Martedì 25 agosto 1981

LA VITA NONOSTANTE TUTTO

Partecipano:

Alain Saint Macary:

Comunità dell'Arche; Père Leon, della Comunità della Poudrière;

Fratel Ettore:

fondatore a Milano di un’opera caritatevole in favore di poveri ed emarginati (per disguidi tecnici l’intervento non è stato registrato).

Moderatore:

Dr. Giulio Boscagli.

G. Boscagli

Siamo qui oggi per incontrare una testimonianza. "La vita nonostante tutto" è il tema prescelto. Cerchiamo di inquadrare, di capire il senso di quest’incontro, di questa testimonianza nel contesto del lavoro di comprensione delle realtà dell’Europa che assieme andiamo facendo in questi giorni. C’è stato già detto e autorevolmente documentato come non si possa costruire, come non ci sia la speranza di costruire autenticamente un’Europa al di fuori di un significato, anzi abbiamo capito che la carenza più grave di questo momento storico nell’Europa non è tanto la difficoltà delle organizzazioni internazionali, delle istituzioni, dei gruppi o dei partiti politici, ma è la fatica con cui l’Europa cerca di recuperare un senso per se stessa, cerca di recuperare dei valori attorno ai quali tornare a vivere, tornare a far incontrare la gente, tornare ad essere testimonianza per gli altri popoli e per gli altri paesi. Questo significato che deve essere cercato, costruito, oggi c’è documentato come può essere accolto e testimoniato. La vita nonostante tutto, nonostante le difficoltà, nonostante le incomprensioni, le contraddizioni d’ogni genere e specie. Le testimonianze d’oggi pomeriggio ci documentano come il positivo, il significato della vita può andare avanti, può durare nel tempo, può costruire l'occasione di una speranza per i singoli e per le nazioni. La speranza: forse proprio questa parola che aleggia su tutto il Meeting, è la parola che può sintetizzare o può aprire questa conversazione d’oggi. Una speranza che si basa sulla concretezza della vita, che non è campata in aria, che non è affidata neppure alle sole forze dell'uomo, ma è su questa speranza che le persone qui presenti hanno costruito e che oggi questa loro costruzione ci documenteranno. Sono presenti qui Père Leon che è stato uno dei fondatori ed è tuttora la figura più autorevole della Comunità della Poudrière, una Comunità che ha ormai 25 anni di vita ed il cui punto di maturazione ci sarà da lui raccontato. Si tratta di una delle maggiori esperienze di vita comune, di lavoro, che sono presenti in Europa e che costruiscono realmente, anche se non appaiono regolarmente negli organi di stampa o nell’opinione pubblica, un tipo d’uomo che va al di là dell’immediatezza, che costruisce già il futuro. Con lui è Saint Macary. Vive in una comunità dell'Arche al Nord della Francia ed è nello stesso tempo il vice-coordinatore della federazione che raccoglie le diverse comunità dell'Arche sparse in tutto il mondo. Adesso Macary mi ha chiesto di dire esplicitamente questa sua appartenenza ad una comunità, proprio perché non vuole apparire semplicemente come un responsabile di questa federazione ma come un membro vivo di questa comunità dell'Arche con una sua esperienza di vita precisa dentro un luogo preciso. Le Comunità dell'Arche, come vedremo, sono comunità che cercano di rimettere al centro, al cuore di ogni paese, di ogni città le persone emarginate o rifiutate. Per ritardo non è ancora giunto Fratel Ettore.

