venerdì 31 agosto, ore 11.00

SCIENZIATI RACCONTATE I VOSTRI VIAGGI

Incontro con:

Tito Arecchi

Ordinario di Fisica superiore presso l’Università di Firenze e Presidente dell’istituto Nazionale di Ottica

Francesco Salamini

Direttore del Max Planck Institutfur Zucbtungsfurschung di Colonia

Modera:

Mario Gargantini

M. Gargantini:

Buon giorno e benvenuti. Oggi si parla molto di scienza, si descrive la scienza faraonica dei grandi progetti spaziali e della fisica delle particelle, la scienza che scruta le profondità della vita o quella che analizza e tenta di tenere a bada gli ecosistemi. Ma la scienza non è riducibile ai risultati, la scienza è un’opera dell’uomo e perciò dietro e prima dei risultati e delle scoperte, ci sono uomini, c’è un’esperienza vissuta che non viene raccontata: l’esperienza di una ragione che si cimenta con la realtà, la osserva, la fa oggetto d’ipotesi, la sottopone ad esperimenti. Oggi qui avremo la possibilità di incontrare due uomini che si occupano delle discipline di punta della scienza moderna nel campo della fisica e nel campo della genetica. Incominciamo con il professor Salamini che è uno dei più noti studiosi di genetica vegetale in campo mondiale. Sentiamo il suo racconto.

E Salamini:

