Vent’anni di pontificato di Giovanni Paolo II

 

 

Venerdì 28, ore 16.30

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Relatori:

Stanislaw Grygiel, Direttore de "Il Nuovo Areopago"

S. Ecc. Mons. Carlo Caffarra, Arcivescovo di Ferrara

S. Ecc. Mons. Stanislaw Rylko, Segretario del Pontificio Consiglio per i Laici

Moderatore:

Guzmàn Carriquiry

 

Carriquiry: Il Meeting per l’amicizia tra i popoli anticipa con quest’incontro la celebrazione del ventesimo anniversario di pontificato di Giovanni Paolo II del prossimo 16 ottobre 1998. Ogni edizione del Meeting è stata inaugurata, sostenuta, guidata e incoraggiata da un rispettivo messaggio di Sua Santità Giovanni Paolo II, pontefice che ha anche visitato il Meeting nell’edizione del 1982, momento culminante di riferimento nella storia dei già quasi vent’anni del Meeting. Il Meeting dunque non poteva mancare a questo appuntamento.

Questo incontro è segno di omaggio, di fedeltà e di gratitudine e allo stesso tempo momento di approfondimento di questi primi venti anni di pontificato e della sua impressionante semina evangelica nella vita delle persone, delle famiglie, dei popoli, richiamando a una rifondazione radicale dell’esperienza cristiana, al dono dell’unità nella sacramentalità della Chiesa, alla custodia della proposta di tutta la verità affidata dalla grande tradizione della Chiesa. Questo richiamo va dalla testimonianza apostolica all’impeto missionario di quell’ "aprite le porte a Cristo nel cuore dell’uomo" nella vita delle nazioni, ed è vissuta nella concretezza delle trasformazioni impressionanti alle quali assistiamo all’alba del terzo millennio. Tutto questo alla luce dell’avvenimento vissuto il 30 maggio scorso: molti presenti portano negli occhi e nel cuore l’immagine di monsignor Luigi Giussani inginocchiato davanti al pastore universale della Chiesa con un mirabile popolo che riempiva piazza san Pietro e via della Conciliazione, segno carnale di quella coessenzialità tra istituzione e carisma che fonda la Chiesa e che continuamente la rinnova.

Grygiel: La grandezza del lavoro pastorale di Giovanni Paolo II consiste nel cercare la verità e il bene nell’altro uomo e nel condurlo alla sorgente dalla quale ogni verità e ogni bene scaturiscono per tutti gli uomini, indipendentemente dalla loro fede e dalle loro convinzioni. Convertendosi alla verità e al bene nei quali l’amore di Dio si rivela a ogni uomo, Giovanni Paolo II ricorda a tutti in quale direzione bisogna andare perché la vita abbia un senso. Ogni suo pellegrinaggio è un grido: guardatevi alla luce del divino principio e della divina fine, e vedrete come ognuno di voi è un grande dono per se stesso e per gli altri.

Gli uomini che dormono non si convertono, trattenuti dai loro sogni non conoscono il mondo reale, e di conseguenza non conoscono e non amano gli uomini reali, perché non sono presenti per loro. Gli uomini, sottomettendosi ai fantasmi sognati secondo la concupiscenza della carne e degli occhi e secondo la superbia della vita, non sono padroni di se stessi: la superbia e la spensieratezza decidono della nascita e della morte, dell’amore e del lavoro degli uomini addormentati. L’uomo però non trova la verità e il bene nelle amicizie, nei matrimoni, nelle famiglie, nelle nazioni dei quali decidono la concupiscenza e la superbia: egli può trovarli soltanto nelle alleanze con le altre persone, alleanze che non è possibile stringere nel mondo dei sogni. Per poter conoscere e amare ciò che è bisogna risvegliarsi e uscire dal comodo mondo delle cose sognate: soltanto gli uomini coscienti conoscono e amano, perché solo essi sono presenti agli esseri reali. Per poter conoscere e amare bisogna vegliare: l’uomo si converte alla realtà sulla quale veglia, dunque colui che coscientemente cerca la verità e il bene nell’uomo e si converte ad essi veglia su di lui. Nella sussistenza profetica dell’uomo, che è dono della verità personale e del bene personale Cristo veglierà nell’agonia fino alla fine del mondo: vegliare sull’uomo significa dirigersi con tutto se stesso a Christum Redentorem.

La presenza e il vegliare di Giovanni Paolo II, plasmati dall’amore domandato da Cristo e a Lui confessato tre volte, ricordano a tutti come è grande l’amore e la conoscenza che comprendono e abbracciano l’uomo dalla sua nascita fino alla sua morte: tra questi due estremi si espande il tempo durante il quale l’uomo non deve dormire. È il tempo della grazia (cairotico) nel quale cercare il principio e la fine, vale a dire il senso della vita.

Si potrebbe parlare a lungo di ciò che è successo durante i venti anni anni dell’attento servizio vescovile di Woytjla agli uomini affidati alla sua cura pastorale e successivamente durante i venti anni del suo lavoro pettrino. La sua presenza vescovile plasmata dall’amore e dal desiderio di rafforzare i suoi fratelli nella fede, ha lasciato un’impronta durevole nella vita spirituale, culturale e politica del popolo polacco: nessuno mette in dubbio che Giovanni Paolo II ha cambiato e continua a cambiare la vita dell’Europa e quella del mondo intero. Talvolta si parla addirittura della grande politica di Giovanni Paolo II: la grandezza della politica - se vogliamo servirci di questa parola - di Giovanni Paolo II consiste nel suo modo non politico di essere presente agli uomini concreti, cioè nel suo continuo convertirsi ad essi, che li richiama ad essere presenti l’uno all’altro. Convertendosi, Giovanni Paolo II conduce gli uomini fuori dal mondo dei sogni e li introduce nel mondo reale, dove ogni uomo chiama gli altri a meditare sulle sue ferite causate dal male.

