Le riflessioni cristiane di C. S. Lewis: il veleno del soggettivismo - 1898-1998

Incontro in occasione del Centenario della nascita dell’Autore

In collaborazione con Piero Gribaudi Editore

 

 

Giovedì 27, ore 11.30

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Relatori:

Luigi Sampietro, Ordinario di Letteratura degli Stati Uniti presso l’Università degli Studi di Milano e Collaboratore de "Il Sole 24 ore"

Luigi Negri, Docente di Antropologia Teologica presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano

Moderatore:

Marco Respinti

 

Respinti: Cercheremo oggi di ricordare Clive Stapple Lewis nel centenario della nascita. Nacque a Belfast nel 1898 e scomparve in Inghilterra nel 1962; diverse sue opere sono state pubblicate in lingua italiana anche se, a fronte di questo, non esiste una vera e propria letteratura critica o interpretativa. Nostro compito è anche quello di fornire qualche linea di lettura, qualche linea interpretativa sull’opera di questo grande autore irlandese poi integrato nel mondo della letteratura anglosassone.

Autore che ha una storia interessante e curiosa per molti versi, che ha un punto importante nel 1929 quando si converte al cristianesimo in forma anglicana recuperando tutta una serie di valori, di principi che aveva perso in gioventù; egli stesso sintetizza la sua conversione del ’29 con una espressione molto lapidaria e molto pregnante: "ad un certo punto mi arresi, riconobbi che Dio era Dio". Lewis legge Dio sotto la categoria della gioia, una gioia che non coincide spesso con un’allegrezza del mondo, che non è semplicemente un essere allegri in quanto tale, ma che è qualcosa di molto più profondo, quasi una categoria dell’essere, di questa gioia profonda che in Lewis è una gioia anche oggettiva perché fondata su una realtà oggettiva che si rintraccia di volta in volta nei suoi libri, che fanno sempre riferimento al concetto del diritto naturale, della legge naturale al quale la moralità e la ragione si devono ispirare. Questa norma, la legge naturale o il diritto naturale, per Lewis configura la categoria della gioia, la gioia della riscoperta di una norma che precede i nostri giudizi e che li fonda. Una gioia che riscopre una norma nella realtà che è norma di vita che permette di sfuggire tutti i piccoli individualismi o solipsismi che fondano invece la categoria dell’utopia, la categoria del soggettivismo, in cui purtroppo gran parte del mondo in cui ci troviamo a vivere si dibatte quasi in agonia.

Un autore come Lewis, e l’occasione del centenario della nascita permette con una riscoperta di un fondamento oggettivo di rispondere in maniera positiva e costruttiva a questi soggettivismi, a questi individualismi, a questi solipsismi che creano un carcere più o meno dorato all’uomo di oggi.

Sampietro: Quello che racconta C. S. Lewis è il messaggio del cristianesimo così come è configurato nella tradizione del Medioevo: C. S. Lewis parlava del cristianesimo così come è. Non ci sarebbe altro da dire: quello che posso aggiungere è una mia interpretazione, un mio commento, una mia postilla a questo.

Nel mondo di lingua inglese - compresa quindi l’Australia e gli Stati Uniti - i libri di Lewis continuano a vendere a milioni: questo significa che le cose che ha da dire vanno con le proprie gambe. E si potrebbe aggiungere: è chiaro, le cose che ha da dire vanno con le proprie gambe poiché le ha copiate dai vangeli e le ha corredate con informazioni che vengono dalla patristica oppure da citazioni bibliche. Infatti è questo che ha fatto, e lo stesso Lewis dice esplicitamente in un suo articolo che neanche Gesù Cristo ha presentato un messaggio nuovo, ha presentato un aggiornamento del messaggio che era stoico - quindi contemporaneo al cristianesimo - o confuciano: non fare agli altri ciò che non vuoi che sia fatto a te. Il vangelo ne è un aggiornamento: fai agli altri quello che vorresti che fosse fatto a te.

In sostanza, C. S. Lewis ha riraccontato una storia che tutto il mondo, almeno occidentale, conosceva a menadito: che cosa sia il cristianesimo. E anche il cristianesimo a suo giudizio - possiamo anche non seguirlo su questa opinione - non presenta qualche cosa di completamente inedito, ma costituisce un passo avanti rispetto ad uno statuto, ad un senso, ad una costruzione che ciascuno di noi, cristiano e non, ha dentro il cuore e dentro la testa. Lewis non racconta niente di nuovo; faceva il professore di letteratura medioevale e rinascimentale, e riracconta il cristianesimo medievale e rinascimentale ai contemporanei in termini non colti, non astratti, non filosofici, piuttosto con intensità concettuale. Non presenta solo il messaggio dei vangeli, ma ne presenta tutte la esegesi: i libri che scrive Lewis sono fatti della tradizione cristiana e di tutto ciò che è stato fatto a commento di quel testo fondamentale per il cristianesimo che sono le scritture.

