C’è del nuovo a sud del mondo.
I paesi emergenti: i valori e la sfida

Giovedì 22, ore 18.30

Relatori: Dominick Salvatore, di Economia presso la Fordham
Angelo Caloia, Presidente dell’International University di New York City
Presidente Mediocredito Lombardo Trade and Finance Association e
e Presidente dello IOR Presidente del Dipartimento

Caloia: La realtà del sottosviluppo è una realtà molto differenziata: c’è una realtà in cammino verso l’ovest, il sud-est asiatico; una realtà che si muove con una certa dinamicità, la Cina e l’India; realtà a correnti alternate come l’America Latina; e infine la tragica realtà del sud Sahara. I paesi del sottosviluppo sono oltre 130, di cui solo una quindicina mostra delle dinamiche positive, tra i quali ci sono i paesi petroliferi, che sono passati dalla povertà alla ricchezza ma non hanno lasciato il sottosviluppo. Oltre 100 di questi paesi sono ancora nel pieno del sottosviluppo per varie ragioni, come la dipendenza dalla vendita di prodotti primari o il peggioramento dei rapporti di scambio tra beni agricoli e beni industriali. Inoltre, si è aggravato il rapporto tra paesi ricchi e paesi poveri: ciò deve essere ricondotto ad alcuni aspetti che sinteticamente elencherò.

Anzitutto l’esistenza del debito estero, che impone la restituzione di dollari, yen e marchi, sottraendo così preziose risorse che devono essere usate per importare i servizi necessari allo sviluppo. I paesi occidentali sono corresponsabili nella genesi e nel consolidamento dell’espansione di questo debito estero: ma più ancora la responsabilità e corresponsabilità dei paesi sviluppati è nell’adozione di certe politiche macroeconomiche dirette alla stabilizzazione delle economie sviluppate, politiche restrittive che impediscono ai ricavi dei paesi poveri di crescere.

Accanto a questo comportamento delle politiche economiche dei paesi sviluppati, che non è in coerenza con un ordine economico mondiale equilibrato, bisogna aggiungere i comportamenti "iniqui" per quel che riguarda il fenomeno dell’internazionalizzazione dell’economia. Questi comportamenti iniqui sono quelli delle imprese multinazionali, che adottano prezzi non correlati al costo di produzione ma diretti alla ricerca di vantaggi fiscali: questo ovviamente accentua le discrepanze tra mondo ricco e mondo povero. In sostanza dobbiamo dire che le difficoltà dei paesi in via di sviluppo non sono tanto dovute alle carenze di questi paesi, quanto al modus operandi di una economia mondiale che è sempre più interdipendente ma che è priva di una gestione coerente di tale interdipendenza.

Rispetto a questa situazione occorre uno sforzo di cooperazione molto più rilevante di quello assai tenue di oggi, occorre omogeneizzare gli obiettivi e le politiche dei paesi sviluppati, e farlo con l’attenzione rivolta agli obiettivi dei paesi in via di sviluppo. In altri termini occorre che le politiche nazionali incorporino la dimensione internazionale, con l’obiettivo di integrare sempre più popoli e sempre più paesi nella realtà economica internazionale. Di fatto oggi si parla molto poco della questione sociale internazionale e non si parla dei rischi di una globalizzazione che non viene governata: È invece necessario un aggancio delle dinamiche economiche a valori più provvidi per il cammino dell’umanità, al senso di responsabilità di individui e di popoli, a una solidarietà capace di coniugare competitività di tipo nuovo e collaborazione, al senso di corresponsabilità per lo sviluppo integrale dei popoli. I valori sono importanti e essenziali per il cammino e il successo economico, e non esistono valori esclusivi, né europei né asiatici (oggi esaltati perché più pragmatici e perché retti sulla cooperazione anziché sull’aspra competizione). Un ordine economico che si possa anche servire dei principi di mercato deve però fondarsi sull’etica, sull’inserimento dei principi etici nelle politiche e nelle legislazioni: oggi valgono di più le istituzioni che non le materie prime.

Occorre, come dicevo, uno sforzo di cooperazione vicendevole, occorre che cresca la concertazione fra i paesi sviluppati; occorre anche che le imprese si facciano carico degli squilibri mondiali, investendo nei paesi sottosviluppati, e occorre che validi organi internazionali svolgano un continuo lavoro di mediazione tra paesi ricchi e poveri. Un nuovo ordine mondiale, pur non ripudiando i segnali di mercato, deve fare scelte di sviluppo basate su indicatori più sensibili e consistenti dei mercati, perché i mercati, specialmente a livello mondiale, sono in balia di variabili impazzite, di tipo finanziario e valutario.

