Mito e realtà di un paese.
Quale politica culturale?

Martedì 24, ore 18.30

Relatori:

Antonio Calenda,
Regista

Krzysztof Zanussi,
Regista

Moderatore:

Giorgio Lisi

Lisi: Questo incontro affronta il tema della cultura non in senso astratto, bensì la cultura che si misura con la necessità di arrivare ai suoi naturali fruitori, che siamo tutti noi, e quindi con le condizioni oggettive e strutturali attraverso cui si può far si che ciò che il genio e la creatività generano e producono in termini di fatti spettacolari di grande o piccolo rilievo, possa arrivare a coloro per i quali è stata pensata. Tutto questo va genericamente sotto la definizione di "politica culturale", ed appunto il tema che vogliamo investigare oggi.

La prima questione che si deve proporre rispetto al tema della politica culturale, è che cosa si debba intendere oggi sotto l’espressione "fare cultura" in un paese, e se abbia ancora senso di parlare di "politica culturale": è una definizione che riesce a circoscrivere esattamente i termini del problema che tutti i giorni un artista si trova di fronte nella sua volontà di esprimere e di comunicare al pubblico? Come riteniamo debba essere la politica culturale di un paese?

La seconda parte questione consiste nel domandarsi se si possa ancora parlare di politica culturale di un singolo paese nell’era della globalizzazione o si debba piuttosto ragionare in altri termini.

Calenda: Parlando di politica culturale, sembra di affrontare una tema piuttosto retorico, perché in effetti fare cultura oggi significherebbe qualcosa di più vasto, ovvero occuparsi dell’uomo, dei suoi profondi problemi, delle sue necessità, delle inquietudini che nel mondo contemporaneo l’uomo in qualche modo vive. Vi è stata nel corso degli anni nel nostro paese e in tutta Europa, una sottile espropriazione degli artisti, da parte di chi amministrava il potere, espropriazione che concerneva il problema retorico della di cultura. Un’espropriazione che ha fatto sì che oggi chi si interessa di problemi relativi alla creatività in qualche modo si sente un cittadino apolide.

In un’era come la nostra, la devastazione dei media nei confronti della riflessione ha lasciato macerie dappertutto l’arte: in un’epoca del genere parlare di cultura suona ancora più retorico, perché bisognerebbe restituire agli artisti non solo la dignità che è loro propria ma anche quel compito sottile di essere gli interpreti di una realtà. Ci sono alcuni filosofi tedeschi, appartenenti all’area dell’ermeneutica, che si stanno proprio occupando di questo tema, cercando di proporre una visione nuova nei confronti della realtà, una riflessione filosofica che indirizzi il sapere verso la interpretazione della realtà.

Noi che facciamo teatro e cinema siamo in qualche modo i delegati ad interpretare la realtà, ma non perché la realtà debba essere letta narrativamente, ma perché deve essere letta metaforicamente, perché la realtà racchiude un che di imprevisto, di misterioso che solo gli artisti sanno in qualche modo, non dico intuire ma presagire. Il paradigma che definisce il Meeting di quest’anno in questo senso è molto interessante: l’ignoto fa paura, fa terrore, ed è ignoto tutto ciò che è consumazione dell’intelligenza che riflette, che indaga. Il mistero invece è tutto ciò che l’arte sa suscitare.

L’ambito nel quale io opero e vivo è il teatro, che è realmente una delle grandi convenzioni che l’uomo si è dato per presagire il mistero che circonda la vita o per lo meno il mistero che è al di là del mondo apparente, fenomenologico, quel mistero che solo l’arte sa intravedere o intuire. Il teatro è il mezzo più prestigioso per intuire questo mistero, perché è fatto da uomini fisicamente presenti e perché la convenzione alta di cui vive il teatro è una simulazione che noi intendiamo vera: noi conveniamo intorno ad un oggetto fisico ma metaforico allo stesso tempo, che ci fa intravedere costantemente il mistero che aleggia sull’uomo che è al di là della realtà che noi percepiamo. Basti pensare a quanto il teatro sa rappresentare la morte: a differenza di altre arti, la pittura e la musica ad esempio, il teatro nel momento stesso in cui dice che un attore è morto, noi lo crediamo morto, perché crediamo a tutto ciò che avviene sul palcoscenico. Il palcoscenico è un’area liturgica in cui si officia costantemente il mistero della vita e della morte.

Quello che l’arte e la cultura devono tutelare è questo grande bisogno eterno, antico e ancora inarrestabile: il bisogno di intravedere il mistero che quotidianamente ci accompagna. L’arte interpreta la realtà con tutte le facoltà che l’uomo possiede, che sono le capacità di intravedere il mistero e di intravedere quindi anche il senso della vita.