A. S. Macary

La testimonianza che vorrei portare oggi è quella di una piccola esperienza, un’esperienza di anni di vita nella Comunità dell'Arche con adulti che soffrivano di un handicap mentale. Questi uomini e queste donne profondamente colpiti nella loro intelligenza, nella loro psiche, sono abitualmente considerati come un peso per la società; la loro presenza, la loro esistenza appare spesso come inutile; si comincia a trovare che costa, in denaro, assicurare loro una vita decente mentre non sono elementi produttivi dal punto di vista economico. In vari paesi occidentali l'aborto degli handicappati è facilitato. L'Arche è nata nel 1964 perché Jean Vanier è stato colpito dalla situazione di queste donne e di questi uomini i quali arrivati, all'età adulta, o rimanevano nascosti dalle loro famiglie oppure praticamente erano parcheggiati, abbandonati in nosocomi: ospedali dove ci si limitava a dar loro una possibilità di alimentarsi e di alloggiare. Vanier ha quindi iniziato l'avventura dell'Arche accogliendo Raphael e Philip in una casetta di un villaggio al nord della Francia: voleva innanzitutto dare loro un’esistenza più umana tra amici e vicini. Contemporaneamente capiva che condividendo la sua vita con questi "poveri di spirito", amati da Dio, poteva vivere il Vangelo in modo privilegiato e compenetrare i segreti delle beatitudini. Ben sapeva che tale decisione impegnava l'intera sua vita, ma non aveva un progetto in testa, anzi, pensava che quattro o cinque era la dimensione ideale per una comunità perché con un numero così ristretto si può fare tutto insieme, ivi compreso viaggiare nella stessa macchina. Oggi, 17 anni dopo, questa piccola comunità dell'Arche dove vivo a nord di Parigi conta 400 persone suddivise in 30 luoghi diversi di vita. E partendo da questa comunità iniziale, un’intera famiglia di comunità dell'Arche è nata e questo in 14 paesi su cinque continenti, da Calcutta fino a Vancouver, dalla Danimarca all'Australia. Queste 56 comunità hanno tutte lo stesso scopo: dare alle persone che soffrono di un handicap mentale o di gravi carenze di ordine intellettuale oppure sono colpite profondamente nella psiche, un luogo di vita e di lavoro a dimensione umana dove si sentano amate, riconosciute, dove sono accettate così come sono, chiamate anche a crescere ed a donarsi. Se l'Arche è stata chiamata a svilupparsi ovunque è perché in ogni paese, qualunque sia il clima o l'etnia, c'è un appello profondo, un bisogno enorme da parte di tutti coloro che sono considerati come fuori dalle norme della nostra società; quest’appello, questo grido si esprime in modo diverso a seconda dei luoghi: se viene su da quelli che non hanno voce spesso non si ode nemmeno e bisogna naturalmente prestare la massima attenzione per sentirlo, ma appunto se l'Arche è quello che è, è perché questo appello, questo grido dei poveri, dei piccoli, degli infimi, incontra una sete di impegno da parte dei giovani dei mondo di oggi. Giovani che cercano valori autentici, che cercano disperatamente di dare un senso alla propria vita, perché all'Arche con le persone che soffrono di un handicap mentale accogliamo anche e nello stesso numero tutti coloro i quali vogliono condividere la loro vita e mettersi alla loro scuola. Tra di noi ci sono persone di ogni paese, persone che hanno studiato, altri che hanno lavorato a livello manuale, celibi, coppie sposate, molti sono cristiani e vogliono vivere il Vangelo che costituisce in un certo senso la nostra "carta", altri, però, sono semplicemente uomini di buona volontà che non hanno scoperto Gesù. La nostra vita in questa comunità è semplice. Viviamo in casette nei villaggi o nelle città in gruppi dì 12 persone circa e condividiamo tutti i momenti della vita quotidiana: mangiamo insieme, preghiamo insieme e ci divertiamo anche insieme nel tempo libero; invitiamo amici, i vicini, andiamo da loro, organizziamo altresì il lavoro nella natura, rispettando le esigenze di ognuno. Questa vita comunitaria non ha nulla di particolarmente