Dal sacco di Roma al Concilio di Trento:

i decenni che hanno inquietato il mondo

Giovedì 24, ore 11.30

Relatori:
Gabriello Milantoni,
Curatore delle Collezioni d'Arte dei Principi Colonna, Roma

Leo Moulin,
Docente presso il Collegio d'Europa
di Bruges
José Luis Sancho Gaspar,
storico

 

 

Milantoni: Io mi occupo della cura delle collezioni d'arte della famiglia Colonna, una famiglia protagonista di numerose vicende storiche, e l'unica famiglia rimasta, delle antiche famiglie baronali romane, che tuttora custodisce grandi collezioni d'arte e di archeologia insieme, con un archivio molto importante e cospicuo.

Il mestiere che faccio è molto particolare: non lavorando per un museo pubblico, seguo delle regole non scritte che impongono anche la discrezione rispetto alle carte scritte e alle memorie custodite dentro il Palazzo. Quando mi invitarono quindi a fare una riflessione su questo momento molto importante per la nostra storia e anche per la nostra contemporaneità, il sacco di Roma, andai immediatamente a vedere nell'archivio i documenti. Scoprii una storia già scritta, eppure, leggendo questi documenti emerge il ruolo della famiglia Colonna durante il sacco di Roma, un ruolo non positivo. Premesso che toccar con mano la carta manoscritta ha un peso differente rispetto alla lettura di un testo a stampa, si può dire che queste carte ci guidano dentro la tragedia, iniziata il 6 maggio del 1527 e conclusa, rispetto all'occupazione di Roma, soltanto nel febbraio dell'anno successivo. Devo dire, da storico dell'arte, e da persona invitata, in questo momento, a fare una riflessione storica rispetto alla famiglia Colonna, che avrei voluto trovare qualche cosa, in qualche modo, che l'avesse redenta rispetto a quel momento. Invece, io questo non l'ho trovato e, anzi, si tocca con mano attraverso queste carte scritte — bolle pontificali di Clemente VII, o lettere e carte dell'imperatore Carlo V — quello che anche i cronisti o gli storici, come per esempio Francesco Guicciardini, molto chiaramente dissero.

La potenza della parola, specialmente della parola latina, scritta su una pergamena, è inquietante. C'è infatti un documento che data 1529 in cui Clemente VII perdona i Colonna rispetto ai fatti accaduti: molto chiaramente, è scritto che i fatti accaduti erano non solo saccheggi, ma anche una serie impressionante di violenze perpetrate nei confronti di Roma e dei suoi cittadini. Si parla chiaramente di stupri, di sacrilegi. Trovare scritta la parola di un pontefice importante come Clemente VII de' Medici, con questo tenore, con questa secchezza e nettezza, sicuramente restituisce bene il clima del periodo.

C'è un bellissimo romanzo di Maria Bellonci, Rinascimento privato, che riguarda la permanenza a Roma di un grande personaggio femminile del '500, Isabella Gonzaga d'Este, Marchesa di Mantova, giunta a Roma nel 1526 per far sì che il giovane figlio ventenne, Ercole, avesse dal papa la porpora cardinalizia, riuscendovi; Isabella fu ospite di Palazzo Colonna e Maria Bellonci — da grande scrittrice — in alcune pagine dedicate al momento del sacco di Roma, restituisce molto bene il clima di sparizione quasi improvvisa della cultura, delle forme e dei modelli che fino a quel momento avevano accompagnato le idee dei grandi del Rinascimento. Ci sono due righe, quasi alla fine del romanzo, su una Roma ormai fumante, ormai lacerata di cui era stato fatto scempio, in cui la scrittrice immagina che Isabella d'Este, imbarcandosi al porto di Ripa Grande per raggiungere Ostia, dia un ultimo sguardo alla città e dica: "La bianca geometria dei nostri studi e della nostra cultura spariva sotto i colpi di genti perverse".

