"... ed è come se ti fossi accostato a un divino nascosto..."

 

Martedì 24, ore 11

Relatore:

Olga Popova

Introduzione di Romano Scalfi, direttore del Centro Studi Russia Cristiana

Scalfi: Ed è come se ti fossi accostato a un divino nascosto è una delle frasi geniali di Tarkovskji, che in poche parole riesce a presentare il cuore del canone iconografico. Un divino nascosto, che rimane misterioso, che è indefinibile, apofatico, come ama dire la teologia orientale. Di Dio è più facile dire quello che non è che dire quello che è. L’alterità quindi rimane tutta, ma è un divino che si può accostare, che si può toccare. Con Cristo, il divino si è reso presenza. Dio totalmente altro e totalmente presente: è questa la fondamentale antinomia del Cristianesimo che l’icona vuole annunciare.

All’icona è alieno sia il misticismo disincarnato che un realismo secolarizzato. L’esicasmo, corrente che appartiene al monachesimo orientale e che ha la sua formulazione teologica con Gregorio di Palama, nella seconda metà del secolo XIV, è indicativo anche per comprendere lo spirito dell’icona. Il problema dell’esicasmo è come vivere la presenza misteriosa del Dio incarnato: si afferma che lo Spirito Santo personalizza per ogni uomo e attualizza in ogni circostanza la presenza di Cristo. All’inizio della liturgia – ma anche per l’inizio del lavoro, di ogni forma di attività – si dice: "Re celeste, consolatore, Spirito di Verità, Tu che sei presente in ogni luogo e ogni cosa riempi". Presenza in ogni luogo, per portare alla perfezione ogni cosa, ogni realtà. Ecco perché il problema morale per l’esicasmo – non solo per l’esicasmo evidentemente, ma esso lo mette in evidenza senza equivoci – non è l’aderire ad una serie di comandi, di regole, di norme, ma è la vita in Cristo. Quasi tutti i testi morali dell’Oriente si intitolano "La vita in Cristo": è la tensione a far vivere Cristo che ci rende morali. E’ lo Spirito Santo che attira la presenza di Gesù nel cuore, che è il centro unitario e totalizzante della vita dell’uomo. Questa forma di spiritualità è stata coltivata in Grecia, ed è stata poi ripresa nel corso dei secoli in Russia da S. Nilo di Sora, poi, più tardi, da Paissi Velickovskij, e infine da tutti gli Starcy di Optina.

E’ difficile comprendere l’icona se non ci si richiama in qualche modo a questa preoccupazione di rendere presente Cristo nella realtà. L’icona non è una forma di misticismo orientale, è l’annuncio di una presenza nella realtà, nella carne, nelle situazioni, in ogni forma di vita. Soltanto così la vita ottiene la sua piena realizzazione: la vita in Cristo è la vita umana nel senso più alto della parola. L’icona canta la sinfonia del mondo reso bello dalla bellezza incarnata, ma non per questo è la presentazione utopica di un mondo che realisticamente parlando è segnato, ferito da tanto male, dal nostro peccato. L’icona vuol servire per la trasfigurazione del mondo: quindi, vuol essere taumaturgica, miracolosa, intendendo per miracolo proprio questo mondo nuovo, adeguato alla presenza di Cristo nella realtà. Ma il miracolo domanda la fede. L’icona è carica di sinergia, di energia divina e umana. E’ un tabernacolo che racchiude il divino e insieme l’intercessione orante dell’umanità. Quanto più è pregata tanto più diventa taumaturgica, miracolosa, è la fonte dell’energia divina e il lago che raccoglie e conserva la supplica del paradiso e della terra.

Chi entra in una chiesa bizantina sa che trova l’iconostasi e sull’iconostasi c’è sempre la deesis, l’intercessione: Cristo al centro, alla sua destra la Vergine, alla sinistra S. Giovanni Battista e una serie di Santi, tutti inchinati, prostrati a venerare Cristo. Questa è l’espressione di una realtà che in un momento della liturgia è particolarmente sottolineato, quando il sacerdote esce da un lato delle porte diaconali, e invita il popolo: "Venite, prostriamoci a Cristo", e tutti si inchinano, il cielo è inchinato a Cristo. L’icona raccoglie, conserva per il mondo, per la vita questa implorazione di Cristo, della Chiesa, dei santi e di noi povera gente. Per questo l’icona non è mai finita, ma esige, per usare l’espressione di un mistico, "la perfezione della domanda". C’è modo e modo di domandare, c’è modo e modo di presentarsi di fronte all’icona. La domanda deve essere viva, non formale, l’icona vuole una domanda ardita, non fiacca, protocollare, ma sincera.