Buon giorno a tutti. Io avrei preparato una lunga introduzione che si rifà alla mia storia degli ultimi 45 anni, ma che può essere interpretata come una rappresentazione critica di quello che è avvenuto in agricoltura, in particolare riguardo al problema della produzione del cibo. Quando ero piccolo tutti nella società sentivano singolarmente il problema di procurarsi il cibo, di produrlo. Lo ho avuto il mio primo contatto con la terra nella piccola azienda agricola di mio padre, in provincia di Milano. In quegli anni, tra il ‘45 e il ‘50, un’azienda agraria era autosufficiente dal punto di vista energetico e la produzione d’alimentari era in sincronia con l’ambiente. C’era un notevole impegno fisico delle persone che praticavano l’agricoltura ma c’era fondamentalmente una stabilità nella produzione del cibo. Nel periodo dal ‘50 al ‘60 ho frequentato una scuola agraria dove era già stato anche mio padre e qui ho avuto la prima forzatura culturale che è stata quella di aver capito, magari in modo sbagliato, che la natura equivaleva all’agricoltura. Essenzialmente nelle scuole d’agraria non s’insegnava la biologia, si usavano esempi che riguardavano esclusivamente piante coltivate o animali allevati s’imparava a conoscere gli alleati dell'agricoltore: i concimi, l'acqua, le cure colturali, ma non si arrivava ancora a comprendere che gli attori veri dell'agricoltura erano in realtà gli esseri vivi cioè le piante coltivate parte cosi centrale e gli animali allevati. Questi venivano considerati dell’agricoltura stessa da sfuggire all’attenzione. In questo contesto ho potuto imparare che anche in questo settore la ricerca e il sapere erano importanti. Ho anche imparato, e questo ci veniva detto ogni giorno, che è il lavoro dell’uomo che genera beni positivi. Dal ‘60 al ‘65, ho frequentato la Facoltà d’Agraria a Piacenza. Qui il contesto non era più l’agricoltura dei fattori che si preoccupavano quotidianamente di gestire la propria azienda, ma l’agricoltura del tecnico agricolo, l’agricoltura vera che stava diventando industria e che quegli anni scopriva la chimica come nuovo alleato. Alla Facoltà d’Agraria ho imparato la genetica. Il professor Bianchi, che era tornato dagli Stati Uniti, aveva portato in Italia la genetica delle piante e se ne parlava sempre. Con l’accesso a questo strumento culturale, è accaduto all’improvviso che quello che io avevo sempre considerato il corpo immutabile della produzione agricola, le piante e gli animali, in realtà non erano altro che fattori di produzione perché la nuova scienza c’insegnava che gli attributi di questi esseri vivi potevano essere modificati attraverso miglioramenti genetici. Dal punto di vista degli incontri professionali, in questo contesto mi sono reso conto che anche l’agricoltura fa parte di una specie d’industria e che, quindi, i beni vengono prodotti per ragione di scambio, non per ragione d'uso. Ho cominciato a capire la dinamica dei mercati e la conseguente necessità di rinnovare sempre i prodotti chimici usati in agricoltura perché i parassiti mutano e diventano resistenti. Da questa situazione ho ricavato un concetto generale che poi mi ha inseguito e che io ho inseguito negli anni che mi rimanevano, e cioè il concetto che l’uomo è capace di condizionare l’evoluzione degli esseri vivi. L’uomo è in grado di modificare gli attributi ereditari di una pianta o di un animale ed è in grado di piegarli a quello che lui vuole. Ho usato questo concetto evolutivo in senso professionale, perché quest’evoluzione sotto la spinta antropica era utile, consentiva di produrre di più, e l’ho usato anche per comprendere l’evoluzione in senso generale, per capire meglio la biologia degli essere vivi, e anche il ruolo di una specie come quella dell’uomo che pure è viva. Nel periodo che va dal 1965 al 1980 sono stato ricercatore al Ministero dell’Agricoltura e Foreste. In questi quindici anni mi sono accorto che stava sfumando il mio concetto di specie (grano, mais, canapa perché nella pratica agricola di quegli anni andava scomparendo quello che si era studiato sui libri: le rotazioni, la successione delle colture, la possibilità di fare un'agricoltura integrata tra mezzi di produzione e prodotti. La chimica aveva introdotto una così rande facilità di produzione da permettere le monocolture e nelle monocolture si perdeva il concetto di specie, ma si assumeva il concetto di varietà. In questo periodo la genetica si è rivelata uno dei mezzi più potenti per modificare gli attributi varietali delle piante coltivate. E’ il periodo della rivoluzione verde, è il periodo in cui interi continenti si sono affrancati dalla fame applicando intenzionalmente una strategia di produzione del cibo basata sul miglioramento degli attributi delle piante. In questa fase, dal punto di vista professionale, emergeva il valore del seme. Stato proprio dalla scoperta dei semi come alimento e per la riproduzione delle piante che nel neolitico, circa