorrei invitare il Ministro Andreotti e gli altri ministri degli Affari Esteri della Comunità Economica Europea, affinché, nell'incontro di Vienna di questo autunno, si impieghino tutte le risorse possibili per favorire nelle sedi dei paesi arabi ed in Israele le possibilità e la ricerca di una soluzione. Si può e si deve offrire una ragionevole soluzione.

R. Formigoni:

E’ stato ricordato che la fede religiosa di tutti noi presenti dietro a questo tavolo è la stessa: siamo cristiani. E’ stato ricordato che il Mediterraneo è la culla delle tre religioni monoteistiche, che può diventare lago di pace innanzitutto riscoprendo il dialogo tra ebraismo, cristianesimo, Islam.

Questo essere cristiani, che contributo dà alla vostra azione politica, che orizzonte dà ai vostri sforzi e al vostro impegno? E infine, che cosa volete dire come messaggio conclusivo al popolo di questo Meeting?

X. Ruperez:

La vocazione cristiana applicata alla politica ha molto a che vedere con tutto quello che abbiamo detto, è una vocazione di servizio, a favore della pace. L'ho già detto, uno dei migliori momenti della storia spagnola fu quello in cui, un paese che non aveva mai rinunciato a un proposito fondamentalmente cristiano, fu capace di coordinare comunità che appartenevano a fedi religiose diverse, culturalmente, spiritualmente, politicamente: questo è per me il migliore ricordo, il migliore obiettivo, la migliore realizzazione politica.

E. Freij:

Il messaggio di Betlemme per duemila anni è stato ed è ancora lo stesso: "Gloria a Dio nell'alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà": Questo rimarrà il nostro messaggio.

B. Ghali:

Essere cristiani nelle terre dell'Islam, significa impegnare un dialogo costante tra l'Islam e la cristianità: vogliamo allargare questo dialogo dall'area territoriale egiziana fino all'intero bacino mediterraneo, perché questo dialogo costituisca l'elemento spirituale più importante per rafforzare una migliore comprensione tra le sponde povere e le sponde ricche del Mediterraneo, per creare questa famiglia spirituale che darà alla pace una nuova realtà.

G. Andreotti:

Vorrei dire che mi ha un po' rattristato sentire che si riconosce, da parte di uno dei più grandi esperti statunitensi, che questo problema palestinese è sceso in una posizione non prioritaria nella preoccupazione del governo statunitense. Amici americani, è un grave errore (…). La pace e l'equilibrio, anche fra le due grandi potenze, sono fatti unitari, e se rimane una cancrena, presto o tardi avvelena e rende assolutamente inservibile tutto il corpo sociale internazionale. Quando vi fu l'accordo che noi seguimmo con emozione (chi non ricorda quel mattino del discorso di Sadat al parlamento israeliano?), dinanzi alla reazione che cercò di isolare l'Egitto, noi, e non era molto comodo, accettammo l'invito di Carter e di Sadat, e andammo, insieme a Forlani, a Tripoli, a Baghdad, a dire "vi sbagliate voi, fronte dei rifiuto…". Vorrei pregare voi, consulenti ufficiali o ufficiosi del governo; non togliete questo problema dalle priorità. (…) Con tutta la buona volontà, non saremmo sufficienti, noi come Comunità Europea, a risolvere il problema del Medio Oriente. L'Unione Sovietica deve essere corresponsabilizzata nella soluzione di questi problemi, ma dare una posizione di primo piano all'Unione Sovietica, mentre gli altri non considerano prioritario il problema, sarebbe veramente un errore enorme. (…) Stiamo attenti a non perdere fiducia nell'azione politica, nell'azione di convincimento e a ritenere che, attraverso azioni militari, possano essere risolti questi problemi. Non vorrei confondere il sacro e il profano, ma fra le varie parabole ce n'è una molto bella, quella che riguarda l'erba zizzania che nasce insieme al grano. Anche lì, quelli più bravi nelle soluzioni rapide, gli zelanti, dicevano "buttiamo via tutto, così questa erbaccia viene via", ma il Signore dice "un momento, portando via l'erbaccia voi rischiate di portare via anche il grano". Noi dobbiamo credere veramente all'unità dei popoli del Mediterraneo, Formigoni ci ha chiesto di dire che cosa pensiamo come cristiani. Questa domanda fa venire il cuore in gola, perché ognuno di noi sente quasi il pudore di potersi dire cristiano. Paolo VI disse una frase stupenda: "Anche noi abbiamo un umanesimo". E’ su questa base che noi dobbiamo lavorare, ognuno facendo quel poco o molto che può essere fatto, con una grande fiducia nella possibilità di rimuovere le diffidenze. Mentre parlava il Sindaco di Betlemme, mi venivano in mente certi telegrammi di La Pira che lì per lì sembravano quasi fuori tema. Se c'era da risolvere un problema materiale, La Pira cominciava a dire quale era il Santo del giorno, citando due o tre versetti dell'Antico Testamento, ecc. In molti di quei telegrammi, ricorreva questa frase: "La nostra luce viene da Betlemme". Caro sindaco, lei oggi ci ha dato una grande gioia, ci ha portato questa luce: che Dio ci aiuti a metterla al servizio dei problemi del Mediterraneo.

R. Formigoni:

(…) L'amico Giulio Andreotti è venuto qui oggi portando a noi un grande regalo: il riconoscimento del "Meeting per l'amicizia fra i popoli" come Fondazione Internazionale, una cosa molto importante per il futuro del Meeting. Anche di questo lo ringraziamo.