Manufatti, macchine, sistemi: dalle praterie al pianeta rosso

Lunedì 24, ore 17

Relatori:

Alvise Braga Illa

Alberto Sangiovanni Vincentelli

Moderatore:

Mario Gargantini

 

Il Professor Braga Illa è un imprenditore nel settore dell’informatica e dell’elettronica innovativa. Negli Stati Uniti ha collaborato alla realizzazione dei primi satelliti per telecomunicazioni e delle prime reti di calcolatori per monitoraggi e controlli.

Braga Illa: Alcuni mesi fa mi trovavo a Venezia, con un amico, il professor Ruina, docente di elettronica al M.I.T.. Guardando la basilica di San Marco, disse: "Commovente e stupefacente: ecco dove eravate voi attorno all’anno 1000, 500 anni prima che Colombo sbarcasse nell’America. Cinquecento anni dopo siamo più avanti noi". Mi sono sentito punto, stimolato, quasi irritato da questa metafora sportiva. L’abbondanza di risorse naturali non basta a spiegare quello che è successo. Nella prima rivoluzione dell’energia, nel secolo scorso, gli Stati Uniti si trovarono alla pari con noi. Furono poi assolutamente i primi nella seconda rivoluzione energetica, che avvenne subito dopo, con la scoperta del petrolio. In pochissimi anni si passò al motore a scoppio e, quasi subito, all’automobile e all’aviazione. Queste due rivoluzioni energetiche nascono dalla disponibilità di fattori naturali, il carbone e il petrolio, ma anche dall’innovazione tecnologica e sul modo di utilizzo di questi fattori. Nella prima rivoluzione energetica l’Europa ebbe la primogenitura di numerosissime scoperte e invenzioni. Fu grazie al petrolio e alla seconda rivoluzione energetica che gli USA presero un primo e significativo vantaggio sull’Europa. A questo punto saremmo tentati di attribuire a questa famosa corsa all’oro nero un’importanza determinante. Ma questo vantaggio competitivo naturale non è assolutamente sufficiente a spiegare il primato del Nord America tanto è vero che vi furono subito le due principali ulteriori rivoluzioni tecnologiche a cavallo del XIX e del XX secolo: la rivoluzione dell’elettricità e la rivoluzione degli antibiotici e dei fertilizzanti e poi in pochissimi anni telegrafo, radio, poi l’elettronica moderna e, contemporaneamente la trasmissione della forza idroelettrica. Nel caso dell’elettricità, degli antibiotici e dei fertilizzanti, che cambiarono da un lato la nostra capacità di combattere la malattia, dall’altra resero straordinariamente fertili le terre di tutto il mondo, non si può affatto dire che ci fosse un vantaggio nella disponibilità di fattori naturali da parte degli Stati Uniti. Queste due rivoluzioni sono veramente figlie della scienza e solo in misura secondaria nascono dalla disponibilità di materie prime e di risorse naturali. In entrambe le rivoluzioni il Nord America primeggiò e con queste si rafforzò. Dobbiamo concludere che bisogna cercare altrove e quindi in particolare in quella che io chiamerei "la saga dell’uomo americano" e nel fattore umano il vero grande motore dello sviluppo tecnologico degli Stati Uniti.

Gli Europei dell’800 e 900 si dibattevano nelle pastoie dei problemi dinastici, istituzionali, territoriali, nell’espansione coloniale. Nel ‘900 sono seguite quasi dappertutto le dittature che ben conosciamo e due guerre mondiali, in realtà europee. Negli Stati Uniti invece si tesseva mirabilmente, con tanta fatica e con tante contraddizioni la tela della democrazia. Ma è pur vero che nei primi cinquant’anni di questo secolo, moltissimi giovani di età e di spirito abbandonarono il vecchio continente per l’America. Là nessuno chiedeva di chi uno fosse figlio, chi conoscesse ma invece cosa sapeva fare e quali sacrifici fosse disposto a sopportare. Promettevano o sembravano promettere una qualche maggiore libertà, almeno dalla schiavitù dei bisogni primari. Tanta gente emigrò negli Stati Uniti, giovani, vecchi, gente preparata e gente meno preparata e nel frattempo questi semplici e potenti messaggi che lanciavano gli Stati Uniti diventavano grandi miti, diventavano anche dei simboli: le corse alle terre fertili dell’Ovest, la corsa all’oro, la corsa al petrolio, il mito dello yankee salvatore che interveniva nelle guerre mondiali per tirarci fuori dai pasticci.