Che cosa in realtà accadde? Accadde che, per una serie di giochi politici complicati, il tentativo da parte di alcuni stati italiani tra cui appunto il Papato, Venezia, il Ducato di Milano, di contrastare ormai la soverchiante potenza di Carlo V, Imperatore d'Asburgo, si rivelasse fallimentare. La posta in gioco era molto alta, tra l'altro era in gioco anche il dominio sul Regno di Napoli. Da Milano erano convenute numerose truppe cesaree, quindi imperiali, costituite per la maggior parte da Spagnoli e da parlanti lingua tedesca, quindi Austriaci e Tedeschi. Queste truppe, piuttosto turbolente, erano guidate da Carlo di Borbone, connestabile — una figura piuttosto importante, quindi un grosso dignitario o un grosso rappresentante — del Regno di Francia. In queste truppe insieme ai cattolici c'erano anche i luterani che avanzavano, quindi era una coalizione molto particolare.

La strada per Roma, dopo la vittoria da parte degli asburgici a Pavia e a Milano, era ormai aperta; pare che Carlo di Borbone avesse in realtà promesso alle proprie truppe Roma come bottino. Non c'era più nessun ostacolo a questa marcia su Roma, e anche gli alleati del Papa, più versati ad una tecnica di guerra che si basava ancora sul temporeggiamento e sulla manovra, non fecero in tempo a venire in soccorso della città. Quindi la mattina del 6 maggio 1527, che tutte le fonti ricordano come nebbiosa, gli imperiali entrarono in città. L'appoggio determinante per questa impresa in Roma si deve alla famiglia Colonna da sempre filo imperiale, quindi, per intenderci, di parte ghibellina. Infatti, tutti i possedimenti Colonna furono risparmiati, compreso l'antico palazzo in piena città, mentre la famiglia si era momentaneamente spostata nei propri castelli attorno a Roma, come ad esempio Marino, dove si era rifugiata anche Vittoria Colonna, la famosa poetessa.

Le truppe imperiali raggiunsero la città e vi fecero scempio; si verificarono cose orribili, profanazioni di Basiliche e di antichi luoghi santi di Roma come, per esempio, S. Giovanni in Laterano, atteggiamenti sacrileghi nei confronti delle più antiche reliquie di Roma, come, per esempio, la testa di S. Giovanni decollato con la quale — tutte le fonti concordano su questo — gli imperiali si misero a giocare a palla, togliendo l'involucro d'oro.

Il clero è molto preso di mira, e gli antichi palazzi di Roma di parte papale, quindi fautori della politica di Clemente VII, furono saccheggiati ed incendiati. Questo esercito era ormai completamente scappato di mano, forse anche complice la morte, il primo giorno, il 6 maggio 1527, per un'archibugiata, del connestabile Carlo di Borbone, cui succede a capo delle truppe il Principe di d'Orange. La lettura delle cronache e delle fonti è agghiacciante: si sventrano e si incendiano questi palazzi, compresi gli archivi.

Roma era all'apice del proprio itinerario culturale e artistico, pensiamo ai palazzi e ai giardini di cui Roma era costellata, pensiamo a tutte le antiche dimore, progettate da Raffaello o dal Peruzzi. L'idea dell'unità delle arti era ormai definita dentro la coscienza di un uomo che vogliamo chiamare del Rinascimento, dentro una percezione del mondo che è riferita all'uomo come osservatore e ordinatore delle cose. Una Roma, dal punto di vista della forma, dell'immagine, perfetta, straordinariamente bella. Gli importanti palazzi di Roma del Rinascimento non erano grandissimi, e avevano la virtù di racchiudere giardini in cui si raccoglievano oltre che piante — soprattutto agrumi — grandi collezioni di antichità, come le collezioni del Cardinale Cesarini o del Cardinale Della Valle che furono deturpate durante il sacco. Siamo di fronte a una Roma certa della propria intoccabilità, come lo erano i suoi abitanti di Roma, per due ragioni, perché Roma era la capitale sia della cristianità che delle arti. Basta pensare alla grande biblioteca di Sisto IV, o agli affreschi di Raffaello. Una Roma magnifica, magica, quindi interprete delle idee e delle ricerche dell'immaginazione della bellezza così come l'avevano intesa i grandi del Rinascimento.

