L’imprevisto nella scienza.
Dalla materia oscura alle proteine

Martedì 20, ore 18.30

Relatori: Sergio Riva,
Paolo Salucci, Chimico del C.N.R. di Milano
Astrofisico presso la Scuola
Internazionale Superiore degli
Studi Avanzati (SISSA) di Trieste

Salucci: Cercherò di spiegare uno degli imprevisti maggiori che ci sono stati negli ultimi anni in cosmologia: l’esistenza della materia oscura.

Faremo una specie di viaggio nell’universo, partendo dalla stella a noi più vicina, il Sole, che fa parte della nostra galassia, dove ci sono tantissime stelle, alcune delle quali in formazione, altre più anziane e altre ancora alla fine della loro vita. Il Sole è una piccola stella e sta in una regione piuttosto esterna della nostra galassia.

Una galassia è costituita da una componente fondamentale, la luce: questo vale anche per le galassie lontane da noi, che riusciamo a vedere proprio grazie alla luce delle numerosissime stelle che ne costituiscono la struttura. L’energia gravitazionale di tutta la materia della galassia è controbilanciata dall’energia di rotazione: una qualsiasi stella per poter stare ad una certa distanza dalla galassia deve ruotare con una velocità data dalla distribuzione di tutta la massa. Qui troviamo un primo aspetto imprevisto, un fenomeno scoperto intorno agli anni ‘80: la luce che noi vediamo non è la componente di massa, quindi le stelle che noi riusciamo a vedere non fanno tutta la storia della struttura della galassia. Questo ha portato a riconoscere con evidenza che esiste della materia oscura, cioè della materia di cui si sente l’attrazione gravitazionale ma che non si vede.

Questo imprevisto è risultato collegato alla legge di gravità. In che modo? La velocità con cui la Terra – o Marte o qualsiasi altro pianeta – gira intorno al Sole, è proporzionale alla distanza del pianeta dal Sole alla meno un mezzo, come ha scoperto per primo Newton. Questa è la legge di forza di attrazione gravitazionale: questa legge, collegata anche alle leggi di Keplero, dipende dal fatto che tutta la massa del sistema solare è concentrata nel Sole. Se si vedesse che questa relazione non è più alla meno un mezzo, si dovrebbe postulare o l’esistenza di materia oscura che modifichi la legge di gravità, oppure che questa modificazione della legge di gravità sia dovuta al fatto che la legge di gravità stessa è sbagliata... ed infatti il pianeta Plutone è stato scoperto proprio in questo modo, quando si è realizzato che i rapporti tra le velocità o le posizioni non erano esattamente newtoniane, e che quindi c’era della materia oscura e degli altri pianeti.

Quanto succede nel sistema solare succede anche nelle galassie: nelle regioni più esterne: la velocità di rotazione invece di diminuire perché è finita la materia, continua a rimanere costante, addirittura aumenta: ci sono dei materiali (piccole nubi di idrogeno) che si estendono fino a distanze 2 o 3 volte la parte visibile della galassia, e che ruotano con una velocità incompatibile con l’idea che la galassia termini lì. Quindi esiste una zona, grande circa 3 o 4 volte la zona della galassia in cui è presente, che non si vede, ma la cui massa è circa 10, 20 o 30 volte la massa visibile.

La stranezza di questo fenomeno imprevisto è che questa scoperta è stata fatta non con i migliori telescopi e non nei migliori o più importanti osservatori, ma da alcuni gruppi americani, ed è stata accettata da tutta la comunità scientifica in un modo piuttosto immediato, forse troppo. Infatti non si è discusso abbastanza sulle proprietà e sulla natura della materia oscura, che rimane a 15 anni da quella scoperta totalmente sconosciuta: quanta ce n’è? e soprattutto che cosa è? Sono state formulate varie possibilità, cui ora accennerò brevemente.