Viviamo un momento della storia dell’uomo che, per quello che concerne l’Europa, vede un avvitamento costante quotidiano, una sorta di indifferenza a quella che era la dialettica dell’esistere, quella dialettica che ha prodotto tutto il sapere filosofico, la capacità di riflettere di meditare. In un continente non si coltiva più il bisogno, la necessità di sognare complessivamente chiaramente c’è una decadenza istituzionale di tutto ciò che concerne l’uomo, di tutte le sue potenzialità inventive. Per esempio, il teatro, è un’arte di assoluta minoranza e di apparente irrilevanza: è tuttavia un ambito che andrebbe preservato, per creare le linfe necessarie al rinvigorirsi di una società, perché simbolicamente il teatro è un luogo non solo di minoranza in senso sociologico, ma è una minoranza che fa bene alla maggioranza, perché nel teatro si produce pensiero, nel teatro si riflette su quello che è il senso dell’uomo, in una società in cui gli ambiti in cui si riflette sul senso dell’uomo sono destituiti di fondamento. Un discorso analogo vale per la lettura: oggi, fra i giovani leggere è una fatica, perché sono abituati ad un rapporto quasi astratto con il mondo delle immagini che viene loro riservato dalle televisioni.

Queste forme d’arte, queste minoranze, potrebbero chiarire qual è il destino del nostro continente, e per questo sono piccoli ambiti che andrebbero preservati come laboratori di consapevolezza, di coscienza; invece, sono considerati forse delle forme impure, non necessarie all’assetto complessivo del divenire civile di una nazione. Noi che operiamo nel teatro ci accorgiamo che dobbiamo essere non tanto artisti che creano, ma persone che affermano la necessità del loro lavoro, che lo rendono necessario, che lo giustificano costantemente.

Nella ipotesi di una proposta utopistica di un modello che rimetta in corso la capacità dell’uomo a riflettere, bisognerebbe anzitutto ricostruire la scuola: la scuola è disastrosa, la scuola non crea consapevolezza, non crea coscienza, non crea il senso del gusto, che è uno dei termini primari dialettici. Il sapere viene trasmesso ai giovani in senso banale, acritico, senza nessun rapporto con la società che li circonda; così, il giovane che diventerà cittadino non ha il senso della propria necessità. Viviamo un momento in cui non riusciamo a sognare: per questo, bisognerebbe coltivare tutte quelle pratiche dello stare insieme che aiutino a dibattere insieme i problemi che costantemente non riusciamo a risolvere.

Zanussi: Il mio celebre collega ha parlato da artista; io voglio piuttosto parlare un linguaggio ideologico. Il punto di riferimento per me è il GATT, una sigla che per il teatro fortunatamente non esiste, mentre invece per gli audiovisivi esiste. Il GATT è l’organizzazione dello scambio delle merci: tutti i paesi europei sono coinvolti nelle trattative che toccano i problemi delle dogane delle sovvenzioni per la produzione. Gli americani hanno affermato che nel loro concetto cultura, ogni prodotto è una merce, e come merce non deve essere sovvenzionata perché questo è contro le regole del mercato. La maggior parte dei governi europei, incluso quello polacco, ha accettato questo concetto senza protesta; sono stati i francesi e in seguito gli spagnoli che hanno contestato questo concetto come incompatibile con il concetto europeo della cultura. Per noi europei infatti la cultura non è una merce, è qualcosa di altro genere; per questo, il fatto che noi sovvenzioniamo nei nostri paesi molti prodotti culturali è una cosa normale. Secondo il GATT però non bisogna sovvenzionarli, perché li farebbe ritenere, nello scambio, prodotti privilegiati. La realtà mostra proprio il contrario: gli americani non sovvenzionano i loro film, il loro cinema e la loro televisione, ed esportano bene. Invece, noi invece in Europa spendiamo moltissimo per la produzione audiovisiva europea e siamo incapaci di esportarla. Anche se sovvenzionati non siamo vincitori.

Il problema tocca qualcosa di molto profondo, il concetto di che cosa sia un prodotto culturale, se nella nostra mentalità sia la merce o un prodotto di carattere spirituale e dunque di livello immisurabile. Questo è il problema che oggi affrontiamo tutti; se si dice politica culturale, si uniscono due parole che hanno un colore diverso, perché il termine "politica" ha un colore sporco, "cultura" invece pulito: metterli insieme è già pericoloso, perché fare della politica culturale vuol dire opporsi al mercato. Secondo la cultura, esiste un gusto rispetto al quale giudicare il prodotto, secondo il mercato invece, il prodotto che si vende meglio è migliore. Il politico è una vittima delle elezioni, il politico è eletto, quindi deve ascoltare la voce della maggioranza e la minoranza ha sempre torto. La politica culturale si incontra quindi con il cattivo gusto della maggioranza.