diecimila anni fa, è stato possibile inventare l’agricoltura e anche in epoca moderna il seme ha conservato la sua duplice prerogativa di prodotto finale e di mezzo produttivo. Negli anni tra il ‘65 e l’80 si è affermata la centralità della produzione sementiera e quindi la corsa alle varietà come oggetto di miglioramento agricolo, la corsa a quello che noi genetisti chiamiamo il "guadagno genetico". E’ nata la sicurezza che l’agricoltura aveva ottenuto finalmente un potentissimo alleato. Alla fine degli anni Settanta l’agricoltura industriale raggiunge il massimo: l’alto impiego d’azoto, pesticidi, macchine, genotipi estremamente raffinati, acqua sosteneva un modello d’agricoltura intensiva ed estremamente produttiva, a basso impiego di lavoro manuale, ad elevati investimenti di capitali e mezzi tecnici, capace di produrre derrate a bassi costi. L’agricoltura tecnologica, al massimo del suo splendore, portava però già in sé i germi del tramonto dell’agronomo classico, un tramonto che si compirà nel periodo successivo, dall’80 al ‘90. Io ho passato quegli anni ancora presso il Ministero dell’Agricoltura e in parte in Germania, dove i contesti sono improvvisamente e radicalmente cambiati. Sono venute in ausilio a chi si interessava di produzione di cibo alcune tecniche basate sulla biologia molecolare, tecniche con le quali potevano essere cambiati gli attributi produttivi di piante ed animali con l’inserimento di un gene. Per noi che eravamo abituati ad un guadagno genetico ottenuto nel corso di generazioni, d’anni, attraverso molte selezioni, era una novità drammatica. Da una parte ci veniva detto che esisteva la possibilità di intensificare il processo scientifico, dall'altra però capivamo che l'agricoltura intensiva stava presentando dei problemi ambientali. Da questa contrapposizione tra la possibilità di incrementare la nostra capacità scientifica e il dubbio che questo potesse provocare degli effetti irreversibili sulla Terra, è nato un bisogno molto sentito alla fine di questo decennio: il bisogno di nuove etiche per far fronte al fenomeno di perdita di variabilità genetica del pianeta. G.). Ci si pone il problema di vedere come questa nuova scienza, la biotecnologia, può essere costretta dentro limiti accettabili e quanto siano lecite le modifiche alle linee seminali delle piante e degli animali. E’ chiaro comunque che quanto più introduciamo scienza nei nostri processi, tanto più qualcosa comunque sfugge dal nostro controllo. La crescita della popolazione sul pianeta genera una spinta sulla scienza e chiede delle risposte, ma questa spinta genera anche uno stato di crisi, perché accentua gli effetti ambientali di un super sfruttamento del territorio e del terreno per produrre il cibo. In pratica oggi, e sono alla fine di questa lunghissima introduzione, viviamo uno stato di crisi profonda, uno stato di contrapposizione profonda: da una parte sappiamo che dovremmo abbattere più foreste e intensificare di più l’agricoltura se vogliamo produrre più cibo, dall’altra sappiamo che dovremmo rimboschire i territori già privati delle foreste e dovremmo praticare un'agricoltura estensiva per rimediare a questa erosione della variabilità genetica e alla contaminazione d’aria, acqua e suoli. Le speranze tecnologiche sono tali per cui oggi si dice di far nascere un biologo agrario al posto di un agronomo e si cerca di immettere nel sistema più biologia e meno chimica. In termini di professione, esiste chiaramente il problema della responsabilità scientifica. Noi oggi possiamo decidere la storia e il grado d’evoluzione degli animali e delle piante che da diecimila anni ci servono in agricoltura ma, nel momento in cui una tecnologia come questa diventa disponibile, dobbiamo anche capire che è in grado di modificare profondamente la società in cui viviamo. La storia degli ultimi decenni, ma particolarmente di questo ultimo anno, ci insegna che i grandi esperimenti sociali di questo secolo sono falliti, non riusciamo a fare un uomo nuovo basandoci sull'ideologia, ma dobbiamo accettare l’idea che la tecnologia può cambiare il nostro modo di esprimerci e addirittura il nostro modo di pensare più di quanto l’ideologia è riuscita e riuscirà a fare. Ora noi sappiamo che la scienza e la tecnologia apparentemente sono in grado di contribuire a risolvere i problemi e le contrapposizioni che abbiamo prima evidenziato, però è stato anche scritto che la convinzione che i dilemmi creati dalle macchine si possano risolvere semplicemente inventando altre macchine, è il segno di un modo di pensare che si avvicina alla ciarlataneria. Il mio atteggiamento di ricercatore soffre, in questo contesto, di una certa ambiguità. Personalmente però io mi sono convinto della positività insita in questa novità biotecnologica e penso ad un mondo in cui venga fatto divieto di arare nuove terre, un mondo dove l’intensificazione agricola venga spinta necessariamente avanti usando più