Torniamo alla domanda: perché questo sviluppo tecnologico negli Stati Uniti? Le necessità, le sfide, le difficoltà, il vuoto da riempire e da conquistare e le progressive vittorie hanno rafforzato l’idea americana del "si può fare", si può creare. Non c’è bisogno di chiedere alla mamma, al padrone, al boss, all’autorità costituita, alla tradizione: se è una buona idea, se hai qualcosa da dire, si può, anche se non è mai stato fatto prima. Si sviluppa così, prima negli Stati Uniti che altrove, la concezione industriale della produzione e della domanda di massa. C’erano sì risorse naturali eccezionali, unite a grande spirito inventivo, grande ma non superiore a quello europeo, ma, soprattutto c’era questo spirito di fiducia e di libertà che ha animato la prima America. E queste, a mio parere, sono le reali basi dello sviluppo tecnologico degli Stati Uniti. Esso poi è stato riassunto nella realtà straordinaria delle grandi Università americane.

Il contesto umano è determinante per lo sviluppo tecnologico. Per chi, come l’Italia e il Giappone, non ha grandi risorse naturali, non c’è sviluppo economico senza sviluppo tecnologico e dunque senza innovazione. Dopo la guerra il nostro Paese ha avuto la necessità di ricostruire. E l’Italia veniva da una grandissima tradizione di innovazione; anzi, noi eravamo leader durante il Rinascimento, nell’innovazione. Basta ricordare le celebri scuole di arti e mestieri a Venezia, scuole che ebbero un ruolo importantissimo nello sviluppo non solo tecnologico ma anche civile di questa Repubblica. Erano non soltanto scuole ma centri propulsori della vita sociale, centri di raccordo spirituale, religioso, di mutuo soccorso, di adesione al gruppo degli specialisti, di chi lavorava e di chi era tecnologo. Adesso noi come Paese, siamo di fronte a quello che a me sembra essere una triplice crisi: una crisi della nostra competitività internazionale, legata anche alla congiuntura, una crisi del nostro debito pubblico e infine una crisi morale. Mi limiterò a sottolineare due aspetti: la necessità di migliorare il nostro fattore educativo e di migliorare e rafforzare la competizione interna. Soltanto con un sistema educativo più efficace e con un più elevato grado di competizione interna, continueranno a svilupparsi le tecnologie e le industrie. Il nostro sistema educativo è buono ma è debole rispetto a quello di altri Paesi. Siamo chiamati a confrontarci con i paesi più avanzati, Giappone e Germania, per esempio, nel settore educativo. Si deve dare una più diffusa e incisiva educazione nella tecnologia, nel creare, oltre che nel gestire, nel saper fare, nell’intraprendere. Le competenze tecnologiche e scientifiche possono e devono essere inquadrate nel più ampio e, a mio avviso, irrinunciabile sistema di valori e di conoscenze umanistiche. Tuttavia, queste conoscenze tecnologiche si devono diffondere e approfondire. Le due cose devono coesistere.

Il malessere USA di oggi è sostanzialmente una crisi di valore ma è anche una debolezza del sistema educativo primario e secondario. Alle grandissime Università citate prima, efficaci, meritocratiche, aperte, non corrisponde un adeguato sistema educativo di massa. Infine: l’industria italiana deve avere una maggiore competizione interna. L’Italia si è affermata internazionalmente, intendo in modo macroscopico, non nell’informatica e nell’elettronica, ma nel settore tessile, nell’abbigliamento, nella gioielleria, nel settore della casa, dei mobili e degli arredi, e in misura forse un pochino minore, in quello alimentare, settori che afferiscono direttamente alla persona. La privatizzazione deve servire non per creare nuovi monopoli o cartelli bloccati, bensì per allargare la competizione interna, necessaria premessa per la competitività internazionale. Dalle crisi si può uscire; anzi, esse sono fonte di stimolo. Dipende da noi, se saremo d’accordo nel farlo e nel ripartirci i sacrifici necessari.