Normalmente l’icona non viene firmata, perché l’icona è formata dalla Chiesa, dal popolo di Dio, dall’energia dello Spirito. Ma restaurando un’antica icona, il professore Ovcinnikov ha trovato la preghiera dell’iconografo: "Sei troppo bello, Signore, non perdonarmi". Presa alla lettera è una bestemmia, ma ricorda molto bene l’espressione di Pietro: "Allontanati da me, Signore, perché sono uomo peccatore". La preghiera deve essere questo rapporto vivo, ardito, sincero. Non occorre mettersi delle maschere di spiritualità per presentarsi all’icona, perché l’icona è come Cristo, ci accetta come siamo, quando siamo spiritualmente elevati o quando siamo depressi, ogni stato d’animo è adatto per presentarsi all’icona. Per questo, la domanda deve essere personale, non generica. Ma nel medesimo tempo, sobornica, cioè ecclesiale, comunionale, non individualistica. Deve essere pura, cioè ardente, come dice Isacco il Siro: il cuore puro è un cuore compassionevole, ardente. La purezza non è la mancanza di qualche cosa che è brutto, ma è la positività, l’ardore del cuore. Una preghiera che si avvicina, che tende alla perfezione è l’unico modo per la comprensione dell’icona.

L’icona non è estranea alla tradizione italiana. E’ difficile immaginare qualche cosa di più puro, di più bello, di più autentico nel campo del bizantinismo e dell’icona che Ravenna. Non dimentichiamo che fino a Giotto, il canone iconografico bizantino regnava indiscusso in tutta l’Italia, si può dire in tutta Europa.

La riscoperta dell’icona non può essere semplicemente una moda. L’icona è per la trasfigurazione della persona e del mondo. L’icona può dettare il fondamento per una cultura nuova, per una nuova Europa. Havel diceva che la cultura è il rapporto fra il particolare e l’assoluto, e per far comprendere ciò parla dell’effetto farfalla. Il battito d’ali di una farfalla per una certa legge fisica può provocare un uragano a mille chilometri di distanza. Havel commentava: "Le vere rivoluzioni provengono dal cuore dell’uomo, dalla vera cultura dell’uomo". Diceva anche: "La politica ha bisogno di questa cultura, la nuova politica per l’Europa non può essere elaborata al di fuori di questa cultura". Per questo, le vere rivoluzioni hanno bisogno di cuori puri, di cuori compassionevoli, di cuori ardenti. La contemplazione dell’icona può preparare la nuova Europa. Solov’ev annotava: "Dopo Cristo abbiamo compreso il significato della storia, l’unione di tutto l’umano con il divino, senza confusione e separazione". E’ questa unità che salva ed esalta l’umano, l’uomo, la società, la persona e le nazioni. La persona che si lascia illuminare dalla luce taborica che promana dall’icona, diventa essa stessa luce per il mondo. Il nuovo mondo frantumato dal razionalismo, dall’illuminismo, dal positivismo, può ritrovare unità ispirandosi al canone iconografico che canta la sinfonia dell’umano visitato dal divino. Il nostro mondo disperato e scettico può recuperare speranza dalla bellezza: Diceva Dostoevskij: "La bellezza salverà il mondo" e aggiungeva: "ma quale bellezza? La bellezza della Madonna o la bellezza di Sodoma, la bellezza dello splendore del vero o il fascino satanico dell’insignificanza?". La bellezza non esiste come evidenza allo stato puro, perché esige una cultura della responsabilità, vuole la libertà del cuore puro, che sa stupirsi di fronte alla verità che si rivela: così l’icona rifarà la nostra persona e attraverso di noi potrà rifare la società, l’Europa, l’umanità intera.