biologia e meno chimica, dove la biomassa animale allevata in funzione dell’alimentazione umana diminuisca radicalmente (e questo vorrebbe dire diventare poco vegetariani), dove la rinuncia alla distruzione della vegetazione selvatica nei Tropici e Subtropici e il controllo della riproduzione degli uomini vengano ricompensati in termini economici dalle nazioni sviluppate. In particolare, nel campo della responsabilità scientifica, sono da considerare i rischi che possono derivare dall’introduzione degli organismi geneticamente modificati nell’ambiente, rischi che la casistica disponibile indica com’esistenti Però mi sembra che oggi, specialmente in Europa centrale, sia un po’ troppo dibattuto il problema della biotecnologia in funzione del rischio e non si consideri sufficientemente quella che è la causa vera del drammatico rapporto agricoltura-ambiente che essenzialmente trae la sua origine nel rapporto tra numero d’esseri umani e risorse disponibili. Affrontiamo ora le responsabilità etico-sociali. Di fronte a questa fase evolutiva per l’agricoltura è necessario almeno prevedere e discutere quali cambiamenti sociali essa può indurre. Si può per esempio intravedere che il seme diventerà sempre più centrale rispetto al processo produttivo. Sembra che oggi si voglia tendenzialmente delegare in larga parte all’industria privata il controllo sul seme. E’ evidente che la corsa alla brevettazione di quanto d’utile esce dai laboratori tecnologici potrebbe accentuare alcuni effetti negativi connessi ad una possibile evoluzione sociale, economica e anche culturale relativa all’uso della scienza. Qui è evidente il motivo della mia posizione personale che vorrebbe una presenza sempre agguerrita e profonda dell’università o delle istituzioni pubbliche di ricerca, per rendere accessibili e pubblici gli avanzamenti di questa particolare scienza. Dal punto di vista etico, le posizioni rispetto ai problemi trattati differiscono a seconda degli atteggiamenti di fondo che si assumono. Il cosiddetto modello etico personalista si rifà al principio antropocentrico che vede nell'uomo il punto di riferimento per l’armonia ecologica e biologica dell’Universo e dice che non si deve manipolare geneticamente il mondo animale e vegetale, oltre ai limiti della conservazione dell’ecosistema compatibile con la vita e la salute dell’uomo. Questo principio etico personalista è abbastanza fisso e riconosce una scala assiologica, una scala di valori nel creato, che vede i microrganismi al livello più basso, le piante un poco più su, gli animali ancora un po’ più su e l’uomo alla fine. Ci sono però movimenti che non riconoscendo queste differenze assiologiche tra piante, animali ed uomo, professano un rispetto a base morale per ogni organismo vivo e si oppongono in modo assoluto all’intervento trasgenico che altera l’integrità delle specie esistenti. Io riconosco che è difficile oggi, in una situazione così in evoluzione, parlare di modelli etici fissi però vorrei dirvi, al di là di queste preoccupazioni, in che cosa e come sono stato personalmente influenzato dalle conoscenze che ho recepito e dalle esperienze che ho vissuto, in pratica, quale senso ha avuto la mia avventura nella biologia. Nell’arco della mia vita, è emersa dal profondo la voglia di una definizione dell’uomo, la scoperta del significato dell’aggettivo "umano". In questo senso dagli incontri professionali possono emergere abbozzi di risposte che, pur soggettivi, sono un’esperienza da discutere. In questo ambito, avendo mantenuto centrali i miei interessi professionali sul problema dell’evoluzione dei viventi, ho anche cercato di estenderlo alla nostra specie, soprattutto alla sua capacità di autoanalizzarsi. Questa ricerca di auto analisi è però un terreno minato, lo studio del comportamento degli uomini ha, infatti, reso chiaro che l’introspezione è spesso inutile quando prescinde da uno dei suoi presupposti e cioè l’onestà verso se stessi. E qui entra la scienza, in particolare l’etologia. Infatti, è scientificamente provato che siamo capaci di nasconderci che l’umiltà del sentimento religioso sorge quando l’uomo capisce di essere una parte di un tutto incomparabilmente più grande di lui. Lo stupore di Lorenz, indubbiamente ancora materialista, sulla grandezza e meraviglia del mondo, lo porta a concludere che se ci rendiamo conto di essere tutti insieme in questo mondo, noi comprenderemo che di questo mondo portiamo tutta intera la responsabilità, allora non vedremo più l’uomo come lo vede Monod, come uno straniero solo e sperduto ai margini dell’universo, né lo vedremo come lo vede l’idealismo trascendentale di Kant, come il polo opposto, e l’antagonista di un mondo in se stesso e per principio inconoscibile; secondo Lorenz l’uomo è un anello nella catena delle forme viventi e ci sono buone ragioni per pensare che egli sia soltanto un gradino nella scala che porterà ad un essere realmente umano. Anche nell’atteggiamento