Il Professor Alberto Sangiovanni Vincentelli è professore di ingegneria elettronica all’Università di California a Berkeley dove vive ormai da quindici anni; ha collaborato con diversi Centri di ricerca e Università italiane e degli Stati Uniti e ha un’esperienza industriale sia come consulente che come fondatore di società nell’alta tecnologia. Ha ricevuto diversi riconoscimenti internazionali ed è uno dei massimi esperti di progettazione assistita da computer.

Sangiovanni Vincentelli: Spesso si legge sui giornali: l’elettronica è un settore estremamente vitale e importante nel mondo. Per quale motivo? Nel 1988 il mercato mondiale dell’elettronica era di 770 milioni di miliardi e nel 1992 si pensa che sia un miliardo di miliardi il suo valore globale. Gli Stati Uniti e l’Europa crescono in questi settori ma più a rilento rispetto al Giappone, alla Corea, a Taiwan, alla Cina, paesi che stanno investendo in maniera estremamente elevata e con grande capacità. L’Europa e, più in particolare l’Italia, si trovano alla retroguardia dello sviluppo dell’elettronica e, come tali, rischiano in modo veramente notevole di trovarsi quali fanalini di coda dello sviluppo tecnologico a livello mondiale. Bisogna anche riconoscere che, mentre gli Stati Uniti erano la locomotiva nelle altre tecnologie, non lo sono più o non necessariamente su tutti i settori, rimpiazzati progressivamente dalle nazioni emergenti, tra le quali naturalmente il Giappone e tutte quelle nazioni tra cui per esempio le città-stato, come Singapore che hanno solo 2 milioni di persone eppure sono una realtà nello scenario mondiale dell’elettronica e dell’industria in generale.

"Elettronica" è un termine molto vasto, che comprende al suo interno calcolatori, sistemi di comunicazione, sistemi industriali, prodotti di consumo come televisioni, macchine, lavastoviglie ecc. Il settore merceologico più importante dell’elettronica al momento attuale è quello dei calcolatori. E’ interessante notare che un settore che a prima vista sembra di basso contenuto tecnologico come quello dei televisori, delle radio portatili, dei compact disc, è in realtà al secondo posto.

Siamo a cavallo tra un’epoca che sta finendo e un’altra che sta cominciando: bisogna cambiare totalmente l’ottica con cui si intende questo settore industriale. In Italia stiamo assistendo, di fatto, al disinvestimento costante, totale, cosciente, di tutte le attività di elettronica ad alto contenuto tecnologico, per rimanere solo con quelle ditte che a mio modo di vedere non sono competitive strutturalmente. Questa è veramente una situazione disperata ed è disperata anche a livello europeo. L’elettronica gioca una posizione incredibilmente importante riguardo al futuro dell’automobile; infatti, si pensa che l’automobile del futuro sia essenzialmente un dispositivo elettronico. Ci troveremo, per esempio, ad avere sull’automobile un sistema di navigazione simile a quello di un aereo, per cui uno può essere sempre in grado di riconoscere su quale strada egli sia e quale sia il tragitto più breve da una destinazione ad un’altra. Ci sono già dei prototipi che funzionano in questo modo. Un aspetto ancora più fantascientifico è quello di avere un radar su un’automobile per riuscire a vedere se ci sono degli altri automezzi che vengono dietro una curva, evitando scontri frontali. L’automobile elettronica del futuro, è vista come un’estensione della casa: nel futuro possiamo pensare che l’automobile sia una stanza che viaggia. Negli USA per ore ed ore una persona spende il proprio tempo in macchina: perché non dotare la macchina di tutte quelle cose che rendono più piacevole il tempo, anche più proficuo? Tanto è vero che ormai tutte le automobili degli USA hanno il telefono cellulare, e si riesce ad usare il tempo in modo più efficiente. Alcune hanno già un fax, altre hanno un terminale calcolatore, in un certo senso è un ufficio viaggiante.