Improvvisamente Roma è invasa da queste orde violente e per la prima volta compare nella coscienza dell'uomo del Rinascimento un sentimento tremendo, il sentimento della paura. Improvvisamente si ha paura, ed è una paura concreta, di essere uccisi o di essere violentati; dopo questi primi momenti di grandissima tragedia, in cui — dicono le fonti — ci furono addirittura 6000 persone uccise, si vuol scappare, ci si vuol salvare la vita. Si apre uno squarcio dell'anima, si ha paura di non esistere, di essere cancellati, di non essere più niente, si ha paura quindi di scomparire; la riga di Maria Bellonci rende tutto questo molto bene, "la nostra cultura spariva sotto i colpi di queste genti perverse". La paura porta a guardare le cose sotto un altro punto di vista, con una lacerazione, con una totale improvvisa perdita del centro. Si apre una sorta di baratro.

Possiamo accorgerci molto bene di ciò che ferì in profondità confrontando le opere di Raffaello, che muore nel ‘20, con quelle successive di pittori toscani, come per esempio il Pontorno o Rosso Fiorentino, ma anche con opere di quello che si chiamerà poi il manierismo romano, come ad esempio Perin Del Vaga. Ci rendiamo conto che, soprattutto in opere di artisti come Rosso Fiorentino, che fu a Roma al momento del sacco, improvvisamente e in maniera evidente, c'è una rottura con un mondo contemporaneo, rispetto a fatti artistici accaduti pochissimo tempo prima, come le grandi opere di Raffaello ed il loro equilibrio formale. Nelle opere di Raffaello, anche nei ritratti, vediamo un'adesione all'effigiato, quindi vediamo la pelle dell'effiggiato arrossarsi, oppure vediamo una borsa sotto l'occhio, che può indicare una vaga melanconia, un'aderenza a uno slancio nei confronti del mondo circostante; invece Rosso Fiorentino comincia a percepire che il grande, straordinario itinerario di quello che noi chiamiamo rinascimento o rinascenza, in realtà stava giungendo al termine. Con la morte di Raffaello, tutto quanto quello che era necessario dire rispetto alla ideazione di forme magnifiche impostate su "le divine proporzioni", proporzioni di natura che hanno accompagnato la progettazione di edifici o di dipinti, ha fine. Si era giunti all'apice, di più non si poteva dire, e per fatalità anche la storia ha contribuito a troncare quel periodo. Quindi, in realtà il sacco di Roma cade in un periodo in cui il grande Rinascimento è ormai un fatto compiuto.

Di fronte a questa enorme e improvvisa lacerazione, la prima reazione è quella di tentare di non avere più niente a che fare con il mondo attorno, quindi si è portati dalla paura ad interrogare la propria interiorità, una interiorità che però non ha delle regole; si è dissolto tutto, e questo non avere regole porta ad ideare, a trasmettere fuori di sé con un pennello, con una tela o con un muro da affrescare, la propria interiorità assorbita soltanto da se stessa. Questo è un fatto credo molto importante: non si ha una relazione, non si ha alcuno slancio verso quel mondo finito e distrutto circostante. Occorre precisare che tutto questo prende avvio ed è comunque un processo lentissimo, quasi impercettibile, un avvicendamento che durerà dei decenni, e che porterà numerose strade attraverso le quali esprimersi, come l'esoterismo, la magia.

In sintesi, accade che tutto un mondo si ripiega, e diviene inventore di immagini straordinarie ma irrelate, cioè senza rapporto alcuno con la realtà esterna.

Giungiamo così alle soglie della riforma cattolica, che invece porrà l'accento sull'importanza delle immagini come portatrici di verità; per esempio, il Cardinale Paleotti alla fine del '500 scriverà un trattato delle immagini sacre e profane, una sorta di codice da seguire. Questo trattato costituisce la premessa di quello che sarà poi l'arte della controriforma. Federico Zeri ha battezzato un pittore molto importante che operò a Roma, Scipione Pulzone, un grande ritrattista, un "pittore senza tempo", la cui visione delle cose è molto realistica, ma molto ferma. L'arte di Scipione Pulzone e l'arte romana in generale, porteranno allo straordinario momento del grande naturalismo caravaggesco.