di Lorenz c’è una traccia chiara dell’assunzione di un assioma di valore. Ora, io ho citato queste ultime riflessioni di biologi per almeno quattro motivi. Primo perché la biologia è diventata preponderante nella mia professione e l’ho accettata anche nei suoi tentativi di interpretazione del mondo delle idee. Secondo perché merita sempre di dirsi e di dire che è importante pensare al senso dell'avventura, della nostra avventura anche se non si è catalogati come filosofi o intellettuali. Terzo, perché il tendere questa realtà che ci invade e mettersi in una posizione positiva di domanda, di apertura alle emozioni del mondo, al rapporto con gli altri e al rapporto col mondo. Probabilmente in noi scienziati della natura, per questioni psicologiche o di storia personale, c’è più sensibilità agli aspetti del mondo e meno attitudine alla cordialità nei rapporti con gli altri. In questi anni abbiamo scoperto due limiti fondamentali che hanno rappresentato il recinto al di là del quale noi non riusciamo ad andare quando facciamo scienza. Un limite è quello di cui io mi occupo professionalmente da qualche decennio e che caratterizza l’attività di tutto il mio istituto: la scoperta del caos deterministico. Il caos deterministico è un limite fondamentale alla presunzione di predire come sarà il mondo. Io trovavo commovente e puerile la presunzione con cui Wilson pensava di aver capito quali circuiti cablati del nostro encefalo determinano il nostro spirito religioso perché la nostra conoscenza al riguardo è oltremodo incerta. Non capiamo neppure i semplicissimi oggettini inanimati in laboratorio, figuriamoci se capiamo l’istinto religioso. Un altro limite ancora più fondamentale risale al 1931 ed è il cosiddetto teorema di indecidibilità di Godel. Il teorema di Godel dice che qualunque teoria scientifica o qualunque macchina di calcolo si blocca di fronte ad un limite fondamentale, sciorinando una catena di deduzioni che non si sa se sono vere o false. Questa situazione richiama un’altra patologia del nostro cervello: l’epilessia. L’epilettico si blocca fra una posizione e l’altra e non ne esce più. Molte delle nostre macchine di calcolo e molte delle nostre teorie scientifiche, a un certo punto si bloccano, continuando a oscillare tra due cose, bianco e nero, e non sono in grado di fare una scelta. Nella nostra vita di ogni giorno, come esseri umani molto più modesti della circuiteria di un grosso, presuntuoso calcolatore e avere tutta la teoria elaborata in decenni nei grossi laboratori, noi non ci blocchiamo perché riusciamo a fare delle scelte. L’ubriacatura di questi trecento anni che sono intercorsi tra Galileo e noi può essere chiamata monismo riduzionistico: esiste un solo linguaggio privilegiato per raccontare il mondo, il linguaggio scientifico, quindi non c’è spazio per linguaggi alternativi come quello religioso o quello poetico; questi non sono altro che modi primitivi, mitici di parlare del mondo, destinati a venire meno. Da questa presunzione nata ai tempi dell’Illuminismo, dell’Enciclopedia, ci si difendeva dividendo la realtà in due classi di eventi: quelli di cui parla la scienza e quelli di cui la scienza non può parlare. Definirei questa attitudine dualismo manicheo. Nel Settecento si ammetteva l’esistenza di aspetti della realtà indagabili scientificamente da cui Dio è escluso e aspetti di cui la scienza non poteva parlare, aspetti che restavano argomenti del teologo attraverso cui si poteva arrivare a Dio. Questa posizione è pericolosa, perché nel corso di questi due secoli a poco a poco questo confine si è spostato e noi scientifici abbiamo invaso anche il campo che era dominio riservato dei teologi. Il punto di vista più razionale, più sensato, è quello che chiamerei "pluralismo realistico". Qualunque evento è così ricco rispetto agli strumenti concettuali con cui noi cerchiamo di descriverlo, che è suscettibile di letture differenti. Un oggetto può essere visto sotto il versante fisico ma c'è modo di vederlo anche sotto il versante teologico o sotto il versante sapienziale e nessuno di questi lo esaurisce. Che tipo di linguaggio è il sapienziale? Rispondendo come scienziato dico che il linguaggio sapienziale è quello che evita il teorema di Godel, l’indecidibilità, e si basa su questa teoria elastica: quando non riesco ad affrontare un pezzo di mondo con la fisica allora, da opportunista, metto da parte la fisica e l’affronto da un altro punto di vista, come padre di famiglia, o come sportivo o come uomo che prende il treno e che si deve districare nelle code cerco cioè qualunque altra strategia che mi permetta di aggirare l’ostacolo per arrivare a fare delle scelte. Questa è la nostra situazione umana. Rispondendo come uomo e come credente dico che il linguaggio sapienziale è soprattutto quello che si nutre direttamente, o nella meditazione o nella preghiera, della parola di Dio, saltando le scienze umane, probabilmente è quello che