Gli interventi tecnico-operativi da attuare vanno diversificati per settore: nell’agricoltura la prima cosa da fare è che i paesi ricchi si astengano dal costruire barriere verso i paesi poveri per quel che riguarda i prodotti agricoli; nel settore industriale bisogna cercare di rimuovere i disincentivi perché i prodotti dei paesi del sud vengano nei paesi sviluppati; sul piano dell’assistenza, essa non deve più essere inutile come lo è stata, perché l’assistenza tecnologica ha condizionato le strutture produttive dei paesi sottosviluppati, mentre quella finanziaria ha impedito il sorgere delle banche e delle istituzioni finanziarie, e infine quella alimentare ha abituato alla dipendenza dal cibo straniero.

C’è poi il macigno del debito estero: si è stati e si è corresponsabili nella formazione e nella crescita del debito estero, che ormai per i paesi sottosviluppati non è questione di illiquidità ma di insolvibilità, cioè di incapacità a rimborsare anche nel lungo periodo. Per questo serve un piano di risanamento, non quei piani di ingegneria finanziaria che sono buoni per l’illiquidità, per tirare un momentaneo sospiro di sollievo... bisogna che una parte dei debiti venga annullata, che i prestiti siano trasformati in doni, che gli interessi del debito siano ricalcolati sulla base di un saggio di interesse reale definibile in mercati internazionali normali, o infine che si faccia pagare una quota di debito estere compatibile con l’assolvimento dei bisogni essenziali dei popoli meno ricchi.

Le misure che ho delineato affrettatamente e schematicamente, risulteranno vane se non si giungerà ad una riforma del quadro internazionale, ovvero dei rapporti fra i paesi ricchi: la omogeneizzazione dei loro obiettivi, il coordinamento delle loro politiche anche nei confronti dei paesi poveri, le maggiori risorse finanziarie per il capitale umano dei paesi sottosviluppati. Occorrono visioni globali dello sviluppo, occorre dare all’ordine mondiale più politica, e per dare una connotazione politica seria deve crescere la nostra coscienza di cittadini del mondo.

Salvatore: I paesi del mondo si possono suddividere in cinque tipi di nazioni, secondo il reddito pro-capite e la crescita, misurati tenendo conto dei costi di vita. Il primo gruppo di nazioni sono i paesi ricchi, come quelli che formano il G7 (Stati Uniti, Giappone, Canada, Germania, Francia, Italia ed Inghilterra), il cui reddito pro-capite reale, tenuto conto del costo della vita, va da 17.000 a 25.000 dollari per persona annue, l’equivalente di 26-40 milioni circa. Questi paesi hanno un tasso di crescita di circa il 2% annuo.

Il secondo gruppo sono le nazioni emergenti di rapida crescita: Corea, Taiwan, Singapore, che hanno un reddito pro-capite da 5 a 8 mila dollari (un terzo dei paesi ricchi) ma un tasso di crescita dal 6 all’8% annuo. Questo significa che il reddito si raddoppia ogni 9-12 anni e che quindi questi paesi accorciano le distanze dai paesi più ricchi, comportando una sfida di concorrenza internazionale per i paesi più ricchi.

Il terzo gruppo sono i paesi in via di sviluppo di reddito medio e tasso di crescita medio: i paesi dell’America Latina, Messico, Brasile, Argentina e così via, con un reddito da 5 a 8000 dollari (un terzo del reddito dei paesi più ricchi), un tasso di crescita di circa il 2%, come quello dei paesi ricchi: quindi le distanze rimangono, e questi paesi non comportano nessuna sfida per i paesi ricchi.

Il quarto gruppo sono i paesi poveri come la Cina, il cui reddito pro-capite è solo di 2000 dollari annui (un decimo dei paesi ricchi), però con un tasso di crescita altissimo: quindi il tenore di vita si raddoppia ogni 7/8 anni. Anche se poveri, questi paesi comportano una sfida di concorrenza e di competitività internazionale rispetto ai paesi ricchi.

Infine ci sono i paesi poverissimi, che hanno un reddito pro-capite di 400/500 dollari (un cinquantesimo dei paesi ricchi). Questi sono paesi non solo poveri ma che crescono molto lentamente: i paesi del sud-est asiatico crescono di circa l’1% annuo, aumentando così il divario rispetto ai paesi ricchi; i paesi dell’Africa hanno un tenore di vita bassissimo, che si è addirittura ridotto del 20/30% negli ultimi 20/30 anni. Questi paesi comportano una sfida per i paesi ricchi, la sfida di aiutare questi poveri paesi a sopraffare la fame e a crescere su una strada sostenibile. Quindi i paesi ricchi oggi sono di fronte a due sfide: quella posta da parte dei paesi dinamici di competitività internazionale, e quella invece che si pone loro di fronte ai paesi poveri, per aiutarli almeno a evitare la fame e a far sì che la crescita diventi positiva e sostenibile.