Contrariamente al mondo dei sogni, nel mondo reale l’uomo è se stesso se diventa quello che deve essere: egli è come un chicco di grano che caduto in terra deve morire per non perdere la vita. Il chicco che pensa di aver ottenuto un successo riuscendo ad evitare la mano del seminatore o del mugnaio si priva della vittoria, infatti invece di portare il frutto centuplo in un’altra spiga oppure in un altro essere muore completamente. Ciò che dunque viene chiamato ‘politica’ di Giovanni Paolo II mira non ai successi dell’uomo che passano, ma a una durevole vittoria che lo raggiunga ogni giorno. Essa si delinea nei santi, che ci avvicinano alla comprensione della pienezza dell’umanità.

La mancanza dell’amore paralizza l’intelletto e la volontà dell’uomo perciò le parole di Cristo così spesso ripetute da Giovanni Paolo II, "non temete", sono addirittura una necessità antropologica: l’uomo che teme ciò che è cerca riparo nello sconsiderato sognare divertimenti di cui è piena la nostra civiltà. Il coraggio di Giovanni Paolo II deriva dal suo portare la propria croce dietro a Cristo; la parola incarnata di Dio inchiodata sulla croce e la tomba vuota sorprendono il mondo che vi passa accanto senza riflettere. Ma questa sorprendente verità dell’essere persona risveglia l’uomo, rianima la sua cultura e quindi anche quella parte del suo modo di essere che si chiama politica. Consapevole del mistero della croce come il mistico Giovanni e come Pietro, ai quali non la carne né il sangue ma il padre che sta nei cieli ha rivelato la verità del Verbo incarnato, Giovanni Paolo II mostra l’eucarestia, nella quale questo Verbo è mirabilmente presente. Proprio quando molti dicono "questo linguaggio è duro, chi può intenderlo", quando molti dei suoi discepoli si tirano indietro, Giovanni Paolo II non avendo paura di niente e di nessuno conduce gli uomini a Christum Redemtorem, ricorda a tutti che Cristo è centro dell’universo e della storia.

La presenza di Cristo nell’universo e nella storia rende l’uomo un ethos abitando nel quale l’uomo riceve se stesso secondo l’infinito desiderio del suo cuore: la persona dimora nell’amato, l’amato è la sua casa. Solo un’altra persona può essere dimora degna della grande dignità dell’uomo, perciò l’uomo può amare il mondo senza perdere la propria dignità soltanto nella e per la persona amata. Se Dio non fosse padre, se egli non dimorasse nel suo figlio amato, non potrebbe amare il creato: per lui abitare tra di noi equivarrebbe a perdere la sua dignità divina. Per questo colui che non crede nella divina paternità e nella divina figliolanza è incapace di credere che Dio è volontariamente venuto da noi, e di conseguenza ripudia anche la Chiesa perché la vede come una tra le tante organizzazioni e per giunta tra le non migliori. Le relazioni interpersonali scompaiono quando la relazione tra padre e figlio viene distrutta e la Chiesa muore. La salvezza avviene nello spazio delle relazioni interpersonali: là inizia la sua patria, là inizia la Chiesa, grazie alla quale il figlio dell’uomo ha dove posare il capo. Egli lo appoggia non sull’individuo ma sulla persona, il che vuol dire che lo appoggia su due tre persone. Dove gli uomini non posano i loro capi uno sull’altro, anche Dio non ha dove posare il proprio capo: perciò la cura della communio personarum pervade l’insegnamento e i pellegrinaggi di Giovanni Paolo II. Da questo derivano da un lato la sua vigorosa difesa dell’amicizia, del matrimonio, della famiglia, e persino della nazione - intesa come famiglia delle famiglie - e dall’altro i suoi continui e duri ammonimenti allo Stato. Per Giovanni Paolo II l’antropologia non legata all’ecclesiologia è un’antropologia inadeguata, e si trasforma in una politica che, basata su se stessa, distrugge le comunità di persone indispensabili per la vita dell’uomo, dando la priorità al fatto di possedere la forza tecnica. Un’antropologia inadeguata diventa politicizzata, e tratta la persona come se ella fosse oggetto di manipolazioni.

Sulla presenza di Giovanni Paolo II vigilante nei confronti di tutti gli uomini indipendentemente dalle loro convinzioni e dalla loro fede, influirono le tragiche esperienze dell’amore e della speranza che venivano distrutti dalla mancanza della verità e del bene. La crudeltà di questa mancanza si esprime in due parole: Auschwitz e Gulag. Gli anni durante i quali il sistema nazista della malvagità e la licenza selvaggia e impune dei comunisti distruggevano la verità e il bene, hanno insegnato a Giovanni Paolo II ciò che già Giobbe sapeva: bisogna difendere più l’uomo che Dio. Dio si difende da solo, e infatti ha trattato come blasfemi gli amici di Giobbe che cercavano di costruire argomenti per giustificare Dio: ma difendendolo hanno negato la sua divinità, e accusando Giobbe non si sono accorti che l’io deriva da Dio e non dall’uomo. Proprio per questo Giobbe poteva lanciare a Dio la domanda che suonava come un’accusa sulla sua divina giustizia. Le domande alle quali solo Dio è la risposta, vengono trasfigurate sotto la croce dalla preghiera. Ogni volta che entro nella cappella privata del santo Padre per partecipare alla santa Messa da lui celebrata, la prima cosa che mi colpisce è la sua persona in ginocchio, un blocco bianco di preghiera; davanti a questo blocco c’è la croce e accanto alla croce c’è la madre, perché la via ecclesiale al padre conduce attraverso suo figlio, e inizia nella madre. È nato qui, pieno di preghiera, il motto del servizio pontificale di Giovanni Paolo II Totus tuus ego sum.

L’uomo non cessa mai di minacciare se stesso, staccando l’intelletto dalla verità e la volontà dal bene; rompendo l’insieme armonico intelletto - verità - volontà, l’uomo corrompe il suo intelletto e la sua volontà, corrompe la conoscenza e l’amore, non distingue più il vero e il falso, il buono e il cattivo, e non gli rimane che la sensibilità al freddo e al caldo, fino a tentare di costruire secondo questi due valori una dimora sulla terra. Ma la misteriosa avventura chiamata vita personale dell’uomo si realizza nella verità e nel bene, non nel freddo e nel caldo. Colui che invece lotta per la verità e il bene, lotta per una vita degna dell’uomo, lotta per la sua libertà: per questo l’enciclica Veritatis splendor è un grande avvertimento per tutte le persone che invece di lottare con Dio per la vita, come aveva fatto Giobbe, seguono il consiglio che gli aveva dato sua moglie: "Desisti da Dio, vivi e muori come e quando ti piace, sii ciò che tu farai di te stesso; il tuo pensiero e la tua volontà precedono tutto, è da loro che la tua vita inizia e in essi la tua vita finisce. La logica del dono non è per te".