aveva Maria, la fanciulla di Nazareth che di fronte all’annuncio dell’angelo, ha dato una risposta precisa, ha fatto una scelta, non si è bloccata, come una teoria o una macchina di calcolo. Questo pluralismo realistico, questo modo di affrontare la realtà che non privilegia un solo punto di vista è la strategia vincente anche nel fare scienza. Perché se io volessi fare il fisico in senso puro a un certo punto mi bloccherei e lo stesso accadrebbe a Salamini se dovesse fare il biologo da un punto di vista puro. A un certo punto c'è l’irruzione di valori o di parametri di giudizio che noi, inizialmente, non avevamo preso in considerazione nella teoria. Possiamo poi reintrodurli in una teoria allargata ma in ogni caso, al momento, noi non li abbiamo. Prendiamo i simboli del linguaggio ordinario, in particolare prendiamo i simboli un uccello qui, nel nostro spazio dei simboli, noi in qualche centro del linguaggio, noi immagazziniamo la parola uccello. Dopo di che, senza andare a riconfrontarci con la realtà, noi possiamo cominciare a fare delle previsioni. Abbiamo alle spalle, per tradizione storica, per educazione culturale, delle regole sintattiche che ci permettono di connettere dei simboli relativi ad osservazioni già fatte. Quindi, una volta visto il gatto, una volta visto l’uccello, noi possiamo costruire frasi grammaticalmente legali, tipo: il gatto mangia l’uccello". Domanda: se noi andiamo a guardare la realtà, succede veramente che il gatto mangi l’uccello? Cioè, questa predizione si avvera? Non è detto che si avveri sempre. Perché? Perché le parole che abbiamo usato sono ambigue. Quando io parlo di uccello posso pensare a un passerotto che entra nella bocca del gatto ma io uso anche la parola uccello per parlare dell'aquila, allora in quel caso sarà l’uccello a mangiare il gatto. Ora, voi vedete quindi la seguente strategia: io estraggo dalla realtà dei simboli, poi li connetto con ricette di cucina che mi vengono dalla grammatica e faccio delle frasi sensate e queste frasi sensate corrispondono a predizione, non è detto che sia vera, appunto perché c’è questa ambiguità. Questo vi spiega perché mai Galileo abbia creato la sua rivoluzione. La rivoluzione di Galileo, che è alla base della fisica, consiste nel cercare di evitare questa ambiguità. E come la si evita, la si evita così, guardate: fra spazio della realtà e spazio dei simboli mettiamo di mezzo degli apparati di misura; gli apparati di misura danno in uscita dei numeri, per esempio il livello di liquido in un termometro o la posizione su un metro dove arriva la lunghezza di un oggetto oppure l’aghetto di una bilancia. Ora, se noi prendiamo gli strumenti di tre secoli fa, quelli che sono al Museo di Storia della Scienza di Firenze, gli strumenti degli allievi di Galileo, li oliamo e li lubrifichiamo per togliere un po’ di polvere, quelli danno esattamente gli stessi numeri che davano tre secoli fa; non c’è ambiguità: nella stessa condizione danno gli stessi numeri. Un termometro di Torricelli messo qui nella stanza in questo momento darebbe 45 gradi, come avrebbe dato ai tempi di Torricelli se ci fosse stata una tenda di queste, perverse e diaboliche. Dunque, allora avete capito che la strategia della fisica è dare i numeri, e non sto scherzando perché, una volta che noi abbiamo immagazzinato non più dei simboli-parole, ma dei simboli-numeri e questi sono privi di ambiguità, sono dati una volta per tutte, questi numeri li possiamo connettere con la sintassi specifica con cui si legano i numeri, cioè con la matematica, abbiamo delle risposte ben precise, e quelle risposte corrispondono a delle predizioni. Quindi quando Francesco Salamini vi parlava di Scienza uguale Potere si riferiva a questa logica di Galileo e di Bacone, che la Scienza permette delle predizioni, e queste predizioni non sono incerte o ambigue come il gatto che mangia l’uccello e l’uccello che mania il gatto, lì non c’è santi, succede quello che dicono la soluzione delle equazioni. Ma allora questo sembra la soluzione di tutti i nostri problemi, del senso che vogliamo dare alla vita e alla realtà, fidiamoci della scienza perché la scienza ha la ricetta giusta. Avete capito quindi quale è il succo dentro cui ci stiamo dibattendo da un paio di secoli, la scienza da risposte giuste perché la scienza da i numeri, mentre gli altri danno parole e le parole sono sempre sfumate. Visto che siamo in questi termini prendiamo per buono quello che dice questo socio-biologo Willson e andiamocene a casa, evitiamo l’ammirazione perché tutto è già contenuto nei numeri di partenza e in questa specie di ricetta di cucina che è la matematica che li manipola, allora non c’è più posto per la meraviglia. E invece sì che c’è posto per la meraviglia, per il semplice motivo che questo programma riduzionistico fallisce a vari livelli. Il primo livello a cui fallisce è il seguente: la dinamica di Newton permette di dare una risposta precisa al futuro