spettacolare, anzi è una vita comune, ordinaria, con le sue grazie e le sue difficoltà; ogni tanto esplode in momenti di festa intensi dove celebriamo la gioia di stare insieme e dove, oltre alle sofferenze, oltre alle nostre difficoltà, esprimiamo la nostra gioia dell'immenso regalo che c’è dato di vivere insieme. Queste comunità dell'Arche, accanto a tutti quelli che operano per i poveri nel mondo, sono soltanto una goccia d'acqua nell'oceano di miseria, però vogliono essere un segno, un appello, una testimonianza che interroga l'uomo d'oggi e che vuoi dimostrare che oltre a tutte le debolezze, a tutte le difficoltà la vita vale la pena di essere vissuta a qualsiasi prezzo. Nella mia vita all'Arche ho scoperto questo cammino motto modesto, molto umile della vita quotidiana con i deboli, i piccoli, le vittime dei rigetto e della mancanza di amore. Questa via l'ho cominciata all'età di 28 anni senza sapere naturalmente dove mi avrebbe condotto e nemmeno per quanto l'avrei seguita: non sapevo nemmeno perché seguivo questa via nulla mi aveva preparato a questo; avevo fatto studi di economia ed avevo iniziato una carriera in una grande banca parigina. Credevo di essere piuttosto dalla parte di coloro che sono, che possiedono, che detengono il potere; di persone aventi un handicap mentale non ne conoscevo e come tanti evitavo qualsiasi occasione di incontrarli; quando li incontravo per forza sulla mia via avevo la tendenza ad attraversare la strada ed andare sul marciapiede di fronte. Ciò non di meno è stato l'incontro con uno di quelli chiamati handicappati che mi hanno deciso a camminare accanto a loro nella vita e questo lasciando la mia situazione materiale. Queste persone che sono colpite fin dalla loro nascita e fin dalla loro infanzia da un handicap mentale si rendono conto spesso che costituiscono una delusione o al meglio una grave preoccupazione per le loro famiglie: certi non possono nemmeno essere tenuti dai loro genitori e soffrono fin dalla partenza di questa assenza di relazione primaria coi padre e con la madre; fuori dalle vie abituali della vita sociale si sentono emarginati, quando ricevono cure ottime non capiscono perché sono messi in disparte, portano chiusa in loro stessi una ferita profonda e tendono a chiudersi nella depressione con atteggiamenti strani o si esprimono con la violenza. Spesso spostati, delusi perché non hanno sperimentato rapporti stabili, hanno un'immagine "rotta" di loro stessi e quindi nessuna fiducia in sé; sono profondamente segnati dal fallimento e dal senso della loro inutilità. Ciò che vogliono, ciò di cui hanno bisogno sono rapporti e relazioni veri ma contemporaneamente temono l'ambiguità: è pericoloso amare ed essere amati perché ciò suscita nell'essere un'attesa e delle speranze che spesso sono deluse ed un amore deluso porta a rinchiudersi su se stessi. Questo grido dei povero ci disturba, l'unica domanda è questa: io valgo la pena che qualcuno si interessi a me, è possibile amarmi come sono? L'unica risposta è quella di persone che accettano di dire: "Si, vale questa pena, sono pronto ad impegnarmi con te perché voglio che tu viva"; e colui che ha un'immagine "rotta", come l'ho chiamata io, di se stesso, ha bisogno di essere amato e riconosciuto in atti ed in verità, "non vengo con te per fare un lavoro e guadagnare il mio pane e la mia vita, non perché il tuo caso mi interessa, vengo perché sei una persona unica, degna di essere amata, sei una persona importante". E' nella misura in cui troveranno queste persone di buona volontà pronte a camminare insieme, che queste persone ferite nella loro psiche o nella loro intelligenza potranno trovare fiducia in sé, gioia di vivere, sicurezza interna; nella misura in cui ci si sente amati dagli altri si può cominciare ad amare se stessi; con molta pazienza, passo a passo, con molto tempo questa ferita di cuore che è stata provocata dalla nostra mancanza d'amore potrà rimarginarsi. Se il debole, il piccolo ha bisogno di persone pronte ad impegnarsi con lui, ha bisogno anche