Quelli che non fanno nulla affinché le loro parole aderiscano alla verità e le loro azioni al bene, non si inchinano sull’uomo ferito dal male. Inchinati solo sulle loro opinioni, oppure immersi nei loro sogni, nel migliore dei casi tollerano gli altri: il cosiddetto uomo tollerante passa con indifferenza accanto alla verità e al bene, passa con indifferenza anche accanto all’uomo ferito dal male, talvolta lo deride, talvolta si scaglia contro di lui cercando di ucciderlo. Giovanni Paolo II ne sa qualcosa per esperienza, ed infatti continua a ripetere che l’uomo ha bisogno di amore e di perdono, non di tolleranza, la tolleranza offende proprio perché ogni persona è amore e perdono. L’uomo su di cui nessuno si china cade nella miseria, cessa di vedere che davanti a lui c’è la verità da conoscere e il bene da amare; di conseguenza non ha dove andare, il suo desiderio si curva su se stesso e perisce.

L’antropologia adeguata di Giovanni Paolo II sa che nel mondo dei sogni non c’è posto per la Chiesa. La Chiesa è dove c’è la presenza, vale a dire dove l’uomo domina se stesso ed è presente agli altri come un dono; la concupiscenza spensierata e l’altrettanto spensierata superbia, cancellando il carattere comunionale della persona umana, distruggono la Chiesa. Giovanni Paolo II fa di tutto per condurre l’uomo fuori dalla miseria creata dalla contentezza di se stesso, dimostra la verità e il bene che si rivelano in ogni essere. La verità e il bene sono la soglia della casa paterna: varcandola e prostrandosi dinanzi al padre l’uomo ritrova la libertà, e solo nella casa paterna egli può essere se stesso. Mirare con la propria esistenza alla pienezza della divina vita personale significa vivere misticamente e poeticamente: il mistico e il poeta camminano verso la sorgente della verità e del bene nel sentiero tracciato dal dono della fede dell’amore e della speranza. Davanti a questa sorgente si inginocchiano, perché solo così possono berne l’acqua e cantare la verità e il bene che ne sgorgano. Nell’adorare e nel cantare Dio inizia e si compie l’avventura spirituale dell’uomo, la sua personale vittoria. Solo così l’uomo esce dalla folle contentezza del presente che si corrompe: l’adorazione di Dio e il canto a Lui conducono l’uomo nel passato e nel futuro, la cui unione costituisce l’eternità. L’uomo chiuso nel presente insanisce, perché la salute del’uomo può derivare solo dalla presenza agli altri, andando dai quali egli esce dal presente e si salva. Nel dialogo la morte dell’uomo che si dona all’altro diventa un atto di libertà. L’uomo rinasce nella persona alla quale si affida: perfino Dio è il trinitario dialogo dell’amore.

La svolta antropologica dell’insegnamento di questo Papa consiste proprio nell’introdurre la dimensione mistica e poetica dell’uomo: quando Giovanni Paolo II parla dell’antropologia adeguata descrive l’uomo che vive dell’anamnesi della sua affinità con Dio, ovvero l’uomo che si risveglia e ritrova la propria identità nella adorazione di Dio. La persona umana rinasce ricordandosi di chi ella è nel principio e quindi che sarà alla fine; quelli che dormono non si ricordano chi sono, non adorando Dio non sono presenti a se stessi, adorando invece le cose del momento non hanno dove andare, perché il mondo dei sogni è il mondo della miseria. Difendendo così fervidamente il diritto dell’uomo all’adorazione di Dio, Giovanni Paolo II lotta per l’uomo stesso, lotta per la sua liberazione, per la libertà alla quale egli è destinato. La libertà affidata all’uomo come compito mostra infatti la divina provenienza e il divino destino dell’uomo, perché solo Dio è libertà. La libertà costituisce il contenuto dell’avventura spirituale dell’uomo: perciò Giovanni Paolo II ripete ad ogni faraone le parole del Signore, "Lascia partire il mio popolo perché mi celebri una festa nel deserto". Il diritto all’adorazione di Dio sta alla base di tutti i diritti personali dell’uomo: chi si inginocchia davanti a Dio non si inginocchia davanti a nessun altro, perciò solo gli adoratori del padre comprendono l’uomo. Giovanni Paolo II non ha paura della libertà perché non ha paura del dono della verità e del bene; senza timore dice no alla menzogna e al male, ammonendo ed esortando rafforza nei suoi fratelli la fede sia in Dio che nell’uomo. Nel ritornare ai principi consiste la perfezione del pensare e dell’amare. Colui che cerca la sorgente va sempre contro la corrente, colui che risveglia i dormienti interrompe i loro comodi sogni: infatti non è facile entrare nel mondo in cui gli uomini reali chiamano in modo obbligante a cambiare la vita e le cose reali. La realtà è dura, mentre invece è molle solo ciò che non c’è, molli sono i sogni, ma la loro mollezza non conduce l’uomo da nessuna parte. Le parole di Giovanni Paolo II sono decise e dure, come decisa e dura è la realtà stessa.

