Davvero tutto è verità, anche il cinema

Mercoledì 27, ore 21.45

Relatore:

Krzysztof Zanussi, regista

Nel cinema è possibile la verità? Se ammettiamo che il cinema rappresenta un sogno, si applica la categoria "verità" al sogno? Il sogno può essere vero o non vero?

Credo di sì: così come ci sono i sogni falsi e quelli veri, similmente dobbiamo giudicare anche il cinema e qualsiasi altra forma d’arte. L’esame della verità per l’artista è però tutto diverso dall’esame della verità per uno scienziato, per un saggista, per l’uomo che usa solo le idee. Nella costruzione delle idee infatti basta il semplice esame della logica per trovare uno sbaglio, per indicare che la conclusione non è ben fondata. L’arte è invece sotto un altro regime: l’artista parla come uomo ipnotizzato, produce delle parole e succede che attraverso queste parole egli dica la verità o che menta, o succede che non si renda neppure conto di che cosa ha detto. Quest’ultima è la possibilità più normale, anche se è umiliante da riconoscere per l’artista: eppure, nessun artista veramente sa che cosa ha detto, lo sa lo spettatore, che tramite la propria intuizione, intuisce se quanto sta vedendo o ascoltando è vero e lo arricchisce (la verità è la ricchezza), o se non è vero e lo indebolisce.

È possibile distinguere tra l’arte buona e quella cattiva, valida e non valida? Al di là di tutte le discussioni, piene di confusione, sui criteri, credo sia sufficiente utilizzare un banale criterio empirico. Se accendiamo la televisione, se andiamo al cinema o a teatro, se leggiamo un libro, possiamo misurare con la nostra coscienza se dopo la lettura o lo spettacolo ci sentiamo arricchiti: se dunque siamo in grado di capire meglio la nostra condizione umana, vuol dire che abbiamo avuto a che fare con un’opera buona, vera, bella. Se invece dopo aver visto uno spettacolo siamo come dopo un’anestesia, più stupidi e distaccati dalla realtà, vuol dire che abbiamo avuto a che fare con un’opera non valida, stupida o brutta. Questo semplice criterio empirico ci aiuta a giudicare ciò con cui stiamo trattando, a discernere qual è l’opera che ci facilita a capire la nostra condizione, che dà più o meno senso alla nostra vita.

Oggi, come sempre nella storia, la maggior parte della produzione del cinema e dell’audiovisivo è brutta e stupida. Anche la maggior parte delle persone non sono belle, e questo non ci sorprende... Solo raramente ci troviamo di fronte ad un’opera bella e buona, che ispira e aiuta a crescere, anche malgrado la buona o cattiva volontà dell’autore. Come esempio di questo "malgrado" pensiamo a Buñuel, un autore che sembrava pieno di odio per la Chiesa, e forse anche per la religione; eppure sul piano artistico era in grado di creare delle opere valide, che portavano – a me è successo così – più vicino alla religiosità e alla Chiesa. Le sue intenzioni, espresse in varie interviste, erano del tutto diverse: ma le interviste dell’artista contano poco, conta l’impatto del suo lavoro che può essere in contraddizione con la sua stessa interpretazione dell’opera. Ci sono del resto anche tanti artisti che sono convinti di creare opere pie, e in verità creano banalità, senza nessuna importanza, che non riflettono né Dio né la bellezza assoluta né la verità.

Sul piano quotidiano, il problema dell’arte, oggi, è proprio questo: c’è tanta produzione che allontana lo spettatore dalla realtà, dalla morte, ad esempio. La morte non fa parte della nostra cultura quotidiana, è una parola oscena e non se ne parla, oppure se ne parla come se fosse un giocattolo, uno scherzo, un elemento della distrazione. Le tonnellate di ketchup e di salsa di pomodoro che si mettono per imitare il sangue, allontanano lo spettatore dalla realtà: questo è molto pericoloso perché questo sogno ipnotico porta gli individui più deboli a un blocco totale della fantasia, laddove invece il compito dell’arte è quello di allargare la nostra fantasia.

L’arte e la cultura sono un’accumulazione delle esperienze delle generazioni passate: siamo nati come piccoli barbari, e il lungo processo del nostro sviluppo ci porta a un livello umano. Il livello della nostra umanità dipende dunque dalla grande esperienza delle generazioni che si trasmette tramite l’arte. Tramite l’arte veniamo a conoscenza dei sentimenti profondi e veri che dobbiamo scoprire: Beethoven, ad esempio, ha espresso questi sentimenti nelle sue sinfonie, e dopo averle ascoltate sappiamo che cosa è la rabbia o che cosa è il sentimento di essere incantato dal giorno dopo la tempesta. È una sorta di scorciatoia, un passo che facilita ad arricchire la nostra esperienza, senza dover rifare le stesse scoperte. La Divina Commedia, i pensieri di Dante, fanno parte della nostra esperienza quotidiana; Shakespeare, Cervantes e Dostoevskij sono elementi che aiutano nella nostra crescita ognuno di noi, che può crescere e scoprire il mondo avendo questo materiale dietro le sue spalle.

Ci sono anche – come già dicevo – le opere che, al contrario, bloccano la fantasia, che impoveriscono la nostra capacità di proiettare i nostri sentimenti e i nostri pensieri: questo è un pericolo che esisteva sempre e che esiste oggi.