Nel momento drammatico del sacco di Roma, voglio risottolineare che si era aperta una enorme voragine: ad esempio, un grande pittore veneziano Sebastiano del Piombo, scrisse a Michelangelo Buonarroti quattro anni dopo il sacco, nel 1531: "io non sono più, mi pare di non essere più lo stesso Sebastiano che ero prima del sacco di Roma". Una frase formidabile, che fa capire come lui stesso registri in se stesso un cambiamento, un momento di crisi, di vuoto. Quindi, nella coscienza dell'arte, nell'anima dei pittori e degli architetti, si crea questo vuoto, che gli artisti tentano di capire indagando se stessi. Il passaggio immediatamente succesivo è quello della melanconia, ovviamente, e quindi della perdita di relazione con il mondo.

D'altro canto, questo dolore interiore spingerà, complici i nuovi corsi della storia, a riuscire, a riguardare fuori; l'esempio più straordinario di questo nuovo corso che prenderà piede, sono le osservazioni dell'universo e del cielo che farà Galileo; ed è la stessa apertura che troviamo nei grandi pittori dell'inizio del secolo succcessivo, come Caravaggio.

Il sacco di Roma è stato dunque prima un'enorme frattura, una grande perdita del centro della persona, poi una perdita del centro che codificherà con le proprie osservazioni Galileo. La terra non sarà più al centro dell'universo ma sarà uno dei tanti mondi. La coscienza post-sacco di Roma aveva fatto percepire in modo assolutamente oscuro questa perdita del centro per un fatto improvviso; questa perdita del centro invece sarà percepita come reale da Galileo, e questo accompagnerà la ricerca dell'uomo: una ricerca di armonia che ancora ci accompagna.

Moulin: Il '400 e una parte del '500 sono, senza dubbio, un momento felice nella nostra storia, un momento di allegria, di gioventù, di fiducia nell'uomo e nel suo futuro, di una totale apertura sull'avvenire. Vale la pena vivere questa epoca, dice uno dei protagonisti: vale la pena per gli artisti, per i pittori, per i preti, per i tipografi, per gli umanisti... ma anche per i sicari, per gli spadaccini, per le prostitute, per gli indovini, per gli avventurieri, come Paracelsius, Giordano Bruno o Cardano. In realtà, il '500 è stato per tutti un terremoto terribile, un terremoto morale, spirituale, religioso, filosofico, societario; un'epoca di profondo amoralismo, di frenetica sensualità, di virtù, senza limiti morali, di paura, di assenza totale di scrupoli, di guerre feroci, di povertà economica, di mendicità assoluta, di intolleranza religiosa. Per esempio, oggi, è la festa di san Bartolomeo: in questo stesso giorno, nel 1575 i cattolici di Parigi hanno ammazzato una quantità immensa di protestanti che erano venuti per le nozze del re, il futuro Enrico IV, ed alcuni hanno fatto una frittata di orecchie di protestanti e l'hanno mangiata.

Il Concilio di Trento svolse la sua attività nella seconda parte del '500, cioè in uno dei periodi più drammatici della nostra storia; le cause sono il trauma della frattura ormai compiuta dell'unità cristiana, la minaccia turca alle porte dell'Europa — i turchi sono ormai in Slovenia, quindi alle porte dell'Italia — il terremoto culturale dovuto alla scoperta di un mondo nuovo, ma civilizzato e organizzato, non cristiano. Tutto questo si spiega con i progressi dello spirito scientifico e con il cambiamento del punto di riferimento: si passa dall'uomo cristiano, medioevale, mistico-carnale, fatto di sangue, all'uomo rinascimentale misura di tutto; dall'uomo verticale all'uomo orizzontale, maestro del suo orizzonte. Non è senza significato che ritorni a galla, dopo secoli di oblio, il mito di Prometeo, e che facciano la loro apparizione i miti, Don Chischotte e Amleto.