I nostri pensieri europei sono in una certa misura contorti, non abbiamo chiarezza, perché certi elementi del nostro pensare vengono dall’esperienza americana, dove la società ha una costruzione tutta diversa, e ci troviamo così in contraddizione con il nostro elitarismo europeo. La realtà è che la cultura Nord-americana è la cultura vincente, il prodotto Nord-americano vince su tutti i piani: in America il 4% della popolazione ha assistito a uno spettacolo teatrale, incluso quelli della scuola, ma poiché il 4% non incide sulle elezioni, allora non è importante. La percentuale delle persone che leggono libri è ugualmente bassa, sebbene migliore, perché tocca il 20%.

Di fronte alla presenza predominante della cultura americana, in Europa sono state lanciate sul piano comunitario varie strategie: la strategia lanciata una volta dalla Francia, secondo la quale il prodotto culturale europeo deve essere complementare al prodotto americano; oppure, la strategia della concorrenza, che consiste nel fare i film come li fanno gli americani. Entrambe queste strategie mi sembrano inadeguate, perché qualcosa manca nel nostro concetto europeo per esprimere l’Europa, e questo qualcosa non riguarda la politica, bensì la società. L’Europa da parecchi anni, forse da vent’anni non ha più un suo sogno. Un American dream esiste, è il sogno americano, invece il sogno europeo non esiste; non esiste più la fede che in Europa sappiamo vivere meglio degli altri, che abbiamo un concetto di vita più giusto, più bello, più vicino all’ideale. L’Europa è molto più concentrata sulle sue perdite piuttosto che sulle sue prospettive; siamo incapaci di creare il nuovo mito, il mito che potrebbe essere affascinante per la gente. L’Europa per secoli è stata una forza dinamica per tutta l’umanità: una crisi di vent’anni non è ancora il segno della morte ma il segno di una malattia, forse è un piccolo raffreddamento dello spirito europeo, spirito che forse riprenderemo nel nuovo millennio. Ma occorre veramente ritrovare una nuova prospettiva del nostro sogno, la fede che siamo in grado di organizzarci, di sognare in modo più bello in cui non sognano i protagonisti dei disegni animati e dei serial americani.

Rispetto ad alcune osservazioni sulla cultura contemporanea, non vorrei avvicinarmi ai toni nostalgici, niente è peggio che dire che una volta c’era una società migliore e che adesso i giovani sono terribili. Una volta la minoranza era una élite, le persone più dinamiche, più cresciute nel senso spirituale e culturale, più esigenti, che chiedevano un servizio culturale di alta qualità. Oggi, con l’esaltazione democratica tutto è cambiato, e il nostro pubblico, quello che ancora legge, frequenta il teatro, negli ultimi vent’anni si è molto deteriorato, non è più una élite, sono invece i nostalgici, i frustrati. La gente frequenta la cosiddetta alta cultura solamente per distinguersi dagli altri: ma questo non ha un grande valore, né per loro né per noi artisti. E questo noi artisti lo sentiamo, perché non c’è più critica. Il critico può scrivere tutto quello che vuole perché a nessuno importa, né a lui stesso né ai suoi lettori. Vent’anni fa non era così, perché questa minoranza che frequentava i cinema, che leggeva libri, che andava ai concerti, che andava a teatro era una minoranza importante che si assumeva più responsabilità per la società. Oggi probabilmente questa élite si forma in un altro ambiente e noi siamo incapaci di trovarla.

Forse la troveremo: vogliamo fare un grande sforzo di trovare questa gente, non fra i nostalgici o fra i frustrati, ma piuttosto fra le persone determinate, determinate alla responsabilità ed al successo. Questo per noi che lavoriamo nel campo della cultura è una grande sfida. Dobbiamo ammettere che la cosiddetta alta cultura è diventata sterile e non ha più questa forza che aveva vent’anni fa. Questa è una umile autocritica, perché siamo noi tutti produttori di cultura colpevoli di non essere in grado di trovare un linguaggio comune tra la nuova élite della società che sta crescendo e la vecchia élite, che è sulla strada della scomparsa.

Einstein diceva che l’uomo incapace di stupirsi è un uomo povero, non creativo. La nostra epoca è un’epoca nella quale la maggior parte della gente non sa più stupirsi: questa è una grande miseria, perché uno che non si stupisce è uno che non capisce la propria condizione umana. Spero che ci sia una reazione contro questa amputazione della nostra capacità di stupirci. Spero che l’arte possa incontrare un pubblico nuovo che voglia trovare l’espressione di questo sentimento profondo, esistenziale, dello stupirsi del mondo, di se stessi, della propria esistenza.