Perché ci sono paesi che crescono molto rapidamente e accorciano le distanze con i paesi ricchi, mentre ci sono paesi poveri, poverissimi la cui distanza dai paesi ricchi aumenta? Se vogliamo scoprire la ragione di questo diverso comportamento dei paesi in via di sviluppo, dobbiamo esaminare brevemente i fattori importanti per la crescita, quelli endogeni, nazionali – all’interno della nazione – e quelli esogeni – al di fuori della nazione –, internazionali.

I fattori interni sono tre: il primo è il tasso di investimento. Gli investimenti sono assolutamente necessari, senza capitale si produce ben poco, quindi bisogna aumentare il capitale per unità di lavoro per poi aumentare la produttività e quindi il tenore di vita. Ma nei paesi poveri è difficile risparmiare anche solo il 10% del PIL, e quindi è difficile fare investimenti sufficienti per creare posti di lavoro, per aumentare il capitale di lavoro e quindi la produttività. In questi paesi vi è una sorta di circolo vizioso: il paese povero risparmia poco, investe poco, ha bassa produttività, basso reddito e quindi bassi risparmi e investimenti. Bisogna rompere questo circolo vizioso.

Il secondo fattore di crescita sono le spese per i servizi sociali, la scolarizzazione, la preparazione tecnica e le spese sanitarie. Queste non danno una immediata spinta di crescita, ma a lungo termine sono ancora più importanti, per la crescita del reddito, dei capitali fissi. Sono anche queste spese molto costose, e quindi ci si trova di nuovo di fronte al circolo vizioso della povertà.

La terza ragione è il tasso di crescita della popolazione. In molti paesi poveri il tasso della popolazione è arrivato al limite biologico, 3,5%, il che significa che in ogni generazione la popolazione si raddoppia e che quindi c’è la necessità di creare non solo risparmi e investimenti per avere nuovi posti di lavoro, ma anche di incrementare gli investimenti e le spese per i servizi sociali che migliorino il tenore di vita.

Veniamo ora alle ragioni esterne di sviluppo, che sono tre. La prima sono le esportazioni: una forte crescita delle esportazioni incentiva la crescita del paese perché crea occupazione, induce al risparmio e invita flussi di nuove tecnologie. Il motore di crescita per i paesi del sud-est asiatico – Corea del sud, Taiwan, Singapore – sono state le esportazioni, che crescono di quasi il 20% all’anno. Ci sono poi le ragioni di scambio: i prezzi delle esportazioni rispetto ai prezzi delle importazioni: se queste ragioni di scambio deteriorizzano significa che si ottengono prezzi inferiori per le esportazioni rispetto ai prezzi che si pagano per le importazioni.

Infine, il terzo fattore di sviluppo esterno sono gli investimenti esteri, perché eliminano la carenza di risparmio all’interno dei paesi, e quindi incentivano gli investimenti, la crescita della produzione e quindi del tenore di vita. Inoltre tramite questi investimenti stranieri c’è anche afflusso di tecnologia.

Dati questi sei fattori di crescita (investimenti e risparmi, spese per i servizi sociali, crescita della popolazione; crescita delle esportazioni, ragioni di scambio e investimenti esteri), possiamo immediatamente cogliere la differenza tra i paesi dell’est Asia, molto dinamici, di forte crescita, e quelli poverissimi che non crescono.

Prima di tutto i paesi asiatici investono, risparmiano un tasso incredibile del 30% del PIL, incrementando così la produttività e gli investimenti. Inoltre, questi paesi hanno anche investito moltissimo nella scolarizzazione, nella sanità, nella formazione tecnica dei lavoratori. Per quanto poi riguarda la crescita della popolazione, queste nazioni sono riuscite a dimezzare il tasso di crescita, riducendolo all’1,5%, il che significa che la popolazione raddoppia ogni 50 anni. Ciò dà sospiro e sollievo alla crescita, perché i risparmi possono incrementare gli investimenti per dare ai nuovi lavoratori una quantità di capitale uguale al precedente.