La prima è che si tratti di materia ordinaria – come la materia presente in questa stanza –, dovuta soprattutto a neutrini, particelle conosciute, sempre che questi neutrini posseggano effettivamente una massa, il che è per ora ignoto. Una seconda possibilità è che la materia oscura siano black holes, buchi neri, che non emettono nessuna luce ma che hanno una massa; un’altra possibilità – in realtà molto remota – è che siano delle stelle diverse da quelle che noi conosciamo, stelle debolissime che hanno una massa ma che hanno una luce talmente debole da risultare per noi invisibili. Un’altra possibilità ancora è che la natura della materia oscura sia esotica, cioè che si tratti di particelle non conosciute secondo il modello standard, la cui principale proprietà sarebbe quella di avere una massa, ma di non interagire elettromagneticamente, così che noi non riusciamo a vederle attraverso la luce. Oppure, ipotesi ancora più strana, queste particelle potrebbero addirittura essere delle forature dello spazio-tempo, che hanno una massa ma che non interagiscono in modo normale come le particelle ordinarie.

Quali sono le proprietà di questa materia oscura? Circa il 90% di tutta la massa esistente dell’universo è oscura: la materia che noi vediamo in stelle, gas, molecole e così via, è poco più dell’1,2% della massa dell’universo che noi riusciamo a stimare. La materia oscura, nonostante non sia luminosa, è collegata alla distribuzione della materia luminosa: così se io so quanta è e dove è la materia luminosa, so anche identificare quanta è e dove è la materia oscura. Questo fenomeno significa che le due materie sono collegate e hanno avuto una storia insieme: quindi capendo da dove venga la materia oscura e soprattutto quale ne sia la natura si potrebbe capire effettivamente tutta la cosmologia e la storia di tutto l’universo.

Un’altra prova dell’esistenza della materia oscura sono le lenti gravitazionali: ci sono delle distorsioni dovute a campi gravitazionali di oggetti lontani dietro le galassie, così se osserviamo un cluster, un aggregato di galassie, esse ci appaiono un tantino distorte, allungate in varie direzioni, come se ci fosse dietro una lente che le fa apparire sferiche. Questo è dovuto ad un effetto previsto da Einstein, una deformazione dovuta al campo gravitazionale di questo cluster. Questa è una prova dell’esistenza su scale extra-galattiche della materia oscura, perché se si supponesse che tutta la materia è associata alle galassie che si vedono, non si potrebbe spiegare questo effetto, effetto che risulta invece spiegabile soltanto ammettendo l’esistenza al centro del cluster di una enorme massa, naturalmente invisibile.

Negli ultimi dieci anni sta emergendo un numero sempre maggiore di prove su ogni scala della presenza di materia, che viene rivelata attraverso vari metodi dinamici, ma non dalle fotografie né dai nostri rivelatori ottici. Il fenomeno acquista così una sua globalità, che interessa tutto l’universo: non occorre soltanto dare una spiegazione di cosa sia la materia oscura nelle nostre galassie, ma bisogna vederla anche al di fuori, in tutto l’universo. Sembra così che la maggior parte della massa dell’universo sia ancora da scoprire, e questo ha portato negli ultimi dieci anni a rivedere tutta la cosmologia, dato che uno degli attori principali della storia dell’universo è proprio questo attore sconosciuto. È chiaro infatti che qualunque struttura noi vediamo nell’universo si è formata per lo meno con il concorso anche di questa materia che noi non vediamo. Tutto diventa più complicato ma anche più interessante, perché dà la possibilità di poter rispondere in modo diverso ai problemi standard della cosmologia (se l’universo è aperto o chiuso, se e quando finirà...).

Circa 30-40 anni fa il problema fondamentale del fato dell’universo – ovvero la sua origine, la sua creazione – era stato affrontato in modo molto serio, ma ad un certo punto si era arrivati ad una sorta di empasse, perché sembrava che non si potesse, dal punto di vista osservazionale, rispondere alle domande filosofiche che erano in gioco. In realtà si è visto che in molti di questi problemi non si teneva conto del fatto che uno dei giocatori era oscuro, giocava in modo coperto e confondeva moltissimo il campo. Ora che si sa dell’esistenza di questa altra componente, forse le domande fondamentali dell’universo potranno essere riportate alla loro semplicità.