Alla soglia del terzo millennio verso il quale Giovanni Paolo II conduce la Chiesa, lo Spirito Santo senza dubbio ci sorprenderà con le sue iniziative: non possiamo prevederle, però è certo che con le iniziative dello Spirito Santo l’eternità entra nel tempo di cui è senso e compimento. Nella sua enciclica Tertio millennio adveniente Giovanni Paolo II, rievocando le parole di san Paolo "quando venne la pienezza del tempo Dio mandò il suo figlio nato dalla donna", scrive che la pienezza del tempo si identifica con il mistero dell’incarnazione del Verbo - figlio consustanziale del padre - e con il mistero della redenzione del mondo; inoltre, Cristo è il compimento dell’anelito di tutte le religioni del mondo, perciò ne è l’unico e definitivo approdo. In altri termini, il tempo è comprensibile solo nella relazione con Cristo, essendo Egli centro dell’universo e della storia. Nel tempo profeticamente cristologico l’uomo imparando il Cristo impara come diventare eterno: in tal modo il tempo dell’uomo cessa di essere secolarizzato, di essere tempo di corruzione e si trasforma nel tempo del divenire di Cristo, Qualcuno che è infinitivamente più grande del tempo stesso. La compressione profeticamente cristologica del tempo svela il carattere cairotico cui già accennavo: la presenza luminosa del Cristo nel tempo lo rende un segno decifrando il quale l’uomo si risveglia dal sonno. Per Giovanni Paolo II il terzo millennio non è che una buona occasione per ricordare a tutti le parole dell’apostolo delle nazioni "è ormai tempo di svegliarsi dal sonno perché la nostra salvezza è più vicina adesso di quando diventammo credenti. La notte è avanzata, il giorno è vicino, gettiamo via perciò le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce, comportiamoci onestamente come in pieno giorno".

Dalla presenza degli uomini ridestati dipende la qualità della cultura, della politica, dell’economia, delle scienze perché gli uomini ridestati sono in grado di dare priorità alla persona umana, al suo essere amore, fede, speranza: gli uomini ridestati sentendo la domanda di Pietro che Giovanni Paolo II ogni giorno lancia, "Signore da chi andremo, tu solo hai parole della vita eterna", confessano "crediamo in colui in cui Pietro ha creduto e grazie a questo abbiamo dove andare ex umbris in veritatem".

Caffarra: Di ogni esistenza umana possiamo scrivere due biografie: una narra ciò che l’osservazione esterna può registrare -fatti ed avvenimenti datati e localizzati accuratamente -, l’altra narra invece la vicenda interiore della persona, lo svolgimento di quel compito unico che ad ognuno la provvidenza ha assegnato. È stato Agostino ad insegnarci questo secondo modo di narrare la vita della persona, e lo ha chiamato Confessio.

Ho pensato a questa duplice possibilità di narrare una vicenda umana quando mi sono posto di fronte al ministero petrino di Giovanni Paolo II durante questi venti anni. Non farò una narrazione del primo tipo, è già fatta dai giornali e dai vari annuari più o meno ufficiali. Vorrei tentare invece una narrazione del secondo tipo. Ma le difficoltà sembrano essere insormontabili per varie ragioni. Anzitutto, l’esercizio del ministero petrino è un avvenimento spirituale abitato da un mistero insondabile, la presenza di Cristo, che nella forza dello Spirito Santo realizza il progetto salvifico del padre. Non si capisce d’altra parte il senso di questa presenza del mistero dentro ad un frammento - il ventennio di Giovanni Paolo II - se non si vede il tutto. Ma questa visione del tutto compete solo all’agnello, al quale è stato dato di aprire il libro chiuso da sette sigilli nel quale è scritta l’intera partitura del dramma: è nella tradizione della Chiesa, che ha un passato e un futuro, che si comprende il mistero di un pontificato.

Ma c’è anche un’altra ragione alle difficoltà cui accennavo: in Cristo c’è una perfetta coincidenza fra la sua persona e la sua missione: il suo essere è un essere mandato. Questa coincidenza caratterizza il ministero di ogni pastore inviato da Cristo: la sua persona è la sua missione, e la sua missione esprime in pieno la sua persona. È questa coincidenza che impedisce al ministero apostolico di corrompere la missione in professione e di trasformare questa stessa missione nel suo esatto contrario, la burocrazia ecclesiastica. Abbiamo così individuato le due coordinate essenziali dentro le quali deve muoversi la narrazione di questo ventennio di pontificato: il mistero di una presenza e la coincidenza di una persona concreta con questa presenza, che la trascende e l’abita.

Devo però a questo punto fare una riflessione assolutamente necessaria per non equivocare quanto detto: la coincidenza della persona di Pietro con la presenza del Redentore dentro la storia - "chi ascolta voi ascolta me, chi disprezza voi, disprezza me" - pone la medesima persona di Pietro in un rapporto unico con l’uomo, con ogni uomo. Essendo Pietro l’uomo in cui la presenza si fa più forte e più autorevole, egli cessa di appartenersi, viene espropriato di sé stesso, perché appartiene ad ogni uomo: "Pietro quando eri giovane andavi dove volevi, ora altri ti porteranno dove tu non vuoi". Dunque il mistero della presenza, la coincidenza della persona con questo mistero ha un risvolto fin dentro alla storia degli uomini.

Ci sono due testi del Concilio Vaticano II, citati di preferenza e con insistenza da Giovanni Paolo II, non c’è documento del suo magistero di una certa importanza in cui quei due testi insieme o uno dei due, non sia citato. Ecco i due testi: "In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova piena luce [vera luce nel teso latino] il mistero dell’uomo. Cristo proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche pienamente l’uomo a se stesso e gli manifesta la sua altissima vocazione". "L’uomo, il quale in terra è la sola creatura che Dio abbia voluto per se stesso, non può ritrovarsi pienamente se non attraverso il dono sincero di se stesso". Il primo di questi due testi conciliari è la vera, unica chiave interpretativa fondamentale di questo ventennio di pontificato. Esiste una invocazione di Cristo che per grazia è inscritta, dallo stesso gesto creativo, nelle viscere della persona umana. Il Signore Gesù Cristo non è estraneo all’uomo e l’uomo costitutivamente, per grazia, non è estraneo al Signore Gesù Cristo. Da questa intuizione nasce quel grido con cui Giovanni Paolo II ha dato inizio al suo pontificato e che tanto ha impressionato il mondo e la Chiesa, grido che spesso ripete: "Aprite le porte a Cristo, non abbiate paura, egli sa che cosa c’è nel cuore umano".