di una comunità, ossia di un ambiente di vita dove tutti cercano di fare l'unità, un ambiente di vita dove la sua personalità fragile, segnata dal fallimento si potrà sviluppare, strutturandosi in un clima di amore, dove ognuno cerca di vivere con e del dono degli altri, un ambiente nel quale avendo ritrovato una certa sicurezza potrà crescere e sviluppare la sua creatività, esercitando tutte le sue capacità e le sue potenzialità, un ambiente dove tutto è fatto in funzione dei bisogno di queste persone a cominciare dalle più povere. In una comunità il povero deve avere il primo posto ed i criteri di decisione della comunità saranno sempre in funzione dei fabbisogno dei più debole; la comunità non deve darsi delle regole, o delle strutture fisse, tutto deve essere adattato, elastico, tutto deve essere rimesso in causa in funzione delle necessità delle persone che evolvono. Questa risposta al grido dell'emarginato che ci chiama ad un impegno e ci chiama a costruire una comunità con lui ci può rinviare alla nostra propria povertà. La mia esperienza e quella di tutti coloro che si sono impegnati all'Arche accanto ai poveri è quella della scoperta dei limiti propri. Di fronte alle richieste di uno che è assetato d'amore c'è una enorme esigenza di verità. Nessuna ricetta funziona, davanti alla sofferenza non c'è una risposta immediata, non c'è veramente una soluzione, mi ritrovo con i miei limiti propri, sono portato a soffrire con gli altri e facendo ciò incontro la mia sofferenza e man mano scopriamo che siamo tutti handicappati. Impegnarsi su questa via accanto al povero è accettare di doversi trasformare, è accettare che qualcosa deve cambiare in noi stessi e mettersi alla sua scuola, una scuola di vita. Di fronte alla sofferenza scopriamo che è molto più importante essere rispetto al fare: se vogliamo che il debole cresca dobbiamo crescere insieme. Ci si rimette in causa sulla stessa nostra scala di valori, ci accorgiamo che man mano dobbiamo imparare a sfuggire ciò che è convinzione chiamare i valori della società; siamo chiamati a passare dal mondo dei dominio, dei successo, della prevaricazione, della ricchezza, della competizione, del rapporto di forza, per entrare in questo universo più nascosto, dove i valori sono l'ascoltare, il dialogo, l'accoglienza, la tenerezza e la compassione. Mettendo il debole da parte perché abbiamo paura di guardare la nostra debolezza, ci priviamo di quelli che vivono valori essenziali e possono aiutarci a riscoprire le cose. Mi ricordo, il primo anno avevo la tendenza di dire: qui imparo molto dell'uomo, l'uomo in genere, o almeno su una dimensione dell'uomo che si tende a nascondere; vivere giorno dopo giorno con esseri fragili a livello della loro psiche mi insegna molto sui limiti e sulla fragilità dell'uomo, sui danni che possono provocare lo sradicamento, il disprezzo, l'esclusione, l'assenza di amore; la vita dell'uomo comincia con la debolezza dei bambino e si conclude con la debolezza dei vecchio; tra questi due termini l'uomo adulto tende a rifiutare la debolezza. La società occidentale ha sempre più paura della morte, tende sempre di più a volerla cancellare, evitare di guardarla di fronte o di celebrarla. Come le nostre società rifiutano i nostri handicappati ed i nostri limiti; invece è nella misura in cui si accettano queste debolezze, questi handicap che si può accettare l'altro, che si può costruire qualcosa insieme. E' al cuore della mia debolezza che Gesù verrà ad incontrarsi. Vivere con il povero, il piccolo, amare quello che ha un comportamento strano, quello che ha un viso deformato, imparare a scoprire, ad arrivare ad un altro tipo di bellezza, cambiare lo sguardo che abbiamo, entrare in un altro universo dove la bellezza è quella del cuore. Si tende a dire che l'uomo è contemporaneamente testa, mano e cuore. Il povero non è ben dotato a livello della testa, non è molto produttivo, o non sempre, a livello della mano, ma vivere con lui significa riconoscere che ciò che conta nell'uomo è il cuore, la capacità