Riva: Per non dover usare una simbologia ostica e incomprensibile alla maggior parte delle persone presenti, non entrerò nel dettaglio del lavoro che svolgo se non per brevi cenni, ma cercherò di presentare le parole chiave – proteina, enzima... – che permettono di descrivere il settore in cui lavoro e di trarre da lì alcuni esempi dell’imprevisto in cui ci si imbatte nel lavoro scientifico.

Per arrivare a parlare di proteine dobbiamo partire dall’atomo di carbonio, uno dei costituenti fondamentali della materia organica, che può essere raffigurato come una pallina a cui sono attaccate quattro altre palline: è una struttura a cui sono attaccati dei sostituenti. Negli amminoacidi all’atomo di carbonio sono attaccati quattro sostituenti: un gruppo amminico, un gruppo acido, un atomo di idrogeno, e poi uno dei venti sostituenti diversi, che definiscono i venti amminoacidi presenti nella maggior parte nelle proteine. La parte acida si lega con la parte amminica e interagendo formano un legame chiamato legame peptidico: questo è il modo in cui gli amminoacidi si legano a costituire le proteine. Quindi le proteine sono un insieme ordinato di amminoacidi.

Uno dei problemi principali incontrati nello studio delle proteine e delle loro sequenze di amminoacidi è come avere un’idea di queste strutture, dato che non si possono fotografare né vedere. Il metodo che è stato utilizzato e che sta diventando sempre più perfezionato, grazie anche ai computer moderni, è l’elaborazione matematica dell’immagine data dagli spettri di diffrazione ottica. È così possibile ricavare la struttura delle proteine: esse infatti, al pari di strutture più macroscopiche come i minerali, possono dare dei cristalli – ovviamente sono dei cristalli molto piccoli – che sottoposti a una analisi di diffrazione ai raggi X, forniscono delle figure da cui per elaborazione matematica è possibile stabilire come le proteine sono fatte, cioè ci permettono di osservare qualcosa che non possiamo vedere. Si riesce così a vedere per esempio che una data proteina non ha una struttura lineare, ma delle forme simili a eliche, che magari a loro volta si compattano a dare per esempio le cosiddette proteine globulari. Le proteine posseggono infatti delle forme ordinate nello spazio, che hanno una struttura ben definita, la quale permette alla proteina di avere certe proprietà.

Non è ancora chiaro come e quando avviene questo processo di ripiegamento strutturale, se quando la proteina si forma o successivamente. Quello che è noto è che questo processo è reversibile: le proteine, per effetto di sollecitazioni esterne possono srotolarsi e, se le condizioni sono blande, riprendere la forma "corretta" oppure "morire". Facciamo un esempio banale: le uova al tegamino. L’albume – che è una proteina – diventa bianco e solido perché sottoposto a riscaldamento si denatura, proprio per l’instabilità, in particolare al riscaldamento, delle proteine.

Spesso l’imbattersi con l’imprevisto scientifico pone delle domande a cui non è possibile subito dare una risposta che invece viene col tempo. Andando avanti nel processo di conoscenza si arriva al punto in cui le domande che non avevano risposta possono finalmente ottenerne una. Vorrei ora fare un esempio di questo. Dal lavoro dei microbiologi era noto che nonostante questa instabilità delle proteine, esistono microrganismi che possono vivere in condizioni assolutamente non adatte alla vita, come all’interno dei geysers (dove la temperatura è superiore a 100 gradi), oppure nelle solfatare (dove la temperatura è pure particolarmente elevata), o, ancora, in condizioni di freddo estremo, come nei laghi sottostanti i ghiacciai dell’Antartide. E vi sono ancora altre situazioni estreme: per esempio, nel fondo degli oceani marini, dove esistono delle bocche idrotermali e quindi temperature e pressioni elevatissime, alcuni microrganismi sono in grado di vivere. Oppure nel Mar Morto, nonostante la salinità delle acque sia tale da impedire la vita e non ci siano pesci, ci sono però dei microrganismi che pure in queste condizioni di salinità estrema riescono a vivere. Come dunque è possibile la vita in queste condizioni di forte calore, di forte freddo o di eccessiva salinità? Perché questi microorganismi non cuociono o, all’opposto, non congelano, o, ancora, non si seccano?