Voglio ora offrirvi un esempio della ricerca della verità nell’arte, ricerca compiuta da una persona che interessa a noi oggi non più come artista ma come successore di Pietro, Karol Wojtyla, Giovanni Paolo II. Da giovane, Wojtyla scopriva le bellezze della letteratura studiando la letteratura a Cracovia, e si è avvicinato al teatro clandestino durante la seconda guerra mondiale. I tedeschi avevano proibito gli spettacoli teatrali: l’occupazione tedesca in Polonia era infatti a quel tempo radicale, voleva distruggere, frenare l’umanità del popolo polacco, degradarlo al livello dei barbari. I tedeschi avevano chiuso tutte le università e i teatri, le filarmonie... la musica di Chopin era vietata dalla legge nella Polonia occupata dai tedeschi. Poiché dunque il teatro non poteva esistere, gli attori studenti avevano creato un teatro clandestino che faceva spettacoli in casa per trasmettere cultura: questo era l’ambiente di cui Wojtyla, giovane studente non ancora sacerdote e neppure studente del seminario, fu impregnato, ambiente di un teatro che aveva il compito di salvare la cultura, trasmettere la poesia alla giovane generazione. Per questo Giovanni Paolo II offre un grande esempio (che ho cercato di riprodurre nel mio film biografico su di lui, Da un paese lontano) di come la cultura abbia un messaggio, che viene trasmesso dall’arte. L’arte è lo strumento centrale per trasmettere la nostra cultura e dunque la nostra umanità: è un concetto del tutto diverso dal concetto dell’arte come divertimento, come dolce dopo pranzo.

Il mio ultimo film Fratello del nostro Dio è tratto da una pièce del giovane Wojtyla; il film sarà presentato a Venezia il prossimo 5 settembre. Essendo il testo scritto tra il ’47-’48, subito dopo la guerra, il dibattito e la preoccupazione dominanti sono sul significato del cambiamento del mondo, dell’arrivo dei bolscevichi, della rivoluzione e dell’enorme ingiustizia e povertà dell’Europa del dopoguerra. Il protagonista dell’opera teatrale di Karol Wojtyla è un pittore, un personaggio storico, un certo Adam Chmielewski, oggi un santo, allora solo una leggenda, un personaggio famoso per la generosità con la quale ha sacrificato la sua carriera artistica per diventare un frate terziario per i barboni. La storia si svolge una generazione prima che nasca Wojtyla, alla fine del secolo passato.

Il protagonista Adam nel discutere con i suoi amici, pone i problemi dell’ordine politico del mondo moderno, e dando una presentazione molto oggettiva della visione liberale, dice: "Un povero di solito è colpevole, è uno che è pigro, che ha sprecato le sue possibilità, che è ubriacone... per questo la società lo punisce con la povertà. È questo un elemento necessario per disciplinare la società". Certamente questo è un punto di vista valido: è vero che la giustizia prevede un castigo per la irresponsabilità, per la pigrizia, per un atteggiamento asociale, per la indifferenza, per la mancanza della motivazione. Non dobbiamo dimenticare che tutte le società ricche sono costruite sulla base di questa disciplina.

Ma la posizione di Adam è diversa: egli è un artista già compiuto ma ancora alla ricerca della propria strada, giovane poeta e commediografo promettente. Sceglierà il sacerdozio dando questa motivazione: "Non si può servire a due padroni, se divento un sacerdote devo smettere la creazione artistica: non posso fare entrambe le cose, perché voglio impegnarmi sul serio". Il protagonista cerca dunque di superare la logica della giustizia, del premio e della punizione, con la logica naturale che l’uomo è responsabile solo per se stesso, e che se tutti facciamo delle scelte giuste la società diventa migliore.

Un’altra alternativa è la visione rivoluzionaria: non accettare il mondo e sfruttare l’odio, l’istinto più naturale e spontaneo dell’essere umano, per rifare il mondo, per migliorarlo. Il sostenitore di questa visione si chiama – significativamente – Lenin, e cerca di sedurre Adam, di sfruttare la sua passione. Questo porta Adam a un grande dilemma, a porsi delle domande ossessive: "dove andare? come servire Dio, come servire l’uomo? come trovare Dio nell’altro uomo?" Questa crisi che sembrava schizofrenica viene alla fine superata: è interessante notare che Karol Wojtyla, che non era uno scrittore di grande esperienza, ha trovato un linguaggio adatto per raccontare il processo mentale della schizofrenia, e ha così trovato un caso storicamente vero di schizofrenia superata. Adam infatti, quando ha trovato veramente la sua strada, si è liberato della sua spaccatura interna, si è reintegrato come uomo credente e capace di fare il suo servizio agli altri e a Dio. Questo Adam adesso è santo.

Quest’opera di Wojtyla scritta cinquant’anni fa tocca tanti problemi che sono vivi anche per noi: nell’ultima parte del film emerge poi la grande preoccupazione che l’amore ha il suo aspetto misterioso, che i cammini dell’amore non sono prevedibili dall’uomo, che Dio convoca l’uomo nei modi suoi. Questo aspetto personalista che cinquant’anni fa il giovane vicario della piccola parrocchia di un paesino vicino a Cracovia ha pronunciato, ritroverete nelle sue encicliche, nelle sue lettere pastorali, nelle sue omelie. È una grande sorpresa scoprire che quest’uomo a ventisei anni era già formato e maturo.