d'amare, quindi, e se si riconosce ciò, non sono handicappati quelli che si credono handicappati; e ciò ci porta a sfaldare i nostri schemi, le nostre categorie, i compartimenti stagni, ciò ci porta ad arrivare ad un'altra cultura perché sono sempre stato colpito dal fatto che le persone che soffrono di un handicap hanno in un certo qual modo un'altra cultura, oltre ai sistemi, oltre alle ideologie; dato che sono cresciute all'ombra dei conformismo sociale, spesso parlano con sistemi espressivi diversi e vanno direttamente alla persona, toccano direttamente la persona. Questa cultura ha un senso straordinario dei contatto, dei gioco, dei senso dei sacro e della festa; ci riporta all'essenziale. Ho spesso occasione di viaggiare in paesi in sviluppo e sono colpito da questo fatto: la differenza tra la cultura dell'uomo cosiddetto normale e la cultura dell'uomo cosiddetto handicappato è un po' la stessa differenza che c'è tra la cultura occidentale e la cultura dei paesi in sviluppo; se vogliamo capire questi paesi in sviluppo dobbiamo imparare ad accedere a questa cultura che per molti ha tenuto ed ha conservato il segno ed il senso dell'essenziale. Vivere con il povero è far cadere delle paure, significa superare la paura delle nostre differenze per aprire un dialogo scoprendo il linguaggio dell'altro; questo linguaggio che spesso non è verbale, è un linguaggio dei corpo che ci porta spesso al silenzio. Questi gesti strani dei comportamento sono in realtà l'espressione di un linguaggio. Sono colpito da tutta l'energia che si impegna nei nostri paesi ricchi nella competizione tra l'est e l'ovest; si può dire che è una corsa fra forti, fra ricchi. Sprechiamo le nostre energie a batterci fra potenti mentre la scadenza che ci aspetta è quella di saper accogliere il povero e di mettere il povero nel cuore della società, di mettere il povero nel cuore della Chiesa; significa aiutarci a costruire la pace e fare l'unità. Il piccolo, perché non minaccia nessuno, perché è fragile, aiuta a creare l'unità attorno a sé, ci aiuta a superare le nostre ideologie, i nostri sistemi, le nostre differenze, ci aiuta a ritrovare il senso dei perdono, ci insegna che ognuno di noi è un unico e che un'unità deve rispettare le differenze. L'unità non è l'uniformità; si costruisce questa unità accettando l'altro che è diverso, il povero che vuole parlare direttamente con le persone. C'è un esempio sorprendente che ci viene da una delle persone che vive nella nostra comunità, Jean Claude, 35 anni, mongoloide, per 20 anni visse con la mamma in un appartamento minuscolo in un quartiere molto povero della cintura parigina, da 15 anni vive con noi nella nostra comunità. L'anno scorso avevamo deciso di organizzare, per un certo numero, un pellegrinaggio in Israele; Jean Claude faceva parte di questo pellegrinaggio. Era la prima volta praticamente che si imbarcava a bordo di un aereo e che si recava in un paese talmente diverso e lontano. Quando l'aereo fu arrivato, scendemmo dall'aereo con Jean Claude, ai piedi dell'aereo ci aspettavano soldati armati con il fucile mitragliatore; Jean Claude è andato davanti ad un soldato, gli ha teso la mano e gli ha detto "Alleluia!" Sono arrivato nel paese di Gesù". So che può sembrare singolare in questa riunione sull'Europa, che è un continente forte, che in passato ha assoggettato e dominato gli altri, fare qui l'elogio della debolezza; lo faccio semplicemente in nome di una piccola esperienza di vita che mi ha insegnato che se il debole, il marginale, attraverso le sofferenze ci dà un grido, un appello, contemporaneamente ha la risposta. Impegnandoci in questa lotta pacifica per aiutarlo a vivere apprendiamo a vivere noi stessi. Gesù ha promesso di rivelare i segreti di Dio a tutti coloro che si sarebbero fatti piccoli; io, per conto mio, ho ancora tanto da scoprire su questa via, su questo cammino. Sì, sono costretto a credere alla parola di S. Paolo: "Dio ha scelto ciò che c'è di pazzo e di debole nel mondo per confondere i saggi ed i potenti".