Un dispositivo di cui si parla così tanto in questi giorni è quello della televisione ad alta definizione. Essa ha un contenuto di alta elettronica talmente elevata che potete pensarla come un sistema di calcolo estremamente complesso, più complesso di un grosso calcolatore di oggi. Una volta che voi avete questo dispositivo in casa, non l’userete soltanto per guardarvi i programmi televisivi, ma per un miliardo di altre cose, perché c’è una potenza di calcolo che vi permette di farlo. Si sta già evolvendo anche il discorso della televisione interattiva: non solo voi riceverete passivamente dei programmi, ma potete addirittura interagire con l’ente che li emette per sceglierli. Se poi è vero che voi potete parlare alla televisione, quindi influenzare quello che la televisione fa a voi, allora si apre anche un discorso politico: cioè nel senso che la televisione potrebbe essere usata come strumento di democrazia diretta: perché non chiedere le informazioni ai cittadini attraverso le televisioni? Ci può essere addirittura una forma di voto attraverso di essa. Questi sono dei possibili scenari, non necessariamente succederanno, ma la tecnologia li renderà possibili.

Quali sono gli sviluppi nel campo dei calcolatori? Siamo alla vigilia di un cambiamento nel settore del calcolo, quello dell’uso del calcolo parallelo. Anziché pensare al calcolatore come singola entità si pensi ad un team di calcolatori che si parlano fra di loro per risolvere certi problemi. Ma far parlare fra di loro delle persone o dei dispositivi vuol dire metterli in comunicazione, quindi dov’è il confine fra comunicazione e calcolatore? Non esiste più. Non esistono più dei settori merceologici diversi, esiste l’azienda elettronica globale, quella verso cui, soprattutto i giapponesi si stanno muovendo, quella, purtroppo in cui sia gli americani che gli europei sono in grave difetto.

Ci stiamo muovendo verso una integrazione dell’industria, nel senso che i calcolatori e le comunicazioni si stanno fondendo in un unico gigantesco grosso blocco e l’elettronica andrà a finire in tutte le parti della nostra vita. Lo scenario tecnologico del futuro sarà questa gigantesca rete che unisce tutte le nazioni del mondo e tutti gli uomini e tutte le capacità di elaborazione e di immagazzinamento dell’immagine e delle informazioni in un’unica rete. Ci troviamo di fronte a quella famosa età orwelliana fondata sulla comunicazione globale. Che cosa ne facciamo di queste informazioni? Che cosa vogliamo dalla comunicazione con altri uomini in altre parti del mondo? Quale sarà lo scenario?

Un altro discorso molto importante è quello relativo ai dispositivi portatili. In Italia addirittura è diventata una mania quella dei telefonini portatili e si verifica l’uso della tecnologia per scopi diversi da quelli per cui il dispositivo elettronico è stato creato. Il telefonino portatile ad esempio, è essenzialmente uno strumento di lavoro, deve essere utilizzato per comunicazioni molto importanti, il fatto che uno deve essere sempre raggiunto, come un dottore che deve correre al capezzale del malato. Invece spesso il dispositivo comanda l’uomo e non l’uomo il dispositivo! Questo è uno dei grandi pericoli insiti nella tecnologia vissuta in modo acritico da parte della gente che non conosce, che non sta a pensare a che cosa questi dispositivi servano.