dell’Universo, di un Universo meccanico, una volta che noi lo abbiamo osservato in un certo momento. C’era un meccanico celeste, Pierre Simon De la Place che quando Napoleone gli domandava: "Come mai nel suo trattato di meccanica celeste non si nominasse mai Dio?", lui disse: "Sire, è un ipotesi di cui non ho bisogno, datemi le condizioni di tutte le particelle dell’Universo in questo momento e vi predirò il futuro.", Ma questa è un’enorme balla. A questo punto, se Mario Gargantini me lo permette, vorrei dirvi un’altra cosa. Finora vi ho parlato del concetto di emozione che opera la presa della realtà, ma al prezzo di una forte ambiguità. Da queste ambiguità noi non usciamo. Non ne uscì a livello della meccanica quantistica Einstein, non ne usciamo a livello della fisica classica e della meccanica classica di tutti i giorni, delle biglie in un flipper per effetto di questo caos deterministico. C’è un ulteriore limite che stiamo esplorando, che abbiamo cominciato ad esplorare da pochissimo, e che noi chiamiamo la complessità. Vediamo se riesco a farvi capire che cos’è la complessità. Aristotele aveva un modo molto semplice di dirlo: la casa non è l’insieme dei mattoni che la fanno, se io vi do qualche migliaio di mattoni, un pochino di travetti in cemento armato e un po’ di vetri ed infissi per finestre, qualche water e qualche bidè, voi vi potete fare l’idea di decine o migliaia di case differenti, perché la casa non è soltanto quegli oggetti materiali che la compongono, ma è quella più il progetto dell’architetto. Noi come fisica, dando i numeri, possiamo descrivere la dinamica dei componenti, dei pezzi di materia che stimolano i nostri apparati di misura, ma il progetto ci sfugge, o lo dobbiamo ricostruire noi per via mentale, in un certo senso facendo la mimica del processo di Dio, ma siccome che cosa effettivamente abbia voluto far dire o come abbia voluto fare noi lo sapremo soltanto nell’altra vita, allora dobbiamo mettere in moto diverse strategie. Da questo punto di vista in termini veritativi, non è assolutamente vero che il biologo o il fisico ne sappia di più del poeta o del visionario o del teologo. Cerchiamo allora di vedere cos'è questa complessità perché il di più differisce dal meno. Vi faccio un esempio elementare: supponiamo di prendere un circuito binario. Voi sapete cosa sono i circuiti binari, sono quelli che hanno due lampadine, una rossa e una bianca e o si accende la rossa, o si accende la bianca. Bene un circuito binario ha due stati, se noi prendiamo due circuiti binari, l’insieme di due circuiti binari non ha due stati, ma ne ha quattro perché possono essere rosso o bianco oppure bianco e rosso, oppure rosso e rosso oppure bianco e bianco. Se io metto insieme cinquanta circuiti binari, l’insieme dal punto di vista elettronico è un oggettino grande quanto la mia unghia, quanti stati ci sono? Se io voglio fare una descrizione completa di questo mondo fisico molto semplice noi abbiamo due alla cinquanta stati possibili, due alla cinquanta lo leggete tutti ora, due alla cinquanta vuol dire approssimativamente dieci alla quindici. Vi sto descrivendo un oggetto semplicissimo che ha una semplicità molto più semplice del livello di una pulce o di un verme. Dieci alla quindici stati, supponiamo di avere il calcolatore più veloce del mondo e di riuscire a descrivere un singolo stato in un milionesimo di secondo. Quanti secondi ci occorrono? Ci occorrono dieci alla quindici diviso dieci alla sesta, uguale dieci alla nove secondi. Sono troppi o sono pochi? Sappiate che in un anno ci sono circa dieci alla sette secondi, un po’ di più di tre per dieci alla sette, quindi dieci alla nove secondi è un tempo dell’ordine dei trent’anni. Quindi il calcolatore più veloce del mondo per descrivere un oggetto elementare fatto da cinquanta circuiti binari, ha bisogno in questo momento di trent’anni. Voi capite che quindi la maggior parte delle nostre descrizioni scientifiche, escluse quelle che noi mettiamo come esercizi per bocciare gli studenti al liceo o all’università di solito richiedono dei tempi astronomici, quindi noi non diamo mai delle soluzioni esatte, noi vi inganniamo quando diciamo: diamo i numeri; diamo i numeri ma diamo i numeri sbagliati, nel senso che noi diamo delle approssimazioni piuttosto grossolane. Allora noi possiamo vedere la frontiera, il resto del viaggio che ci resta da affrontare come un programma senza fine. Finora nei primi trecento anni ci siamo trastullati soltanto da un angolino della fisica e in base a questo angolino abbiamo creduto di poter pontificare su tutto: sulla crisi del Golfo, sulla crisi politica, su come si educano i figli, sui problemi di morale sessuale; abbiamo sbagliato tutto e ci siamo accorti che il mondo era tutto fuori dalle nostre scatoline. Bene, spero di non avervi, soprattutto i giovani, dissuaso da questa avventura intellettuale della scienza che invece è estremamente affascinante. Grazie.