Olga Popova, docente di Storia dell’Arte Bizantina presso l’Università di Mosca

Popova: Il mio intervento è dedicato al tema della spiritualità orientale del XIV Secolo e alle immagini dell’arte che nascono all’interno di questa cultura. Parlerò in particolare dell’aspetto più mistico e ascetico, cioè della spiritualità monastica, che noi troviamo a Bisanzio e nella Russia del XIV secolo. Nel 1389, nella Lavra di S. Atanasio, venne composto un codice miniato dei sermoni ascetici di Isacco il Siro, scritto nella lingua slava ecclesiastica, di redazione bulgara. Il suo miniaturista era il bulgaro Gabriele. All’inizio del libro è posta un’unica miniatura che raffigura l’autore. L’immagine di questo santo monaco è unica nell’area di tutto il mondo bizantino e di tutte le epoche: non conosciamo altri suoi ritratti né sulle pareti delle chiese né nelle icone né nelle miniature. Isacco, siriaco di nascita, un monaco eremita, asceta e mistico, è un santo che visse nel VII secolo in un eremo deserto, e trascorse la fine della sua vita in monastero. Non conosciamo precisamente le date della sua vita: sappiamo che per un breve tempo, egli fu Vescovo di Ninive, tuttavia egli non potè tollerare la vita nel mondo, e, come racconta di lui la storia, sconcertato dalla ingiustizia delle azioni umane, dopo poco tornò nuovamente nell’eremo. Tratto quasi a forza dal deserto, dopo molti tentativi di persuaderlo, e innalzato alla cattedra vescovile, di lì a poco tornò nel deserto. Qui trascorse gran parte della sua vita, e qui egli scrisse tutte le sue opere sul distacco dal mondo, e sulla vita monastica, sulla impassibilità, sulla preghiera pura, sul silenzio, sulla spiritualità, sulla contemplazione, sulla visione di Dio, sui gradi dell’ascesi e su molti altri temi. Nei suoi sermoni, le regole più diffuse dell’ascesi monastica si uniscono alla sua esperienza mistica personale. Leggendoli, impressiona la nitidezza delle rivelazioni e la sua tendenza ad una osservazione esatta della psicologia umana. Dal suo modo di riflettere e di esporre, si capisce che era un uomo di inclinazione filosofica e con un senso psicologico molto fine. Nelle sue opere dominano le riflessioni sull’ascesi più severa, che del resto era normale in quell’epoca, nei deserti dell’Egitto e della Siria, indispensabile al monaco per camminare sulle vie della vita spirituale: lo scopo ultimo era l’amore a Dio che non si conquista semplicemente come un dono, ma bisogna acquisirlo attraverso l’ascesi spirituale. Di qui proviene l’atmosfera tesa di tutte le sue narrazioni, del suo odio spesso predicato verso il mondo, della sua completa solitudine, della necessità di scegliere un luogo pieno di durezze ed inabitabile da tutti. Il suo tono in genere è ammaestratorio, didattico, addirittura un tono di ammonizione che tanto si confà alla sua severa ascesi, e alla severa ascesi dei suoi scritti. Tuttavia, al tempo stesso, c’è una sottilissima analisi psicologica delle condizioni spirituali ed intellettuali che potrebbe entusiasmare anche grandi psicologi professionisti di oggi. La cosa più straordinaria è la descrizione della condizione mistica, della contemplazione, sia come tradizione monastica, sia come sua esperienza personale. La concretezza di queste descrizioni crea una particolare atmosfera di prossimità, quasi di accessibilità del miracolo, quello che i filosofi e i teologi russi, Florenskj e Lassky, chiamano il realismo mistico. Una capacità di modellare le parole distingue i sermoni di Isacco il Siro, e questo dà alle sue opere una eleganza, una espressività che sono molto lontane dal manierismo letterario di Costantinopoli. La sua acutezza non è simile alla uniformità del manierismo di questi ultimi, così come le immagini, nella pittura dell’Oriente cristiano, non sono simili alle opere del mediterraneo classico. Nell’ambito della letteratura ascetica e mistica del cristianesimo, le opere di Isacco il Siro ci appaiono come tra le più spirituali e penetranti.

Isacco non fu solo nella strada che si era prescelto nei deserti della Siria: accanto a lui vivevano altri monaci eremiti, oppure monaci cenobiti, santi monaci asceti e monaci veggenti. Probabilmente erano molti: il loro tipo di vita e le loro possibilità spirituali non erano sorprendenti a quell’epoca. Tuttavia, essi non erano scrittori e non potevano comunicare nulla della strada da loro intrapresa. Invece, il dono letterario e filosofico fu dato a Isacco il Siro. Egli lasciò una eredità letteraria abbastanza grande e fu in grado di dipingere in modo adeguato la propria esperienza, che è anche quella di tutti gli asceti come lui.