C’è un altro punto su cui riflettere: ci sono cambiamenti strutturali in vista; gli USA potrebbero non essere più il vertice dell’alta tecnologia, che peraltro prosegue sulla mentalità da essi impostata. Il mito dell’America come sinonimo di progresso si è incrinato e si sta incrinando per altri versanti: ci sono stati disastri ecologici, gli incidenti alle grandi tecnologie, lo Shuttle, disastri nucleari. Di qui sorgono numerose domande: quale sarà l’azione dell’uomo di fronte a questo scenario, nel momento in cui gli aspetti più eclatanti, più entusiasmanti, mitizzati della tecnologia, vanno in crisi? Come reagisce la gente, cosa si può prevedere? Già si può vedere un minor interesse dei giovani a queste discipline. Ci sarà un rimescolamento dello scenario internazionale, per cui nuovi Paesi prenderanno il sopravvento, oppure assisteremo ad una nuova era tecnologica, fondata su basi diverse? In base a che cosa si può valutare la tecnologia, il suo cammino, il suo itinerario? Dal solo fatto che funzioni, dal riscontro economico che ha, dal potere che conferisce, dal grado di risposta ai bisogni?

Braga Illa: Non credo al declino della tecnologia, io credo invece a grandi mutamenti nello scenario internazionale ed a nuove ere tecnologiche, su basi diverse. Oggi come mai prima c’è un specie di compressione. Sulla terra convivono a distanza di poche ore di aereo civiltà che tecnologicamente parlando, coprono un arco temporale che va dall’età della pietra all’età post-industriale: dobbiamo aspettarci che nascano nuovi miracoli economici. Di alcuni si vedono già i segni. Abbiamo sentito parlare di Giappone, abbiamo parlato anche del nostro piccolo miracolo del dopo-guerra. In futuro forse la grande e laboriosa pazienza cinese sarà premiata. Non è affatto da escludere che anche dall’Est europeo avremo delle sorprese. Forse anche noi conosceremo un altro ciclo di crescita tecnologica ed economica. Dal punto di vista poi della scienza e della tecnologia siamo in attesa della prossima grande scoperta rivoluzionaria che abbia un impatto confrontabile con quello dell’elettricità o del petrolio o degli antibiotici. Forse la nuova rivoluzione renderà finalmente fruibile su larga scala e senza pericoli la forza nucleare. Forse le grandi novità verranno da altre scienze, quelle biologiche, dovremo saperle utilizzare bene, forse avremo anche insospettate sorprese. Intanto continueranno senza sosta i già prevedibili sviluppi della microinformatica. Continueranno a venir fuori nuovi e sorprendenti materiali. A noi uomini sta di applicare bene queste tecnologie; alle singole comunità internazionali e nazionali spetta di farne una base di sviluppo economico e sociale. Circa poi la valutazione della tecnologia, io credo che essa non vada valutata in sé, ma debba essere vista alla luce delle sue applicazioni. Come valutare le applicazioni? Sulla base della risposta ai bisogni. Se queste tecnologie, e le loro applicazioni, risponderanno ai bisogni reali, il ritorno economico correttamente inteso sarà una conseguenza.

Gargantini: Si pone allora il problema dei soggetti che possono o non possono modificare la tecnologia o creare una nuova era. Il progresso tecnologico è ineluttabile, procede automaticamente, autonomamente, senza possibilità di condizionarlo oppure c’è spazio di intervento, di novità da parte di particolari soggetti?

Quali sono i soggetti più promettenti in questo senso? Possono esserlo i popoli emergenti, possono esserlo nuove forme aggregative che esistono o gli intellettuali sistemisti che mettono insieme tutto?

Braga Illa: Su questo tema penso che oggi si siano rotti molti vecchi paradigmi da guerra fredda, che avevano portato a teorizzare la necessità di sempre maggiori capacità difensive, offensive e distruttive, sufficienti ad assicurare quello che veniva appunto chiamata la mutua distruzione. Questo vecchio paradigma della guerra fredda ha creato megaprogetti, i quali, se tutto andava bene, diventavano inutili. Perché l’uomo non pensa a megaprogetti che, se tutto andrà bene, diventano utili? Perché l’umanità non protrebbe affrontare il problema della fame in Africa su nuove basi? Certo, per avviare utili megaprogetti dobbiamo risolvere il problema della disponibilità di capitali, che poi è un problema di scelte dell’uomo: a cosa dobbiamo destinare le risorse? Con quali ritorni e chi deve fare i sacrifici, chi godere dei frutti? Queste domande purtroppo sono senza risposta oggi, nella teoria e nella prassi economica. Dobbiamo avere anche il coraggio di un’altra utopia, mai più guerra, proprio in questo momento in cui si fanno più frequenti le guerre locali e civili. Noi ci esortiamo alla tecnologia, ci esortiamo all’intelligente fare, ci esortiamo a intraprendere il nuovo; io penso anche che ci dobbiamo esortare ad aprirci agli altri in un moderno spirito competitivo con i più forti e collaborativo con i più deboli.