Ma a cosa serve questa presentazione moderna del cristianesimo fatta da C. S. Lewis se noi abbiamo già il testo vero e proprio? Come osservava Samuel Johnson, scrittore del Settecento Inglese, gli uomini hanno più che altro bisogno di avere la memoria rinfrescata, rinfrescata di quei valori fondamentali che sono il senso del bene, il senso del male. Secondo Lewis questi valori sono ontologici: tutti gli uomini tutte le civiltà li hanno dentro di loro. Il senso del bene e il senso del male non sono il risultato di una convenzione o di una costruzione astratta, sono un qualche cosa che noi abbiamo dentro. Questa elementare scoperta dell’equazione tra la legge naturale o il diritto naturale e la morale, dai tempi di Shakespeare non veniva più legittimata: che il senso del bene e il senso del male non fossero il risultato di una convenzione tra gli uomini o dei costumi, che non fossero qualche cosa di arbitrario o di utile ma che fossero qualche cosa che gli uomini si portano dentro, in Shakespeare era ancora chiaro per una eredità medievale. L’epoca moderna invece ritiene che tutte le leggi morali siano il risultato di convenzioni, possibilmente guidate da un istinto segreto o palese di utilità.

C. S. Lewis era cresciuto miscredente, come spesso capita ai grandi appassionati di occultismo, di favole, di mistero: in verità non era animato da una fede, era una sorta di gioco dell’immaginazione. A un certo punto si è convertito, quando ormai di mestiere faceva il professore a Oxford, negli anni Venti e Trenta. La letteratura a quei tempi - a differenza del momento attuale, in cui assistiamo a un declino generale dello studio e delle vocazioni alla letteratura - era nel suo grande fulgore, ed era concepita come la critica, la raccolta e la sistemazione dei documenti: la lettura, la edizione, la pubblicazione, la stampa delle opere complete di, ad esempio, Petrarca o Shakespeare. C. S. Lewis era dunque erede di una tradizione positivista ottocentesca che faceva del professore di letteratura di Oxford un grande esperto che aveva lavorato sui manoscritti, aveva scelto e indicato quali fossero i più importanti e i meno importanti, e li aveva corredati, chiariti e presentati al pubblico. C. S. Lewis era l’erede di questa visione positivista: ma studiando il Medioevo e il Rinascimento si è convertito, perché ha preso sul serio le favole medioevali. Il suo gusto per queste favole era chiaramente contrapposto al movimento della sensibilità e del gusto dei suoi contemporanei, che era quello del modernismo, ovvero la distruzione della forma. È la medesima distruzione della forma che dura ancora oggi, nella nostra epoca post-moderna, guidata dai pensatori deboli.

Se è vera o se è accertata o se è sostenuta dai pensatori post- moderni - il cui capostipite è Jacques Derrida - l’impossibilità dell’autenticità, l’impossibilità di fondamenti culturali e della verità, la lettura di C.S. Lewis è la riproposizione dei fondamenti della nostra civiltà, cioè il fatto che è possibile qualche cosa di autentico nella convivenza umana, e che questa autenticità non è il frutto di una continua indifferenza che esiste tra chi scrive il messaggio e chi può raggiungerlo ma è un modo di far coincidere la forma con il suo contenuto, e dunque l’uomo con i suoi pensieri.

Negri: Dire e ripetere la tradizione è un grande fatto di rivoluzione: Lewis ha compiuto questa rivoluzione, sebbene non ne siano stati consapevoli i suoi contemporanei. Vorrei indicare con tre brevi osservazioni il senso di questa novità e di questa rivoluzione.