Nelle sue opere viene tratteggiato il tipo del monaco contemplatore, un tipo raro nella storia dell’umanità, ma non nei primi secoli cristiani. Nel cosiddetto periodo medio-bizantino, cioè il IX-XII secolo, vediamo molto raramente questo tipo. Questa figura di monaco risorse solo alla fine del X-inizio XI secolo con grandissima forza nell’immagine di S. Simeone, il nuovo teologo, anche se questa fu un’eccezione. Solo nel XIV secolo abbiamo un’autentica rinascita di questo tipo e il suo influsso in tutta la vita. E’ questa l’epoca della più forte diffusione dell’esicasmo: proprio all’inizio e alla fine della sua esistenza, Bisanzio ebbe nella sua vita spirituale un particolare dono di Dio, la nascita della più viva coscienza spirituale ortodossa, un tipo di coscienza non tanto didattica, quanto mistica. Nell’iconografia dell’arte bizantina, la figura di Isacco il Siro non entrò mai. Non voglio cercare di analizzare i motivi di questa mancanza, di questa assenza sia storica che culturale. Naturalmente, è possibile che ci fossero delle riproduzioni che non si sono conservate, o che quelle che esistono mi siano sconosciute. Il primo suo ritratto viene composto nel XIV secolo sull’Athos. La nascita di questa immagine pittorica di Isacco il Siro, proprio nelle cerchie monastiche del monte Athos, e proprio nella seconda metà del XIV secolo, non è certo casuale. Questa miniatura venne composta nel 1389; in tutti i monasteri dell’Athos, nel XIV secolo esisteva la pratica della cosiddetta preghiera mentale, cioè dell’esicasmo. Nel 1333, gli igumeni, i superiori, firmano un certo documento composto da Gregorio Palamas, che in quegli anni era un monaco dell’Athos, in cui sono elencate le più importanti regole della pratica e della preghiera esicasta. Questo ci permette di comprendere la grandissima diffusione sull’Athos dell’esicasmo, già nella prima metà del XIV secolo. Dopo la vittoria di Palamas al Concilio del 1351, e dopo la sua canonizzazione nel 1368 – egli era morto dieci anni prima – e nel corso di tutta la seconda metà del XIV secolo, assistiamo nella chiesa bizantina al pieno trionfo dell’esicasmo, e in particolare sull’Athos, poiché per vent’anni, qui era vissuto e aveva praticato l’esicasmo l’esechia Gregorio Palamas, il più importante esicasta di tutto il XIV secolo, ed una delle persone più popolari e più note nella società bizantina di quest’epoca. Non è difficile immaginarci quanto i monaci fossero orgogliosi di lui e lo venerassero. Nell’atmosfera della vita spirituale dell’Athos del XIV secolo, totalmente orientata verso la preghiera mentale e quindi verso la contemplazione, l’acquisizione delle energie divine e la possibilità di entrare in contatto con Dio, nasce l’interesse per la letteratura cristiana più antica, in cui sono presenti i medesimi temi. Non è casuale che proprio in questo periodo ci si rivolga ad Isacco il Siro.

Già all’inizio del XIV secolo, sull’Athos, viene tradotta dal greco nella lingua slava tutta l’opera di Isacco il Siro, ed in particolare i sermoni ascetici. Uno di questi manoscritti, di questi codici dell’Athos, è appunto quel codice di cui abbiamo parlato prima di sermoni ascetici di Isacco il Siro del 1389. L’autore di queste miniature dovette letteralmente inventarsi l’immagine di Isacco: probabilmente qualche altro artista che aveva lavorato prima di lui aveva elaborato un prototipo che poi servì da modello per l’autore della nostra miniatura. Tuttavia, il ritratto di Isacco nel codice del 1389 è un’opera artistica così significativa che non è possibile rinunciare al pensiero che sia proprio questa la prima immagine di questo santo monaco. Dal punto di vista iconografico è simile alle raffigurazioni dei profeti e dei santi che sono consuete negli affreschi delle Chiese bizantine. Una figura alta, a tutta statura, la barba lunga, un contorno molto essenziale, una sagoma tratteggiata, la mano destra benedicente, mentre nella sinistra ha un rotolo con il testo. Tuttavia, generalmente, i santi vengono raffigurati con le braccia levate, con le palme aperte, come in atteggiamento di accogliere la grazia di Dio; invece Isacco il Siro è raffigurato piuttosto come un profeta. La sua origine orientale è sottolineata dal copricapo, una fasciatura bianca con delle strisce nere avvolta sulla testa come un turbante, simile al copricapo che noi vediamo a S. Giovanni Damasceno. La tipologia dell’immagine e i tratti fisionomici sono penetranti, ed è difficile dimenticarli. La figura è asciutta, elevata, con le spalle strette, una testa di modeste proporzioni: i piedi sono piccolissimi, una figura senza volume, una figura che sembra incorporea, che ha perso il peso materiale o, come amava dire lo stesso Isacco il Siro, aveva perso ogni materialità, ogni corpulenza. Questa figura può levitare, può distaccarsi dalla terra: del resto, la pratica dell’esicasmo comprendeva anche questa possibilità dell’ascesi. Tutti i colori sono molto semplici, non cercano un effetto, sono ben armonizzati e fusi, sembrano quasi suonare un’unica melodia orientale, una nenia giocata su pochissime note. Soltanto la cornice rossa, svolge il ruolo di far vedere il ritratto con il suo colorito smorzato e una intonazione pacata generale. Il volto è sottile, esile, ed è continuato dalla lunga barba. Gli occhi sono anch’essi stretti, piccoli, con uno sguardo acuto e penetrante. Sembrano profondamente infossati dietro le sopracciglia aggrottate, come se fossero collocati dentro una piccola grotta. Anche lo sguardo e la fronte appena corrucciata, le sopracciglia sollevate rendono questo effetto di tensione; il naso è sottile, appena accennato. Se noi paragoniamo questa immagine a quello che veniva disegnato nei tempi precedenti, nell’ambiente delle cerchie pittoriche bizantine, il naso sembra poco rilevato e la bocca piccolissima: i tratti del volto non hanno quell’elemento scultoreo che tanto avevano amato sottolineare i bizantini. Al contrario, sembrano quasi passare inosservati, sono assolutamente modesti, quasi insignificanti. La bellezza fisica così tradizionale nelle immagini bizantine, qui non ha più alcuna attrattiva. Ogni elemento, corporeo, è ridotto al minimo. Tuttavia in tutti i tratti del volto è sottolineata l’intensità, l’acutezza. I capelli, i baffi e la barba che incorniciano il volto non sono dipinti a massa, ma in un modo molto sottile e trasparente: i capelli venati di bianco, anche se non completamente canuti, ornati di una luce dorato-bruno con alcuni filini bianchi leggerissimi, si fondono in unità con il colore monotono bruno del volto, in modo tale da rafforzare la tonalità smorzata di tutta la gamma coloristica. I contorni della testa sono tracciati in bianco, come se si trattasse di un filo luminoso.