Sangiovanni Vincentelli: Heidegger scrive "...uomini, nessun comitato di statisti eminenti o di scienziati, nessun congresso di leaders di industrie, può rallentare o dirigere il progresso o la tecnologia. Semplicemente nessuna organizzazione umana è capace di dominarlo". Per quale motivo questo è vero? La tecnologia è estremamente diffusa; non c’è persona o nazione che ne possieda la chiave. Potete smantellare un gruppo di ricerca, ma ci sarà qualcun’altro, in qualche parte del mondo, che arriverà allo stesso risultato. Siamo dunque delle vittime indifese dell’irresistibile potenza della tecnologia? Molte volte l’abbiamo demonizzata come il frutto del lavoro del diavolo. Purtroppo improvvisamente senza esserne coscienti, ci troviamo così dipendenti dai dispositivi tecnologici che ne cadiamo sotto il dominio: è un pericolo reale molto serio, quindi dobbiamo ripensare a un umanesimo della tecnologia. E’, ad un tempo, un sì e un no alla tecnologia: un sì alla tecnologia come mezzo, per affrancarci dai bisogni più elementari, per favorire lo sviluppo delle comunicazioni tra persone diverse. No, invece, alla tecnologia come dominatrice assoluta della nostra vita che non ci consente di porre queste domande fondamentali: cosa siamo qui a fare? Qual è l’essere, qual è l’essenza dell’uomo?

Vorrei portare un passo di Dostojevskji dai Fratelli Karamazov, in cui c’è proprio questo tema molto precisamente sottolineato nel Grande Inquisitore. Dice al Cristo che si palesa a lui: "Prima sfamateli e poi chiedete loro la virtù". "Ecco che starà scritto sulla bandiera che brandiranno contro te: al posto del tempio tuo sarà innalzato un nuovo edificio, sarà innalzato di nuovo una tremenda torre di Babele, sebbene anche questa non verrà condotta a termine come quella di allora, ma pur tuttavia tu avresti potuto evitare questa nuova terra". L’ultimo passaggio dice: "Il popolo dirà: dateci da mangiare perchè coloro che ci hanno promesso il fuoco del cielo non ce l’hanno dato" "nessuna scienza potrà dare loro il pane, finché rimarranno liberi, ma finirà che essi recheranno la libertà loro ai piedi nostri e diranno a noi: fateci schiavi ma dateci da mangiare". E’ questo il pericolo fondamentale, il pericolo della società moderna, dateci la nostra televisione, dateci i nostri divertimenti, dateci il nostro pane e fateci pure schiavi. Questo è quello a cui noi tendiamo ed è questo il grosso pericolo, la perdita della libertà.

Gargantini: C’è la necessità di giudicare la tecnologia, di non subirla come qualche cosa di ineluttabile. Il criterio per questa valutazione è la risposta ai bisogni dell’uomo. Occorre una tecnologia del futuro sempre più orientata ai bisogni primari della persona. E ci vuole un soggetto adeguato che sappia capire quali sono i bisogni primari e come affrontarli, che sappia alimentare la creatività e sappia misurare i limiti! E’ una questione di limite, di misura, ma per saper misurare l’opportunità di un gesto di un’azione, ci vuole un soggetto che abbia i criteri di misura chiari, un soggetto che permetta quel pensiero più elevato o più profondo, che aiuti a non farsi dominare dalle cose dagli oggetti. Anche la tecnologia ha bisogno e avrà sempre più bisogno di nascere e di essere originata, generata, dentro una compagnia motivata e solidale.