M. Gargantini:

Abbiamo sentito, e chiudo con una battuta velocissima, raccontare due percorsi umani diversi, differenti. L’elemento comune si può cogliere nel fatto che, nell’incontro con la realtà, lo scienziato deve giocare tutto se stesso, tutta la persona, si deve implicare tutto intero, deve amare la realtà per comprenderla, come diceva Arecchi e come ci ha fatto percepire Salamini. Ecco, allora, mi pare che si possa concludere dicendo che questo modo di incontrare la realtà amorevole è pluralistico, nello stesso tempo è il modo più giusto, più corretto per far sì che l’avventura della conoscenza scientifica sia un’avventura pienamente umana e soddisfacente.

T. Arecchi:

Volevo leggervi due versi di Thomas Eliot. Vengono da uno dei "Quartetti". "Dov’è la sapienza che abbiamo perso in conoscenza? Dov’è la conoscenza che abbiamo perso in informazione?". Allora vedete che c'è una gerarchia. La sapienza è l’obiettivo che noi dobbiamo raggiungere, la cosa a cui dobbiamo tendere. Molto spesso noi prendiamo come surrogato la conoscenza, e allora ci crediamo degli scienziati. Ancora peggio, spesso noi surroghiamo la conoscenza con l’informazione, quella che ci da il Telegiornale o il giornale o quella che ci da l’elenco del telefono. Questa è la peggiore specie, la specie inferiore. Quindi io inviterei chiunque di noi, a cominciare da me stesso, dai vecchi ai giovani, a fare la scalata dalla informazione alla conoscenza e dalla conoscenza alla sapienza.