In questa sagoma bianco-dorata è compreso anche il copricapo, così che la barba e il volto sono come illuminati da un’aura luminosa, appena percettibile. La pittura è impercettibile, ma molto raffinata: richiede una base di incarnato verdastro, poi ocre di diverse sfumature, dalle più chiare a quelle molto scure. Il volto è dipinto in maniera complessa e con una grandissima maestria; ma l’impressione che se ne ricava ad una prima occhiata è quella di una monotonia, di una uniformità del colore, di una povertà delle tonalità, perché domina una intonazione severa e ascetica.

Un’altra caratteristica di questo ritratto è la nobiltà del volto, la sua complessità, la sua finezza, e l’intelletto, l’intelligenza vivissima che essa indica. Tutte queste peculiarità sono ciò che noi conosciamo di Isacco il Siro, anzi, per essere più precisi, ciò che noi sappiamo di quei tratti individuali che non si possono non notare nelle sue opere. Sembra che l’artista, autore di questa miniatura, abbia dipinto il ritratto di Isacco, proprio e a partire dalla tradizione vivente su di lui, e naturalmente a partire dalle sue opere, e le comprendeva in modo analogo a quello con cui le comprendiamo anche oggi.

Tuttavia, c’è una differenza: ci colpisce l’austerità, la severità dell’immagine, ma dov’è quella luce, quella gioia grandissima a pochi accessibili, la beatitudine inesprimibile a parole che aveva visto, provato e descritto Isacco il Siro? Questa sfumatura manca evidentemente nel suo ritratto. Come mai? E’ impossibile non notare nei testi di Isacco questa gioia che in fondo è lo scopo ultimo di tutte le sue riflessioni, e l’autore del ritratto non poteva non desiderare rifletterla, perché senza questo riflesso di gioia, il ritratto non sarebbe più completo, non sarebbe più adeguato. Forse era impossibile? eppure l’artista era un uomo di grande maestria; quindi questa permanenza in un’altra realtà più alta della nostra è forse impossibile da rendere. Qualcuno è mai riuscito a rendere questo stato? Ci sono stati dei casi in cui gli artisti sono riusciti a ricevere una illuminazione capace di riflettere questa esperienza spirituale? Che cos’è questa realtà mistica? E’ forse poco incarnabile, poco realizzabile da un artista? Fino a che punto? Davanti a che cosa l’artista è costretto a fermarsi?

Per cercare di rispondere a queste domande occorre rifarsi allo stesso Isacco il Siro: per quanto brevemente, vorrei esporre alcuni suoi pensieri. Isacco dice che, nel processo spirituale, si possono distinguere tre fasi: la penitenza, la purificazione e la perfezione. La tensione di Isacco è posta principalmente sull’ascesi, cioè su uno sforzo continuo: anche il silenzio a cui Isacco richiamava è anch’esso un tipo di ascesi. Sembra che l’artista dell’Athos abbia voluto immortalare proprio questo creando il ritratto di Isacco il Siro. Tutto nella sua immagine corrisponde pienamente alle parole di S. Isacco il Siro sulla prima e sulla seconda fase della vita spirituale. L’impassibilità, l’abbandonare ogni sensazione, viene reso con il linguaggio artistico dalla povertà, dall’austerità, dalla poca percettibilità dei mezzi artistici. Nel ritratto miniatura di S. Isacco, noi riconosciamo l’eremita del deserto, e il mistico: non troviamo quello che è collegato al terzo grado del processo spirituale e che è così vivamente descritto nelle opere di S. Isacco, nelle sue visioni. Si possono certo percepire alcune tracce dell’azione dello Spirito Santo, il silenzio della mente, il silenzio della contemplazione: però non esiste il silenzio totale ultimo, e la presenza dell’ineffabile, di cui parla S. Isacco. Non si vede cioè la beatitudine, lo stupore, la visione nella luce, nella gloria piena di gioia; quando si vede il mirabile eone del futuro, non si vede l’entusiasmo, la tenerezza, l’amore, il dono delle lacrime: non si vede insomma la piena trasfigurazione dell’anima. E’ come se in questa immagine ci fosse più il concetto dell’ascesi e della libertà che non del dono e della grazia che Dio fa all’uomo. Il dono di Dio e la grazia, che sono in grado di trasfigurare totalmente ogni anima e ogni creatura, possono essere incarnati in un’immagine artistica? Oppure per questo scopo è necessario che la pittura diventi un miracolo e che lo Spirito Santo partecipi al processo pittorico? Non possiamo rispondere a questa domanda: tuttavia, voglio dire che la storia dell’arte – naturalmente parlo solo del Medioevo, sia in Occidente che in Oriente – conosce opere di questo tipo, per quanto esse siano estremamente rare.