La prima osservazione è che l’oggettivismo è l’esito negativo di un lungo cammino nel quale il soggetto è stato tutto. È il cammino della modernità comincia dicendo il soggetto è la realtà. Il soggetto è al centro; il soggetto, cioè il singolo nella sua capacità di ragione, è la realtà. Il soggetto è tutto: non c’è più bisogno di nessun riferimento oltre al soggetto, non c’è più bisogno di Dio. Paradossalmente, non c’è neanche più bisogno della realtà, Dio sfuma sull’orizzonte della personalità individuale come punto di riferimento misterioso al quale ci si approccia non attraverso la ragione ma attraverso un’operazione di carattere psicologico, intuitivo, affettivo. Il protestantesimo è stato il più grande responsabile di questa psicologizzazione della religione. La realtà è oggetto, da Cartesio in poi, di una conoscenza scientifica e quindi di una manipolazione tecnologica. La realtà è parte del soggetto, tanto è vero che la conoscenza, dirà Kant, non è conoscenza della realtà, che sfugge intrascendibilmente alla capacità della ragione, ma è piuttosto il tentativo di regolamentare da un punto di vista scientifico e tecnologico la realtà. Quindi il soggetto è tutto, e il soggetto vive dimostrando il suo potere, un potere intellettuale, il potere di ridurre tutto alla chiarezza e alla distinzione della scienza e alla capacità di trasformazione. Il soggetto non deve far altro che esprimere il senso pieno della sua capacità, questo potere di carattere intellettuale: affinché questo potere esista, non è necessario affermare che Dio non esiste, è sufficiente vivere come se Dio non esistesse. L’uomo basta a se stesso, diceva Romano Guardini, uno dei più acuti lettori della modernità: l’uomo moderno è l’uomo che non ha bisogno che di se stesso per esistere. La modernità è la storia del progetto di una soggettività potente che ha una verifica spaventosa nelle ideologie che questa "ipersoggettività" ha creato: infatti, perché il soggetto possa essere garantito nella sua potenza ci vuole uno Stato forte, uno Stato influente.

La seconda osservazione compie un passaggio ulteriore: quello che appare stupefacente e imprevedibile è che questo soggetto apparentemente vincente si muta in un soggetto debole, debolissimo. Il soggetto può essere sottomesso ad analisi, ad oggetto di ricerche, e quando si ricerca il soggetto ci si accorge che il soggetto è molto più l’esito di certe condizioni psicologiche, affettive, storiche, ambientali, culturali, che non il soggetto vincente che si pensava; così, l’ipersoggettività si muta in pensiero debole. Non esiste un unico soggetto che si garantisca come potere conoscitivo e tecnologico, esiste una serie infinita di possibilità di conoscere la realtà, c’è una serie infinita di attività. E questa soggettività che subisce così profondamente i condizionamenti è stata il più grande presupposto del totalitarismo marx-leninista - cambiate le condizioni psico-affettive dell’uomo e cambierete l’uomo - ma anche di tanta psicoanalisi freudiana.

Terza osservazione: siamo nelle condizioni, ricevendo le sollecitazioni di Lewis, straordinariamente attuali perché profondamente tradizionali, di capire che occorre partire da un altro punto di vista. La modernità arriva a queste conseguenze negative perché dimentica il rapporto che esiste fra esperienza e ragione, fra esperienza elementare dell’uomo e ragione. L’uomo non è il padrone del mondo, come aveva detto Robert H. Benson, grande contemporaneo di Lewis, l’uomo è il rapporto con la realtà, la ragione non domina la realtà, la ragione sente e trova questa realtà di fronte a sé come una grande sterminata presenza che lo mette in questione. L’uomo viene messo in questione perché è cosciente, perché è l’unico punto dell’universo che riceve la provocazione, da parte della realtà, a rispondere alla domanda sul senso della realtà e dell’esistenza. La modernità e la post modernità negano queste domande perché invece di mettere al centro l’uomo desideroso della verità, mettono al centro l’uomo soggetto di potere. Occorre ripartire dall’esperienza elementare dell’uomo, e occorre capire che la ricerca razionale e quindi la cultura sono semplicemente la coscienza critica dell’esperienza; occorre risentire le grandi domande di senso, recuperare quella inquietudine creativa di cui parla Giovanni Paolo II nella Redemptor Hominis, quella inquietudine creativa in cui pulsa profondamente l’unità dell’uomo, il desiderio del vero del bene del bello del giusto, il senso della legge che stringe gli uomini e la realtà in un unico grande cosmo che deve essere riconosciuto.

Questa è la strada a percorrere la quale un insegnamento come quello di Lewis ci sospinge: Lewis non fa tutto il cammino, Lewis mette le condizioni perché questo cammino possa essere fatto. Da un grande personaggio come Lewis siamo aiutati a porci il problema della verità, a vivere in modo obbiettivo e appassionato il problema del senso della vita, e quindi della corrispondenza piena fra il senso della realtà e la nostra vita. Ciò che è in questione è la nostra vita: Lewis ha raccontato la storia del nostro presente e la testimonianza di Uno che ha detto "io sono la via, la verità, e la vita". Questa è la storia che Lewis ha raccontato, questa è la storia che descrive il nostro cuore. E la Chiesa di Dio, attraverso la quale Lewis ha raccontato in un luogo specifico il nostro cuore, è un ambito educativo, è la Chiesa di Dio a cui Lewis è arrivato. Come afferma Giovanni Paolo II, l’uomo rimane per se stesso un incomprensibile senza l’incontro di Gesù Cristo: Lewis raccontando la storia della tradizione ha fatto scoprire la verità del cuore dell’uomo, e sullo sfondo la verità della grande presenza di Cristo.