Sul piano della filosofia politica, vediamo nascere una visione dello stato attraverso la riflessione di uomini importanti come Althus, Jean Boudin, Hobbes e più tardi Jean Jacques Rousseau, che esalta la sovranità senza limiti dei governanti, che siano re, principi, papi, per arrivare finalmente ad affermare la sovranità del popolo; di quella sovranità che è preludio al totalitarismo. Da strumento pedagogico delle anime storte — ciò che era stata durante il Medioevo —, l'inquisizione diventa, nelle mani dei poteri civili — specialmente nella Spagna di Filippo II — una polizia di stato, una squadra del buon costume che crea un ambiente generale di sospetto, di denuncia, di calunnia, di terrore, che fa in due secoli un milione di vittime. Un terzo di queste vittime sono protestanti e sono in stati protestanti, quindi non sono i cattolici che hanno il monopolio del terrore inquisitoriale, ma anche i protestanti; si dimentica spesso che Calvino, che si è ribellato all'autorità di Roma, ha mandato al rogo molte più persone di quelle che ha mandato l'inquisitore più conosciuto, Berdarghi. Inoltre, vi sono in quel momento innumerevoli eresie e movimenti socio-religiosi, il millenarismo che è sempre presente delle classi più povere della popolazione, le epidemie frequentissime; c'è anche una malattia nuova che è la sifilide, che arriva dall'America, un terrore per tutti; vi sono le carestie frequentissime, ogni cinque o sei anni, ed anche la credenza generale — che non è medioevale ma rinascimentale — nell'esistenza di stregoni e di streghe...

Avviene, tra le tante cose, il sacco di Roma, la disfatta dell'Invincibile Armata nel 1588, le guerre di religione di una ferocia incredibili... ci sono anche le profezie, la scrittura, l'Apocalisse. A questo proposito, si deve dire che l'Apocalisse è presente tutti i giorni nella mente della gente quando succede qualche catastrofe o una miseria grande: quindi, a quei tempi, tutti pensano all'Apocalisse, il papa come Lutero credono alla fine del mondo e addirittura la vedono. Sorgono allora anche le utopie; l'utopia più conosciuta è quella di Tommaso Moro, formulata nel 1506, dunque nella stessa epoca del Principe di Macchiavelli (1513); ma le utopie sono una minaccia per la libertà umana, essendo segnate — nel Rinascimento come nel nostro secolo — dalla volontà di organizzare, di razionalizzare, di controllare la società e la vita degli uomini. Anche Moro, al quale si pensa come un uomo che ha sofferto, bravo, rispettabile, santo, morto per la libertà cristiana, dicendo che grazie all'utopia da lui formulata non ci sarà più polizia, perché ognuno vivrà sotto gli occhi di tutti, vuole affermare che l'intimità non esiste più; l'uomo non esiste più, è al servizio della società delle migliori intenzioni. (Per questo, sono contro Platone, che con il suo genio è la sorgente inesauribile del totalitarismo moderno).

Il ‘400 italiano, per il quale ho avuto un amore profondo quando ero più giovane, fino a difendere anche Cesare Borgia o Benvenuto Cellini e anche, per far scandalo, Alessandro VI Borgia, non è quello che credevo né quello che raccontano i manuali scolastici italiani (che sono in ritardo di 50 anni sullo stato attuale delle conoscenze storiche) o gli intellettuali ancora illuminati dai raggi della cosiddetta filosofia del secolo dei lumi.

La realtà storica è un'altra, è quella che ho descritto. E allora il Concilio di Trento, la Riforma — non dico mai "Controriforma", perché il Concilio di Trento, forse il più grande concilio della storia, non ha fatto una controffensiva, ma qualcosa di positivo — sono la riorganizzazione della Chiesa: controllo dell'educazione del clero, codificazione delle condotte per tutti, controllo dell'attività di tutti, razionalizzazione del mondo laico. Eppure c'è un passivo, il primo e più grande dei passivi della Riforma del Concilio, è che i laici non sono stati presenti, non sono stati presi in considerazione, sono e rimarranno duranti i secoli ancora il piccolo gregge che ha come qualità essenziale di ubbidire. I più grandi, tra i quali un genio Roberto Bellarmino, non hanno neanche pensato che i laici potessero costituire un organismo spirituale; bisognerà aspettare il Vaticano II per ritrovare la Chiesa in movimento, la Chiesa medioevale, una Chiesa aperta al futuro e al mondo moderno.

Gaspar: Parlerò brevemente dell'Escorial come immagine architettonica della riforma cattolica. L'Escorial è un affare di potere, di autorità, di classicismo architettonico, di arte, architettura, pittura, specialmente influenzata da Michelangelo; è un affare di volontà, di propaganda politico-religiosa, e di normatività. Per questo, è importante capire l'Escorial tra il sacco di Roma e il Concilio di Trento.