L’immagine di Davide di Tessalonica, un esicasta che proviene da Karye Dijami, è la più simile anche proprio in senso letterale e fisionomico alla miniatura di Isacco il Siro del 1389: questa immagine è consona al grande slancio spirituale contemporaneo dell’esicasmo che investiva in quegli anni la vita spirituale di Costantinopoli, già agli inizi del XIV secolo. Indubbiamente era un esicasta anche il patriarca Atanasio, che per due volte salì sulla cattedra di Costantinopoli, in un primo periodo e poi fino al 1330. Tendenze esicaste in questo periodo erano vissute da molti esponenti anche dell’alta società, ad esempio, il padre di Gregorio Palamas, un grande funzionario di Androneco II, o lo stesso Androneco II, uno dei più vicini al Patriarca Atanasio. Gregorio Palamas nel 1316, dopo aver compiuto la sua istruzione a Costantinopoli, all’età di 22 anni, si recò sull’Athos, non tanto per insegnare lì l’esicasmo, ma soprattutto per vivere la pratica dell’esicasmo che già era nota sull’Athos.

Quest’epoca viene generalmente collegata dagli studiosi di bizantinismo con il rinascimento paleologo e il classicismo bizantino, mentre in realtà fu l’epoca di una rinascita forte ed intensa dell’esicasmo, una nuova rinascita, se pensiamo alla prima forma di esicasmo dell’antichità. Questa rinascita dell’esicasmo continua a Bisanzio, a differenza del classicismo, in tutto il periodo di vita che Bisanzio avrà, fino alla sua caduta, e si prolunga per tutto il XIV secolo. Non c’è da stupirsi che alcuni artisti dell’inizio del XIV secolo, dell’epoca cosiddetta della rinascita paleologa, abbiano risposto a questo nuovo slancio spirituale. Proprio essi furono gli autori di nuove immagini, adeguate alle ricerche spirituali contemporanee di nuove vie della vita spirituale, e di conseguenza, crearono un’arte che corrispondeva alla nuova sensibilità culturale e spirituale dell’epoca, ormai orientata sulla via interiore, all’esperienza spirituale, a tutte quelle acquisizioni e scoperte interiori e spirituali possibili attraverso il Cristianesimo.

Queste immagini che sono collocate e disperse in tutti i complessi più classici del XIV secolo, sono numerose; e le più profonde, le più piene, quelle che più chiaramente e fortemente incarnano il silenzio e la contemplazione sono queste dello stilita Davide di Tessalonica, che proviene da Karye Djami. Per contenuto, per pienezza spirituale e per penetrante spiritualità, è simile all’immagine degli asceti e dei primi padri del deserto, tra cui Isacco il Siro. Si tratta di immagini che non sono incarnate nell’arte soltanto, ma innanzitutto nei sermoni, nelle parole di queste persone concrete. Per il suo distacco dal mondo, per l’individualità particolare dell’immagine, la raffigurazione di S. Davide il Tessalonico suscita associazioni interiori con l’immagine di S. Gregorio il Sinaita, che sembra essere il più severo e spirituale maestro di tutto il XIV secolo, e la cui mistica, secondo le parole di Padre Joan Meyndorf, costituiscono la manifestazione più caratteristica e personale dell’esicasmo post-bizantino e una grandissima riuscita artistica di uno dei maestri che avevano lavorato nel monastero di Kora. Questo tipo di immagine visse nell’arte di tutto il XIV secolo, anche se vi fu incarnato, realizzato, certamente non sovente.