La spiegazione di queste possibilità di vita sta cominciando ad emergere proprio dalla analisi delle strutture delle proteine: per esempio, si è visto che i microrganismi che resistono bene alle temperature hanno una struttura proteica molto rigida, una struttura compatta molto più adatta di quella normale a resistere a variazioni di temperatura, perché non può aprirsi. Questo avviene utilizzando sempre gli stessi venti amminoacidi descritti prima: a volte basta la sostituzione di uno o due amminoacidi per creare delle situazioni di interazione molto forti e per rendere tutta la struttura molto più stabile. Questo significa che la natura utilizza delle variazioni minime per permettere situazioni di sopravvivenza in condizioni estreme. Così, quei microrganismi che vivono in situazioni di freddo polare possiedono dei peptidi che funzionano da anticongelante: si legano ai cristallini di ghiaccio che si stanno formando, e impediscono che la struttura cristallina del ghiaccio aumenti e che l’acqua all’interno delle cellule ghiacci. Questo deriva sempre dalla struttura amminoacidica delle proteine, ovvero da come esse sono costituite. Come si capisce da questi esempi, l’imprevisto può anche essere l’imbattersi in una situazione della materia vivente che non è comprensibile: la domanda viene mantenuta e nel tempo può trovare una risposta, come è successo in questo caso.

Vorrei ora parlare degli enzimi, un tipo particolare di proteine, che ha la funzione di catalizzare delle reazioni chimiche, ovvero di far avvenire le reazioni che servono per mantenere vivo l’organismo. In termini scientifici diciamo che gli enzimi permettono di far avvenire una reazione abbassandone l’energia di attivazione: in termini più semplici possiamo dire che permettono di far avvenire qualcosa che spontaneamente non avverrebbe, diminuendo di molto la fatica che sarebbe necessario spendere per ottenere questo risultato.

Gli enzimi sono proteine molto complesse.

In questo campo gli esempi dell’imprevisto sono nel senso della possibilità di fare cose che non sarebbero di per sé la funzione naturale per cui queste proteine sono state fatte. Quando all’inizio del secolo si sono cominciati ad evidenziare gli enzimi e si è stabilito che erano in grado di far avvenire delle reazioni, Fisher aveva suggerito il cosiddetto modello "chiave-serratura", secondo il quale il substrato naturale aderisce perfettamente alla struttura dell’enzima. Ma se fosse semplicemente così, non sarebbe molto interessante dal punto di vista chimico, perché vorrebbe dire che ogni enzima compie una sola reazione, e trasforma un solo substrato, che non è quello che il chimico vuole quando deve fare una reazione. E infatti, la prima osservazione interessante, emersa dal lavoro che ormai da quarant’anni i chimici organici fanno su questi sistemi biologici, è che la specificità non è così assoluta: infatti proteine che in natura svolgono un lavoro molto preciso, quando vengono utilizzate in laboratorio possono fare qualcosa per cui non sono state pensate. Questo risultato inaspettato ha aperto una vasta prospettiva di ricerca. Ancora più interessante è il mezzo nel quale far avvenire la reazione: solitamente, le proteine lavorano e operano trasformazioni in acqua, invece gli enzimi possono lavorare anche in sistemi cosiddetti "bifasici", ovvero sistemi in cui c’è acqua ed anche un solvente organico. Più recentemente, un ricercatore americano ha anche osservato che utilizzando un enzima in un dato solvente – ad esempio cloroformio –, e provando a diminuire l’acqua fino a farla scomparire, l’enzima funzionava ancora: questo è stato un risultato decisamente sorprendente, – perché andava contro le conoscenze normali di biochimica – e inaspettato, che infatti è stato solo lentamente accettato dalla comunità scientifica. Questo esempio fa capire che l’imprevisto può derivare anche da un’applicazione tecnologica, dalla possibilità di fare cose diverse da quelle previste dalla natura, dal saper cogliere un dato inaspettato e saperlo poi valorizzare; inoltre quel ricercatore americano ha avuto questa brillantissima intuizione lavorando sui risultati di altri ricercatori (in particolare italiani), i quali a loro volta erano partiti da altri risultati a loro precedenti... il lavoro scientifico è un continuo progresso rispetto al punto in cui ci ha lasciato chi prima di noi ha fatto ricerca, è il riprendere e aumentare la conoscenza dal punto in cui è arrivato chi ha lavorato prima sullo stesso argomento.