È importante in questo contesto, ricordare anche un’altra affermazione conciliare ripetuta spesso dal santo Padre, che è stata ultimamente e lungamente sviluppata nella già citata enciclica Veritatis splendor, secondo la quale Gesù Cristo attraverso l’incarnazione si è misteriosamente legato ad ogni concreta persona umana, e quindi chiama ogni persona umana a sé nella concreta carnalità della sua esistenza di ogni giorno. Questa visione ha la forza di chiudere definitivamente un’estenuante stagione di discussioni ecclesiali da considerarsi quantomeno inutili, noiose e fuorvianti, precisamente alla luce del presupposto ideologico da cui esse nascevano. Il presupposto era di considerare Cristo e l’uomo come due grandezze originariamente estranee l’una all’altra e quindi semplicemente giustapposte. Se si presuppone che questo è il rapporto originario fra Cristo e l’uomo, il problema centrale della missione della Chiesa diventa, purtroppo ma inevitabilmente, quello di come fare incontrare - ‘dialogare’ è il termine usato più di frequente - queste due realtà. Non voglio ora neppure abbozzare tutto il ventaglio delle figure che questo confronto o dialogo è andato via via assumendo in questi venti anni, nella frequente e stolta contrapposizione fra progressisti e conservatori, fra mediazione e presenza e così via. Vorrei invece richiamare la vostra attenzione su una implicazione particolarmente importante di quel presupposto sbagliato, implicazione che, come suo contrario, ci farà meglio capire la straordinaria forza profetica di questo ventennio. Se Cristo e l’uomo sono due realtà originariamente estranee, il problema fondamentale la cui soluzione è necessariamente presupposto di ogni evangelizzazione, è che la fede cristiana debba giustificarsi di fronte al mondo prima di annunciarsi. Presupposta l’originaria estraneità fra Cristo e l’uomo, a quali argomenti la fede potrà ricorrere per giustificarsi? Non potranno che ridursi ad uno solo: essere di aiuto al mondo in ciò in cui il mondo pensa di avere bisogno della Chiesa. Di volta in volta, allora, la Chiesa sarà pensata e richiesta come una sorta di Croce rossa che raccoglie lungo i fossi tutti i feriti delle spietate società neoliberali. Sarà l’istituzione alla quale sarà altre volte richiesto di insegnare una morale all’uomo di oggi o altro ancora. La terribile pagina profetica di Solov’ëv sull’Anticristo aveva già descritto con una impressionante precisione questa situazione della Chiesa.

Cosa c’è di falso e falsificante in tutto questo? Il dimenticare che la fede non ha bisogno di giustificarsi di fronte al mondo prima di annunciarsi, perché nel momento in cui si annuncia all’uomo essa si giustifica, dato che l’uomo, non le ideologie sull’uomo, l’uomo concreto e in carne ed ossa, trova una corrispondenza, una adequatio, fra il desiderio del suo cuore e quel vangelo che è Gesù Cristo che gli viene annunciato. "Signore, da chi andremo? Tu solo hai parole di vita eterna". La corrispondenza di cui parlavo consiste precisamente in questo: quando l’incontro per grazia accade, nella persona succede che Cristo approfondisce e svela tutte le domande dell’uomo, svela l’uomo pienamente a se stesso - secondo un’espresisone del Concilio - e le domande si spalancano ad accogliere l’intero dono del Cristo, il suo Santo Spirito.

Nella già citata Veritatis splendor, il santo Padre afferma che urge recuperare e riproporre il vero volto della fede cristiana, che non è semplicemente una serie di proposizioni da cogliere o ratificare con la mente, è invece una conoscenza vissuta di Cristo, una memoria vivente dei suoi comandamenti, una verità da vivere. È incontro, è dialogo, è comunione di amore e di vita del credente con Gesù Cristo. È in questo contesto che comprendiamo un altro motivo ritornante di questo ventennio: la via della Chiesa è l’uomo, la via della Chiesa è Gesù Cristo. L’uomo è la via della Chiesa perché essa è chiamata ad incontrare non le ideologie, ma l’uomo in carne ed ossa. Ogni sentimento umano, ogni pensiero umano, ogni volontà umana, ogni speranza umana, ogni dolore umano, ogni gioia umana appassionano il cuore della Chiesa. Perché? Perché Cristo è la via della Chiesa, perché ogni sentimento umano sente qualcosa di lui, ogni pensiero umano pensa sempre qualcosa di lui, ogni verità umana vuole sempre qualcosa di lui, ogni speranza umana attende lui, ogni dolore umano invoca lui, ogni gioia umana prelude e invoca la beatitudine dell’incontro pieno con lui. Non sono due vie parallele, l’una, la via che è l’uomo e l’altra la via che è Cristo: l’una incrocia l’altra. E l’incrocio si chiama nuova evangelizzazione, il grande impegno di questo ventennio di pontificato. La nuova evangelizzazione è l’introduzione di ogni uomo e di tutto l’uomo dentro l’atto redentivo di Cristo. Si capisce allora come non sia successo per caso che proprio durante questo ventennio i movimenti ecclesiali abbiano avuto una così grande fioritura e un riconoscimento ecclesiale ormai pieno. Essi infatti più di ogni realtà ecclesiale si collocano nel punto in cui la via della Chiesa che è l’uomo si incrocia con la via della Chiesa che è Cristo. Per questo la Chiesa deve uscire da ogni forma di pavidità, di pusillaminità: "non abbiate paura", continua a dire il santo Padre.

Molti osservatori del suo pontificato, ancora rinchiusi nel presupposto illuministico della originaria estraneità dell’uomo a Cristo e di Cristo all’uomo, hanno parlato e parlano di crociata e cominciano già a stilare i loro bollettini della supposta guerra, con i luoghi in cui Giovanni Paolo II è stato sconfitto e quelli in cui ha vinto. È un totale equivoco. In realtà - entriamo così in un’altra dimensione del mistero di questo ventennio - lo scontro esiste e non può non esistere, ma è ben più profondo e più drammatico di quello che risulta dal computo statistico spesso fatto (ad esempio, il contare quanti fedeli cattolici ricorrono alla contraccezione). Il vero scontro è fra l’uomo che si pensa non bisognoso assolutamente di Gesù Cristo, che dà di sé stesso un’interpretazione esaustiva dell’intera esperienza umana prescindendo dall’atto redentivo di Cristo, e l’uomo che invece si pensa alla luce del vangelo della grazia e della misericordia. Il vero scontro è quello posto in essere dallo Spirito Santo stesso in persona nel mondo di oggi, e che consiste nella riapertura del processo a Gesù, quel processo che i sigillatori della sua tomba ritenevano quel venerdì sera di avere definitivamente chiuso. E l’aula del tribunale di questo processo è il cuore dell’uomo: è in esso che lo Spirito Santo rende testimonianza a favore di Cristo, della sua veridicità quando dice di essere l’unico salvatore del mondo. Ed è ugualmente nel cuore di ogni uomo che viene introdotto il sospetto che tutto si può accettare di Cristo, ma non la sua assoluta pretesa di essere l’unico salvatore del mondo. Il sospetto nel cuore è insinuato dalla cultura prodotta precisamente dal presupposto che Cristo e l’uomo sono due realtà originariamente estranee; lo scontro vero avviene quindi fra l’annuncio del vangelo in quanto risposta totale all’intera misura del desiderio umano e una visione dell’uomo che non riconosce interamente la verità, la bontà, la bellezza dell’umano.