Un altro esempio è la miniatura con la raffigurazione di Giovanni il teologo, nell’Apocalisse, del codice del Nuovo Testamento e Salterio greco che proviene dalla biblioteca sinodale a Mosca. Il codice fu composto intorno al 1330, probabilmente a Tessalonica. L’immagine di Giovanni il Teologo è molto simile a quella di Davide di Tessalonica: è un volto vecchio e secco, con l’alta fronte piena di sapienza, coperta di rughe. Gli occhi sono stretti, come delle fessure, come se si fossero nascosti sotto le fitte sopracciglia, lo sguardo acuto, penetrante, il volto esangue di un color sabbia. Qui non abbiamo la minima sfumatura di bellezza fisica o di particolare espressività fisica. Al contrario, è un volto che non spicca, è come se qui l’artista avesse voluto nascondere ogni traccia di individualismo nel ritratto, il silenzio, l’occhio intento nel mondo invisibile e nel mondo delle voci che non si vedono e si sentono agli orecchi del mondo. E’ il contemplatore, l’eremita, il padre del deserto che ormai ha superato il mondo e tutte le sue emozioni, che ha abbandonato la vanità mondana e la sua bellezza affascinante, esteriore. Questa è una immagine artistica talmente rara per riuscita, è l’immagine di un veggente, di un mistico, di un esicasta che possiamo paragonare, mettere sullo stesso livello di Davide di Tessalonica a Karye Djami. L’immagine artistica di un asceta, che sto cercando di descrivere, nell’arte bizantina è estremamente rara anche nella seconda metà del XIV secolo.

Troviamo lo stesso tipo nelle immagini dei santi monaci Eutemio, Pacomio e Antonio, negli affreschi del monastero del Pantocratore, sull’Athos, intorno al 1360. Non bisogna pensare che le immagini dei padri del deserto abbiano sempre avuto questo tipo di ritratto ascetico. Tutto dipendeva dall’atmosfera del tempo, e spesso anche dall’ambiente in cui veniva composta l’immagine, basta pensare ai bellissimi volti dei nobili monaci negli affreschi della chiesa di Milesevo del 1228, con dei grandi volti con capelli setosi, lunghe barbe fluenti, con una colorazione estremamente delicata, rosa e rosso. Queste immagini emanano fierezza, energia, coraggio, forza, che sono pienamente naturali nell’atmosfera della cultura balcanica del XIII secolo, anche se sono lontanissime dall’ascesi mistica e piena di ispirazione dei primi secoli cristiani, che poi ritornano, come abbiamo visto, nel XIV secolo. Per questo, pensiamo che le immagini ascetiche dei monaci del Pantocratore sull’Athos, non sono tanto basate su degli elementi tradizionali, quanto piuttosto su delle esigenze spirituali della stessa epoca esicasta, negli anni intorno al 1360, che sono il culmine della percezione della coscienza e del trionfo di Gregorio Palamas, e insieme del trionfo della Chiesa, della coscienza ortodossa, dell’antico e del rinato esicasmo.

L’esempio successivo nel tempo sono le opere di Teofane il Greco, gli affreschi della chiesa della trasfigurazione a Novgorod, del 1378, in cui vediamo lo stesso tipo ascetico, profondo, distaccato dal mondo, la stessa ascesi austera, la stessa contemplazione veggente, lo stesso misticismo della spiritualità bizantina. Non staremo qui adesso a vedere i tratti nuovi originali che noi troviamo qui in Teofane rispetto alla tradizione bizantina, quei tratti nuovi particolari, che fanno di Teofane il Greco un grandissimo artista, un grande maestro. Vorrei sottolineare soltanto tre elementi che sono i più importanti: la gamma bruno scura che abbandona ogni elemento variopinto del mondo, che ci ricorda piuttosto le sabbie e le rupi dei deserti della Siria e dell’Egitto. Il secondo elemento è dato dalle energie divine, dalla carne deificata, spiritualizzata dalla luce che illumina la creatura con lampi di luce quasi immediati, come un dono di Dio. Il terzo elemento è la luce bianca che noi vediamo circondare gli occhi, che fa pensare alle visioni mistiche. Le immagini di Teofane il Greco sono contraddistinte da una concentrazione e da un misticismo che raggiungono il parossismo. Sembrerebbe che questo sia un misticismo totalmente chiuso in se stesso, una completa solitudine per stare da soli al cospetto di Dio. Siamo fuori dal cenobio, siamo all’interno di un lontanissimo e remoto eremo nel deserto. Naturalmente sono gli stessi insegnamenti di Gregorio il Sinaita, cioè la visione mistica nella solitudine fuori del mondo, addirittura lontano dalle chiese e lontano dalla liturgia. Si tratta di una esperienza mistica assolutamente lontana, della contemplazione più estrema, individuale, solitaria che noi troviamo nell’ascesi e nella mistica del XIV secolo. Nelle opere degli scrittori spirituali della seconda metà del secolo, noi non conosciamo degli esempi di questa levatura. Li conosciamo soltanto attraverso il volto e le tipologie di Teofane il Greco. Naturalmente questo non vuol dire che questa esperienza spirituale esistesse nella realtà. Certo, esisteva, ma nella storia è rimasto inespresso. Alcuni tentarono di imitare Teofane il Greco, ma in modo molto debole.