Dal punta di vista esterno, queste nazioni dinamiche asiatiche dell’est Asia hanno avuto esportazioni di carattere manufatturiero che sono cresciute all’incredibile tasso del 15/20% annuo; ci sono anche le ragioni di scambio per questi prodotti dei paesi emergenti dinamici, ragioni che spesso sono cresciute, mentre le ragioni di scambio per gli esportatori di materie prime spesso è diminuito. Poi ci sono gli investimenti: essendo queste nazioni in forte crescita, rappresentano o accolgono circa l’80-90% di tutti i flussi di capitali internazionali rivolti verso le nazioni in via di sviluppo. I paesi poveri invece, quelli che non crescono, hanno un tasso medio di crescita dei risparmi del 10-12%, con un tasso di crescita della popolazione rapidissimo: il tasso di risparmi e di investimenti non è così sufficiente nemmeno per provvedere ai capitali per le nuove leve di lavoro uguali a quelli che già c’erano. Inoltre, si spende poco per le spese sociali e quindi si ritarda la crescita a lungo periodo. Le esportazioni di questi paesi poveri non crescono molto perché sono esportazioni di carattere primario la cui elasticità di domanda è bassa; le ragioni di scambio spesso peggiorano, devono esportare sempre di più per importare la stessa quantità di prodotti manifatturieri dalle nazioni sviluppate, e non crescendo non recepiscono questi afflussi di capitali, perché i capitali privati vanno dove i ricavi sono più alti.

Cosa possono fare i paesi ricchi per aiutare i paesi poveri. Ci sono due ragioni specifiche per le quali aiutare questi paesi, una umanitaria, l’altra di interesse. Non si può rimanere indifferenti di fronte a milioni di bambini che muoiono, mentre poche nazioni godono di grandi ricchezze. I paesi ricchi danno una media di un terzo dell’1% del loro reddito come aiuto ai paesi del terzo mondo: se solo fosse l’1% gli investimenti di questi paesi raddoppierebbero! Ma c’è anche una ragione di interesse nell’aprire i mercati per questi paesi poveri. Essi esportano prodotti primari, manifatturieri, molto intensivi di lavoro, che non sono prodotti efficientemente nei paesi ricchi: favorendo l’esportazione dai paesi poveri si ridurrebbe l’occupazione nei paesi ricchi, che però sono più capaci di produrre prodotti di alta tecnologia.

Si dovrebbe inoltre incoraggiare in questi paesi una riduzione della crescita di popolazione, rispettando le regole morali e religiose, ed incoraggiare anche la pace tra le nazioni, le regioni, i ceppi etnici, magari vincolando gli aiuti. Ci sono paesi poverissimi che spendono di più per gli armamenti che per la scolarizzazione e la sanità.

Vediamo infine, ed è l’ultimo punto, la sfida che i paesi emergenti, dinamici, pongono ai paesi ricchi. Nel mondo c’è oggi una globalizzazione che avviene per varie ragioni: la prima è che le multinazionali investono moltissimo nei paesi in via di sviluppo, quelli dinamici nei quali il costo del lavoro è più basso. La concorrenza internazionale forza queste multinazionali a produrre parti, o componenti, o tutto un prodotto in questi paesi emergenti e dinamici. Poi c’è la rivoluzione delle telecomunicazioni, grazie alla quale è molto facile trasferire tecnologie, e c’è anche il fatto che questi paesi emergenti hanno migliorato la preparazione tecnica dei loro lavoratori. Questi tre fattori – gli investimenti si spostano rapidamente, le tecnologie si trafesriscono, i lavoratori sono ben preparati – determinano una concorrenza incredibilmente forte, una crisi competitiva. Questa sfida ha avuto diversi effetti negli Stati Uniti e in Europa: negli Stati Uniti ci si è preoccupati di creare posti di lavoro, anche se non di altissimo reddito. Così negli Stati Uniti, una nazione con 270 milioni si persone, si sono creati 30 milioni di posti di lavoro in 20 anni; in Europa, con 340 milioni di persone, nemmeno 5 milioni di posti di lavoro: il reddito è più alto ma non c’è crescita di impiego. Negli Stati Uniti il reddito non è cresciuto come in Europa, però c’è stata la crescita dei posti di lavoro: non si possono avere entrambe le cose, bisogna scegliere, gli Stati Uniti hanno fatto una scelta, l’Europa ne ha fatta un’altra.

Gli Stati Uniti negli ultimi quattro o cinque anni sono diventati di nuovo la nazione più competitiva ed efficiente al mondo, spiazzando il Giappone che lo era stato per otto anni. L’Europa si trova così di fronte a due sfide: una proveniente dall’alta tecnologia degli Stati Uniti e del Giappone, l’altra proveniente invece dai prodotti dei paese emergenti: sono sfide che richiedono una profonda ristrutturazione, specialmente nel campo dei benefici sociali che in Europa costituiscono un sistema sicuramente invidiabile ma alla lunga non sostenibile.