I luoghi dello scontro sono le esperienze fondamentali del vivere umano; esse, nel magistero di Giovanni Paolo II, sono fondamentalmente cinque: la coscienza morale, la cultura, l’amore fra l’uomo e la donna, il lavoro, la sofferenza, la malattia. Dovrei sviluppare un’ampia riflessione su ciascuna di esse, poiché costituiscono un riferimento costantemente presente nel ventennio del pontificato, ma mi limiterò invece ad alcune riflessioni essenziali.

Per quanto riguarda la coscienza morale, c’è un testo mirabile della Dominum et vivificantem che dice che all’uomo creato ad immagine di Dio, lo Spirito Santo dà in dono la coscienza affinché in essa l’immagine possa rispecchiare fedelmente il suo modello che è insieme la sapienza e la legge eterna, fonte dell’ordine morale nell’uomo e nel mondo. La rivelazione originaria accade dunque nella coscienza morale - come già Newman diceva -, pertanto è attraverso essa che l’uomo ultimamente capisce il senso delle sue scelte e della sua vita. La falsificazione della coscienza morale inclina la sorgente stessa della verità dell’uomo, chi è l’uomo e chi è il suo vero bene, e come falsificazione presuppone sempre la negazione della verità su Dio. La problematica etica è centrale nella testimonianza profetica di Giovanni Paolo II, ma non nella stessa direzione dell’ossessivo e noioso dibattito etico e contemporaneo, che è un vuoto girare su se stesso partendo dal presupposto che sia possibile un’etica senza verità, che sia possibile una regolamentazione dell’agire e delle scelte libere prescindendo da ogni giudizio veritativo sul contenuto delle scelte. Avviene così la riduzione del problema etico a problema tecnico. La problematica etica invece è il luogo in cui la domanda sulla verità e sul bene della persona assume tutta la sua serietà.

L’etica è il respiro dell’eternità dentro al tempo: entriamo così nel secondo tema: la cultura. Solo l’uomo, portato dalla apprehensio entis, come la chiamava Tommaso, sa costruire una vera cultura; quando invece, come sta succedendo nella nostra epoca, si ritiene che nulla sia degno di essere pensato perché nulla esiste, la cultura non è altro che la dissoluzione dell’umano pensare nella vacuità della ricerca senza fine. È come voler cucire dimenticandoci di fare il nodo in fondo al filo: si continua a cucire senza cucire mai. Possiamo certo imbiancare questi sepolcri con l’apparenza di una sofisticata erudizione, ma dentro c’è la corruzione di un io in decomposizione. Ecco perché, come ci ha mostrato questo ventennio, non può esistere un vero impegno per l’uomo se non è provvisto di una grande dignità culturale.

Da quello che ho detto finora risulta che la passione per l’uomo è immediatamente generata dalla passione per Cristo, e quindi è inevitabile che la domanda su chi è l’uomo sia una domanda centrale in questo pontificato. Ed è rispondendo a questa domanda che incontriamo la seconda affermazione conciliare: chi è l’uomo? ed io che sono? È l’unica creatura voluta per se stessa dal creatore, l’unica creatura che realizza se stesso nel dono di se stessa, cioè nell’amore. L’autonomia destinata alla comunione, l’autodipendenza chiamata alla solidarietà, ecco il nome dell’uomo, ecco la struttura personale del soggetto morale. La paradossalità della persona umana, cui è possibile realizzare se stessa solo nel dono di se stessa, si risolve nell’atto dell’amore. E qui noi comprendiamo perché questo Papa come nessun altro abbia dedicato così ampio spazio del suo magistero al tema dell’amore coniugale: per questo quando si mette in dubbio o si deturpa la verità dell’amore coniugale, si distrugge l’intera verità della creazione. Il vero dramma dell’uomo è dunque il dramma dell’amore, come aveva già visto Agostino, dramma che può certo essere vissuto come tragedia - "gli altri sono l’inferno", scrive Sartre - o come la farsa del nichilismo contemporaneo: ma solo nell’incontro con Cristo che mi dona il suo spirito posso vivere questo dramma nell’intera sua verità, perché egli mi fa libero, cioè capace di amare e quindi di percorrere l’unica via della mia realizzazione è l’amore.

Il ministero petrino si iscrive nella tradizione della Chiesa, se ne nutre e la nutre. La testimonianza a Cristo redentore dell’uomo resa dal santo Padre in questo ventennio deve divenire vita quotidiana della Chiesa: è il compito che ci attende per salvare l’uomo da quel deserto del non senso in cui sta vagando senza meta.

Rylko: Molti di voi hanno partecipato di persona al recente incontro del Papa con i movimenti ecclesiali e le nuove comunità il 30 maggio scorso in piazza san Pietro, quando con enorme gioia e con profondo stupore abbiamo assistito a uno spettacolo straordinario di fede e di comunione ecclesiale. Un cardinale presente osservando piazza san Pietro e la via della Conciliazione fino al Tevere stracolma di gente, con voce piena di commozione ha detto: "Questa è la Chiesa del terzo millennio; questa davanti ai nostri occhi è una grande profezia". Queste parole mi hanno colpito molto, e poi riflettendoci sopra ho trovato in esse una importante chiave di lettura non solo di quell’indimenticabile evento ecclesiale, ma in qualche modo anche di tutto il pontificato di Giovanni Paolo II.