Infine, un ultimo esempio, diverso dai precedenti perché non si tratta di un problema risolto, ma di una domanda ancora senza risposta. Esistono in natura alcune sostanze dette "chirali", che non hanno la possibilità di essere sovrapposte alla loro immagine speculare – ad esempio, il piede destro e il piede sinistro, la scarpa destra e la scarpa sinistra – e che interagiscono in maniera diversa con un’altra sostanza chirale – nel vostro piede destro mettete bene la scarpa destra, ma non mettete bene la scarpa sinistra! –. Una struttura chirale riconosce un’altra struttura chirale, e questo è fondamentale per la costruzione della vita. Quello che è interessante rispetto alle proteine, è che tra queste strutture chirali c’è anche il nostro atomo di carbonio con quattro sostituenti diversi: questo vuol dire che i nostri amminoacidi non sono sovrapponibili alla loro immagine speculare. Non parliamo di "destra" o "sinistra" ma di amminoacidi "L" e amminoacidi "D". Le proteine sono fatte esclusivamente da amminoacidi L. Esistono anche gli amminoacidi D, che sono utilizzati per altre cose, ma che non entrano nelle strutture delle proteine. Da questo sono derivate due domande fondamentali: anzitutto, come mai siamo fatti di L e non di D amminoacidi? E inoltre, se ci fosse una proteina fatta di D amminoacidi, come funzionerebbe? Fino a poco tempo fa non si poteva rispondere a queste domande, in particolare alla seconda, perché le proteine fatte di amminoacidi L vengono sintetizzate dalla natura, mentre quelle fatte di amminoacidi D non vengono sintetizzate in natura, quindi non esistono, bisogna farle in laboratorio. Alcuni ricercatori americani sono riusciti a sintetizzare una proteina costituita con la stessa sequenza lineare di ammoniacidi di uno degli enzimi più studiati (una proteasi del virus dell’AIDS), ma tutti della forma D, cioè tutti speculari a quelli della forma naturale. Questa proteina composta solo da D amminoacidi, ha dimostrato di funzionare, di essere esattamente l’immagine speculare dell’altra. E non solo funziona ma trasforma, proprio perché una struttura chirale riconosce un’altra struttura chirale, i substrati che sono a loro volta l’immagine speculare di quelli riconosciuti dall’altra. Siccome il lavoro di quell’enzima è distruggere proteine, anche questa chirale sa distruggere proteine o peptidi fatti di amminoacidi D, mentre non sa riconoscere quelli L, cioè le immagini speculari. È realmente un mondo allo specchio: si è riusciti a creare qualcosa che lavora in modo speculare ad una data struttura. Perché noi siamo nel nostro mondo e non nel mondo a noi speculare? Questa è una domanda a cui tutt’ora non c’è risposta, e si tratta quindi di un altro degli incontri imprevisti della scienza, sul quale si sta lavorando e a cui si cercherà di dare risposta in futuro.