P. Leon:

Cari amici, grazie di poter condividere questa sera l'esperienza ed alcune riflessioni dopo 25 anni di vita comune con 60 persone che vivono e lavorano insieme, che hanno tutto in comune, che dispongono di 30.000 lire al mese a testa nel pieno cuore di Bruxelles. Diciamo che è nella città che bisogna tentare di essere presenti perché fra 10 anni il 90% della popolazione sarà urbana. Come essere dunque presenti nella città, in un quartiere popolare, conducendo una vita quotidiana esattamente come tutti gli altri, mostrano che nella vita quotidiana, nella vita di tutti i giorni, la vita ha un senso, che c'è la possibilità di costruirsi un avvenire e di scoprirvi lo spirituale, per essere una speranza per tutte le persone che ogni giorno hanno a che fare con loro? L'unica differenza è che siamo insieme e che tutto è in comune, non abbiamo più nulla e se non riusciamo più ad andare d'accordo, non potremo mai recuperare quello che avevamo, tutto sarà venduto e distribuito ai poveri. Voglio adesso darvi alcuni flash per mostrarvi l'urgenza, l'importanza di creare, di inventare, di moltiplicare le comunità sotto qualsiasi forma, le comunità più diverse. E' una evidenza il fatto che ci troviamo su questa via senza uscita. Esiste una porta, esiste una direzione, ma da che parte bisogna avviarsi? Da questa parte? Da sotto? Da sopra? Non si sa! Ed è per questo che bisogna moltiplicare le forme di comunità ed ogni comunità deve sapere quale è la strada sulla quale si avvia e quali sono i mezzi che userà in questa direzione. Nei momenti più gravi dell'avventura umana e della storia si ha bisogno che si innalzino degli uomini, delle donne, forse anche feriti, deboli, fragili, ma che con uno sguardo dicano sì alla vita, delle persone che osino vivere quello che è insperabile e che malgrado la loro crisi, malgrado il loro stato, abbiano per programma l'utopia e per i quali il sogno diventa realtà. Questi uomini, queste donne, testimoni dell'impossibile, non sono dei superuomini non sono delle stars, non sono neppure eroi, sono semplicemente degli uomini, delle donne: limitati, ma che hanno talmente sete di avvenire che non aspettano di essere perfetti per iniziare, non aspettano di avere le condizioni ideali per realizzare l'avvenire. Abbiamo bisogno di questi uomini, uomini che puntano interamente tutto sull'incontro con gli altri, che vogliono condividere la differenza che esiste tra l'uno e l'altro. Un flash rispetto alle istituzioni, alla politica. Siamo stati coinvolti certo nella politica, abbiamo avuto delle crisi, ma una volta superate queste crisi, posso dire e posso affermare che non realizzeremo mai il futuro, che non ci sarà mai un vera rivoluzione, che non ci sarà una vera Europa, se il piccolo, il ferito, non è coinvolto e non partecipa direttamente a questa costruzione; ora il piccolo, il ferito, colui che soffre, non sarà mai coinvolto se non esistessero uomini e donne che sono stati privilegiati dalla vita, che condividono la condizione di coloro che soffrono. La povertà è male, un male che bisogna combattere, ma si potrà combattere la povertà dall'interno soltanto se ci sono uomini e donne che hanno la vocazione di abbandonare tutto per vivere la povertà. E questo nei confronti delle istituzioni e degli organismi che appoggio e che sostengo: ma senza la comunità tutte le organizzazioni, le istituzioni, diventano disumane, centrifughe, cannibali addirittura, cannibali dico!. Questo significa che se l'istituzione non ha costantemente davanti a sé una comunità, che le ricordi perché l'istituzione esiste, che le ricordi l'essenziale, la fede nell'uomo, nell'umano, l'istituzione diventa cannibale e questo significa che mangia letteralmente tutto, mangia il migliore di tutti gli uomini perché la macchina possa girare. Senza comunità non avremo mai esperienze, e modelli, avremo soltanto dei regimi; inoltre la comunità ha per scopo non solo la liberazione materiale e sociale; se tutti i beni vengono messi in comune, non c'è bisogno di alcun sussidio, il problema è di non diventare ricchi; ma la comunità mira alla liberazione totale, integrale di qualsiasi uomo e di tutto l'uomo, la coni non libera soltanto i poveri, libera da tutti i pregiudizi, dalle angosce e dalle false sicurezze, la comunità dà il gusto della vita. La comunità, contrariamente all'ideologia, parte dalla vita, è per la vita, è nella vita; la comunità fa riflettere sulla vita: ci meravigliamo quando qualcuno muore, siamo sconvolti; dovremmo essere sconvolti in qualsiasi momento, sempre, di essere vivi. Questa vita che ci è pervenuta da miliardi di anni, di generazioni, di civiltà, tutta questa storia, questa vita diventa noi, noi stessi oggi. Tutta questa eredità ci è stata affidata e non possiamo più dividere la nostra vita, non possiamo più separare la nostra storia dalla storia.

(L'intervento è incompleto per mancanza della registrazione).