Il pontificato di questo Papa giunge al suo ventesimo anno. È il pontificato più lungo di questo secolo: un pontificato straordinariamente ricco di magistero, ma anche di eventi che hanno sconvolto il mondo intero e che hanno visto il Papa quale indiscusso protagonista. Questo pontefice non cessa di stupirci, con l’iniziativa sempre nuova e coraggiosa di fronte alle sfide della nostra epoca. La sua persona non cessa di essere punto di riferimento non solo per la Chiesa, ma per l’umanità intera.

Vorrei sottolineare un tratto di questo pontificato che mi sembra molto significativo, cui già accennavo parlando del 30 maggio: è un pontificato con una forte valenza profetica. Fin dall’inizio è tutto proiettato verso il futuro, verso la soglia del terzo millennio della redenzione. Oggi, mentre ci si prepara alla celebrazione del grande Giubileo dell’anno Duemila, sempre più ci si chiede quale sarà il volto della Chiesa del terzo millennio, se sarà diverso e in che cosa. Non è facile fornire una risposta precisa e completa ad un tale interrogativo, tuttavia guardando vent’anni di questo pontificato - che la provvidenza divina ha voluto collocare a cavallo tra due millenni dell’era cristiana - si possono facilmente notare alcune tendenze guida che il terzo millennio rende presente nella vita della Chiesa già oggi. Parlerò di due di queste tendenze, importanti priorità di questo pontificato: i movimenti ecclesiali e i giovani. In esse si manifesta in modo speciale il volto della Chiesa del terzo millennio.

Per quanto riguarda il Papa e i movimenti, nella fioritura dei movimenti ecclesiali dopo il Concilio Vaticano II, il Papa ha visto subito un dono particolare dello Spirito Santo per la Chiesa alla fine del secondo millennio, e un segno di speranza per tutta l’umanità. Perciò fin dall’inizio del suo pontificato segue i movimenti ecclesiali con una sollecitudine pastorale particolare, li incontra personalmente in varie occasioni, li incoraggia e mediante il suo magistero indica a loro le vie da seguire e i compiti, spesso molto esigenti nel tener loro fede. Da parte loro i movimenti ecclesiali, quasi istintivamente, vedono nel ministero petrino di questo Papa un punto di riferimento particolare, e una fondamentale garanzia della loro ecclesialità, del loro essere Chiesa. I movimenti nell’insegnamento di Giovanni Paolo II sono una delle espressioni della dimensione carismatica della Chiesa. Il Papa a questo proposito sottolinea che la dimensione istituzionale e quella appunto carismatica non sono in contrasto tra loro, ma sono coessenziali alla costituzione divina della Chiesa. I movimenti non sono quindi una specie di supplemento o di elemento decorativo, ma costituiscono parte integrante della vita e della missione ecclesiale che è quella di far presente il mistero di Cristo e la sua opera salvifica nel mondo di tutti i tempi. Secondo Giovanni Paolo II i movimenti sono un segno di libertà di forme in cui si realizza l’unica Chiesa, e rappresentano una sicura novità che ancora attende di essere adeguatamente compresa in tutta la sua positiva efficacia per il regno di Dio all’opera nell’oggi della storia.

Ma il Papa non si ferma qui, arriva a dire che la Chiesa stessa è un movimento, in quanto avvenimento nel tempo e nello spazio della missione del figlio che agisce per opera del padre nella potenza dello Spirito Santo. Il carisma di ogni movimento riconosciuto dalla Chiesa racchiude un enorme dinamismo spirituale. In tempi relativamente brevi, diversi movimenti hanno raggiunto la presenza mondiale nelle Chiese locali in tutti i continenti; d’altro canto, ciò che conta veramente non è solo l’estensione geografica sempre crescente, ma soprattutto i frutti di conversione e di vita cristiana veramente meravigliosi. I movimenti costituiscono secondo il Papa canale privilegiato per la formazione e promozione di un laicato attivo e consapevole del proprio ruolo nella Chiesa e nel mondo; essi riescono a sprigionare una radicalità straordinaria nella sequela di Cristo in tanti laici, uomini e donne sposati e celibi, giovani e adulti, nonché un dinamismo missionario eccezionale, portando la luce evangelica negli ambienti più difficili. Per questo il Papa ha detto ai movimenti: di fronte alle sfide del mondo secolarizzato, voi siete la risposta provvidenziale. E di fronte agli enormi compiti di evangelizzazione nella nostra epoca non ha esitato dire: Cristo conta su di voi, la Chiesa conta su di voi. Durante il Congresso mondiale dei movimenti uno dei partecipanti ha sottolineato quanto è importante oggi dimostrare al mondo il volto gioioso del vangelo, il volto gioioso dell’essere cristiani. Qualcosa di simile succede proprio al Meeting attraverso la vostra presenza e testimonianza, perché anche voi volete dire al mondo che siete felici di essere cristiani.

I movimenti ci introducono anche alla Chiesa del millennio. Il cardinale Joseph Ratzinger scrive a proposito: "È probabile che davanti a noi ci sia un’epoca diversa della storia della Chiesa, un’epoca nuova, in cui il cristianesimo verrà a trovarsi nella situazione del seme di senape, in gruppi di piccole dimensioni, apparentemente ininfluenti e che tuttavia vivono intensamente contro il male, che portano nel mondo il bene e lasciano lo spazio a Dio. Vedo - continua il cardinale - che un grande movimento di questo genere è già in atto. Sicuramente non ci sono conversioni di massa al cristianesimo, svolte paradigmatiche o inversioni di tendenza, ma ci sono modi forti di vivere la fede che rianimano le persone e danno loro vitalità e gioia". Una presenza di fede dunque che significa qualcosa per il mondo, che non lascia indifferenti, che sveglia le domande. Per questo la vita dei movimenti è una vera testimonianza. L’incontro del 30 maggio scorso ha costituito senz’altro un momento di svolta importante, voluto dal Papa stesso. Questo evento è diventato veramente, come ha scritto monsignor Giussani, un grido di unità nella ricchezza e nella diversità dei carismi. Il Papa ha voluto in questa maniera riconfermare dinanzi a tutta la Chiesa il ruolo e la missione dei movimenti. Il 30 maggio piazza san Pietro assomigliava al grande cenacolo di pentecoste. Davanti ai movimenti si è aperta una pagina nuova, una tappa, come ha detto il Santo Padre, di maturità ecclesiale. Il Papa ha subito precisato che ciò non vuol dire che tutti i problemi siano stati risolti, è piuttosto una sfida, una via da percorrere, e la Chiesa si aspetta dai movimenti frutti maturi di comunione ed impegno.