L'Escorial è un monumento spagnolo ma anche un monumento italiano, sconosciuto o misconosciuto, perché l'architettura è italiana, è realizzata da un allievo di Michelangelo. Questo architetto ha lavorato come secondo architetto nella basilica vaticana, è uno spagnolo che si è trasferito in Italia, che ha lavorato tantissimo a Napoli per il viceré, compiendo la riforma urbanistica cinquecentesca napoletana: insomma è un architetto nato in Spagna ma la cui formazione è italiana. Inoltre, l'Escorial contiene opere d'arte italiane, cinquecentesche, come le sculture dei leoni, gli affreschi del Tibaldi, del Zuccaro, ed anche seicentesche, come gli affreschi del Giordano. Evidentemente, non è solo per questo rapporto artistico-culturale fra l'Italia e la Spagna che ci interessa l'Escorial, ma anche per il fatto che esso rappresenta un segno di potere, di autorità, di cultura del ‘500.

L'Escorial rappresenta il ruolo che aveva la Spagna nella storia italiana dal '400 al '700, ma specialmente l'espressione architettonica dei problemi di potere e di fede tipici del ‘500, per esempio la ribellione contro l'autorità politica e religiosa di Carlo V, o i conflitti tra il Papa, l'imperatore e il re di Francia.

Filippo II è l'erede di tutta la tradizione di suo padre, l'erede non di tutti i regni — non è più imperatore, ma solo re di Spagna, delle Indie, di Napoli, duca di Milano...- ma è l'erede della tradizione, della fedeltà assoluta alla Chiesa cattolica. Questo è molto importante, perché in fondo il legame comune tra tutti i regni del re è questa idea di religione, di cattolicità; non sono affari politici che fanno di questo organismo un'unità. Ma questa idea centrale della religione, della fedeltà al Papa non è bigottismo esacerbato, come per esempio quello dell'ultimo Seicento, quando Carlo II, ultimo degli Asburghi spagnoli, non sapendo più cosa fare, mette nelle mani del Papa l'ultima decisione, se fare testamento per i Borboni o per gli Asburgo imperiali. La fedeltà alla Chiesa e al Papa che ha Filippo II non ha alcun legame con l'idea di indipendenza politica, di autorità civile del re, che è tante volte contrapposta all'autorità papale come autorità nel mondo.

Dunque, quello che ha voluto Filippo II nell'Escorial, che è un monastero fondato nel 1563, da un'idea venuta al re verso il 1558, è la volontà di esprimere il potere e l'autorità nello stesso linguaggio nel quale si era espresso a Roma, in un linguaggio romano, cioè emulare e anzi superare i pontefici. L'architettura classica è il punto culturale a cui si era arrivati nel primo ‘500; poi c'è una rottura con il sacco, ed infatti all'estero, in Francia o in Spagna — dove il classico non esiste prima del momento del Sacco —, il classico è un'imposizione del potere come espressione architettonica delle sue volontà. Questo stile classico trentino, questo stile normativo, non può essere evidentemente lo stile classico di prima del Sacco, lo stile classico che c'era a Roma nei due primi decenni, ma è una cosa molto diversa perché deve esprimere questo senso irrigidito del potere.

L'Escorial è concepito principalmente come un monumento per la tomba dell'imperatore e poi come monastero dove i frati pregano continuamente per la salvezza dei reali. L'idea centrale all'Escorial come affermazione della riforma cattolica contro la riforma protestante è la centralità della presenza reale dell'Eucaristia, infatti ai due lati dell'altare maggiore è sempre presente l'Eucaristia e ci sono sempre i frati che pregano per i reali. In questo senso, le idee centrali della presenza reale, della orazione perpetua, del dogma assolutamente espresso con l'autorità del Concilio, le idee sulla morte, sono assolutamente centrali per capire l'Escorial, che diventa così per la Spagna un modello di architettura classica, nel quale con il disegno italiano si sono mischiate cose che piacevano al re.

Come sintesi, l'Escorial è un complesso singolare che fa un po' un riassunto di tutte le cose che erano presenti nella realtà del potere e nella realtà del Concilio di Trento.