L’unico luogo nella Russia dove veniva dato grande valore proprio all’immagine di questo tipo ascetico, è Pskov. Si tratta di un fenomeno legato naturalmente a peculiarità stilistiche della scuola locale, e neppure ad un gusto artistico o ad una tradizione artistica, ma ad alcuni motivi di ordine spirituale che sono propri di Pskov. Questo fenomeno è avvenuto per qualche tratto specifico dei monasteri di Pskov, oppure di un monastero, in cui esisteva una vita spirituale particolarmente intensa. Purtroppo nelle cronache dei documenti russi non abbiamo prove di questo genere. Proprio qui, probabilmente, si professava una solitudine, una vita eremitica e forse anche una conoscenza, una visione mistica. Proprio a Pskov all’inizio del XIV secolo, intorno al 1313, nel monastero di Snetogory furono creati degli affreschi che ci stupiscono per la loro austerità, per la loro ascesi, per la loro tensione spirituale, e per il loro fervore quasi mistico di estasi interiore.

Nell’ambito dell’arte del XIV secolo, di tutto il mondo bizantino ortodosso, le figure di Snetogory sono uno dei punti più estremi della possibilità cui un uomo può arrivare attraverso la vita spirituale. La loro espressività non è un elemento artistico, non è un certo risvolto stilistico, ma è come un nuovo confine inaspettato della vita spirituale. E’ l’espressione di uno spirito, raggiunto a prezzo di grandi ascesi monastiche, sulle vie dell’ascesi che ci tende alle rivelazioni più eccelse. E tutto questo, sugli affreschi di Snetogory si esprime in un linguaggio artistico che può sembrarci talvolta un po’ semplice, ma questo non importa. L’intero, la figura ci colpisce per la grandezza del fenomeno e ci testimonia un programma spirituale particolare, ci testimonia altezze spirituali che dovevano essere sicuramente state raggiunte dagli abitanti di questo monastero.

Questo è il periodo in cui visse e operò Gregorio il Sinaita; nel mondo artistico, è il periodo dei mosaici e degli affreschi di Fetye Djami e di Karye Djami. Per intensità espressiva artistica e spirituale, gli affreschi di Snetogory non sono per nulla da meno di quelli che abbiamo visto prima nei due complessi di Costantinopoli e in particolare nel volto di S. Davide di Tessalonica, anzi, sono superiori. Alcune icone pskoviane della fine del XIV secolo e dell’inizio del XV secolo sono connotate da una espressività estremante rara nell’arte bizantina e russa. Possiamo dire che sono immagini rare anche nella stessa arte bizantina, in particolare, l’icona di Santa Parasceve, Giuliano e Anastasia, e la Sinassi della Madre di Dio. Per alcuni elementi esteriori, il loro stile è simile a quello di Teofane il Greco, cosa che ha fatto nascere l’idea di una imitazione degli artisti pskoviani rispetto al grande bizantino. Ma non credo che sia così: la comunanza deriva dal fatto che sono contemporanei. Gli artisti pskoviani della fine del XIV secolo, seguivano piuttosto un credo spirituale ed artistico che si era formato ancora all’inizio del secolo nel monastero di Snetogory. A questo stesso credo rimasero fedeli i maestri pskoviani del XV secolo che lavorarono nella chiesa di Melioto. Purtroppo non sappiamo nulla di questa tradizione straordinaria, spirituale che ebbe una così grande durata. Non si tratta di tecniche stilistiche, sebbene anche le tecniche stilistiche siano veramente straordinarie; si tratta piuttosto dell’intensità con cui queste opere seguono un ideale spirituale, un orientamento, e si tratta di una ascesi, di una spiritualità estrema, che noi troviamo molto raramente anche nella stessa ascesi, nella stessa mistica. A Pskov dovevano esserci sicuramente un ambiente monastico, una cultura, una spiritualità che in qualche modo generarono quest’arte. Purtroppo non abbiamo nessun documento che ci parli di questo.

Quello che noi abbiamo voluto descrivere in questa lezione, la spiritualità monastica, ascetica del XIV secolo, è qualcosa di raro. Ho elencato soltanto i tratti che sono i più pieni e i più tipici di questa immagine ascetica. Naturalmente, troviamo alcuni tratti singoli di questa arte nell’arte bizantina e in tutta l’arte della cultura orientale del XIV secolo, e sono proprio quelli che molto spesso arricchiscono di significato tutte le altre immagini e gli altri stili di tutto questo periodo. La rarità di questo tipo ascetico, si spiega con la rarità e con la difficoltà di questo cammino spirituale, ma l’importanza di questo cammino nella storia delle ricerche spirituali dell’umanità, è evidente. Ed è proprio il fascino di questo cammino che mi ha spinto a proporvi questo tema.