Il 30 maggio scorso la Chiesa e i movimenti stessi mediante il ministero del successore di Pietro hanno ricevuto un dono importante. Ma nella logica del dono è inscritto anche il compito, la responsabilità: non si può sprecare il dono ricevuto. Ciascuno di noi, vescovi sacerdoti e in maniera particolare i fedeli laici, i giovani, che così numerosi fanno parte di diversi movimenti, devono assumere tutti la propria parte di responsabilità rispetto a questo dono. Non dimentichiamo che proprio qui in gran parte si decide l’immagine della Chiesa del terzo millennio, di una Chiesa viva, dinamica e missionaria, immagine in cui questo Papa crede molto.

Vorrei ora trattare il secondo punto, il Papa e i giovani. Giovanni Paolo II fin dall’inizio del suo pontificato è riuscito a creare un rapporto particolare con i giovani: le sue parole - "voi siete la speranza della Chiesa, voi siete la mia speranza" - pronunciate qualche giorno dopo la sua elezione non erano vuota retorica, ma nascevano da un preciso programma pastorale, in cui si riflette in qualche modo il volto della Chiesa del terzo millennio. Questo Papa ha un particolare carisma, un particolare modo di stare e di dialogare con i giovani. I giovani sono la gioia della sua vita, li comprende ed è estremamente sensibile ai loro problemi: stare con i giovani rigenera le sue forze anche oggi, a 78 anni compiuti. Egli è per i giovani un maestro, un padre, un amico, un amico esigente, come si è autodefinito una volta. Di fronte ai giovani, Giovanni Paolo II si presenta sempre come testimone di Cristo e svela loro le profondità del mistero dell’uomo che trova la sua piena soluzione solo in Gesù Cristo morto e risorto per la salvezza. Si presenta come pastore della Chiesa, ed infatti ha scritto che la Chiesa ha tante cose da dire ai giovani, e i giovani tante cose da dire alla Chiesa. Il Papa cerca di sensibilizzare i giovani al valore e alla bellezza della giovinezza stessa: la giovinezza di per sé stessa è una singolare ricchezza dell’uomo, di una ragazza o di un ragazzo. In un’altra occasione ha detto "voi stessi giovani non lo sapete, come siete belli quando siete vicini a Cristo maestro". Secondo il Papa proprio nei giovani la Chiesa ritrova il suo volto giovane che è dono dello Spirito Santo; per questo egli ripete spesso che la Chiesa guarda se stessa nei giovani. E per questa ragione nonostante duemila anni non invecchia ma rimane giovane.

A questa attenzione nei confronti dei giovani si collegano le giornate mondiali della gioventù, istituite nella Chiesa nell’anno 1985. Esse rappresentano una delle più grandi iniziative profetiche di questo Papa,. Nell’occasione dell’istituzione di esse, il Papa ha detto che tutti i giovani devono sentirsi seguiti dalla Chiesa. Perciò, tutta la Chiesa in unione con il successore di Pietro si sente maggiormente impegnata a livello mondiale in favore della gioventù, delle sue ansie e sollecitudini, delle sue aperture e speranze, per corrispondere alle sue attese, comunicando la certezza, la verità e l’amore che è Cristo. In questi anni le giornate mondiali della gioventù - alle quali molti di voi hanno partecipato - sono diventate uno strumento veramente potente di evangelizzazione del mondo dei giovani. Ogni giornata costituisce un evento di grande portata e il Papa, nonostante il passare degli anni, continua questo pellegrinaggio di fede insieme con i giovani attraverso i continenti. E loro lo seguono. Nel libro Varcare le soglie della speranza, il Papa ha scritto che i giovani cercano Dio, cercano il senso della vita, cercano le risposte definitive. "Che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?" si chiedono i giovani, e in questa ricerca non possono non incontrare la Chiesa. E anche la Chiesa non può non incontrare i giovani, occorre soltanto che abbia una profonda comprensione di ciò che è la giovinezza e dell’importanza che riveste per ogni uomo.

L’ultima giornata mondiale, svoltasi a Parigi, ha avuto una risonanza particolarmente forte. Il cardinal Jean Marie Lustiger un anno fa ha commentato così questo evento che ha visto la partecipazione di più di un milione di giovani di tutti i continenti: "La sete spirituale di questa generazione è immensa, questi giovani ricercano ciò che non conoscono e che tuttavia intuiscono". E un anno dopo, qualche giorno fa, ha scritto sull’ "Osservatore Romano": "Talvolta vi sono eventi che appaiono improvvisamente, suscitando stupore generale. In realtà, essi esprimono un movimento di fondo che non si voleva o non si sapeva vedere, dinanzi al quale si era ciechi. È il caso della giornata mondiale della gioventù di Parigi: grazie alla venuta di Giovanni Paolo II, ci si è sorpresi, meravigliati, che una generazione potesse invece di fare festa partecipare gioiosamente a momenti di intenso raccoglimento, di ascolto attento, di scambio e di preghiera. Se l’evento si è così svolto è perché in questa generazione da lungo tempo sta avvenendo qualche cosa di profondo e - conclude il cardinale Lustiger - amando il Papa i giovani amano in lui e attraverso lui la Chiesa, che in fondo desiderano e che Giovanni Paolo II dà loro la possibilità di sperimentare e di vivere. La sua presenza ne è il catalizzatore e il garante".

Sia i movimenti ecclesiali, sia le giornate mondiali della gioventù sono due grandi eventi profetici che ci fanno pregustare già oggi il volto della Chiesa del terzo millennio: è una Chiesa piena di speranza, perché, come ci rassicura questo Papa, alla fine di questo millennio Dio sta preparando una grande primavera cristiana di cui già si intravede l’inizio.