Omaggio a Padre Aleksandr Men’

Martedì 27, ore 15

Relatori:

Adriano Dell’Asta

Olga Oboukhova

Romano Scalfi

 

Adriano Dell’Asta, del Centro Studi Russia Cristiana.

Dell’Asta: Cercherò di richiamarvi una parola, la parola "sorpresa". La figura di padre Men’ in effetti sorprende, come tutto ciò che è segnato dalla libertà e non dalla concatenazione delle presunte leggi della storia, perché in realtà esse non esistono: la storia non è il regno del meccanicismo, almeno così ha dimostrato la vita di padre Men’, ma è il luogo in cui le cose, con la loro materialità dura, incontrano la libertà dell’uomo, che a sua immagine rende irripetibile, unico, nuovo, sorprendente tutto ciò con cui ha seriamente a che fare.

Riflettiamo un istante a questa stessa commemorazione; in essa è evidente come la storia ci sorprenda. Quando si pensò di commemorare padre Men’ non si poteva nemmeno lontanamente immaginare che si finisse per farlo in queste condizioni. Alludo a qualcosa di più importante del crollo del comunismo in Russia, a condizioni in cui è evidente che tutto ciò che ha portato alla gioia di queste ore in Unione Sovietica, a Mosca, nelle varie città dell’Unione Sovietica, tutto ciò che ha portato alla gioia di questi giorni ha un nome più antico di quello dei protagonisti di cui si parla sui nostri giornali, più antico di Gorbaciov più antico di Eltsin, più antico delle stesse folle dei resistenti che abbiamo visto in piazza, e della stessa perestroika. Ciò che ha portato alla gioia di questi giorni è piuttosto quella sorprendente resistenza spirituale che in padre Men’ aveva avuto uno dei suoi attori, uno dei suoi testimoni e persino uno dei suoi stessi frutti.

La resistenza spirituale non è stata il prodotto della perestroika, ma è ciò che ha creato prima l’esigenza di essa e poi gli spazi perché la stessa potesse nascere, quell’energia spirituale che oggi è ciò che si deve recuperare se non si vuole che la perestroika si riduca in un banale gioco politico, già mille volte giocato.

In effetti se davvero crediamo che nella storia c’entra la libertà, essa ha tutta la capacità di sorprendere che caratterizza la libertà. Ciò che ci sorprende è che dopo 70 anni di comunismo sia spuntata la perestroika e personaggi come padre Men’ e prima ancora tutti gli sconosciuti testimoni della libertà che lo hanno educato. È questo ciò che sorprende, questa energia spirituale che crea novità e rende possibile una speranza là dove sembrava che non ci potesse più essere nulla da sperare. È sorprendente constatare quanti sono passati per la casa di questo prete confinato alla periferia, quanto grandi fossero i loro nomi e quanto radicali fossero i cambiamenti che questo incontro ha prodotto. Uno dei primi a prendere la parola con Eltsin sulla piazza del maneggio a Mosca quando ancora il colpo di stato sembrava dovesse vincere, è stato un sacerdote (per qualche istante si è visto nelle trasmissioni della CNN), padre Gleb Jakunin, amico di padre Aleksandr dai tempi della scuola, agli inizi degli anni 50. Ventenni avevano studiato biologia insieme, ad Irkutsk, così lontana da Mosca: casi del destino potremmo dire o volontà della Provvidenza. Da Solgenitzin ad Andrej Tarkovskij, altro grande amico del Meeting, non v’è personaggio rilevante della cultura cristiana della Russia contemporanea che non sia segnato dall’incontro con padre Men’. Tra questi anche Aleksandr GalicÚ, grande cantautore, morto a Parigi nel 1977, il quale non solo era stato un grande amico di padre Aleksandr, ma era stato da lui battezzato. In una sua canzone l’allusione alla Chiesa di padre Men’ risulta evidente: "Quando tornerò andrò in quell’unica casa con le cupole più azzurre del cielo (o, più letteralmente: dove con la cupola azzurra non può rivaleggiare il cielo), e l’odore di incenso come l’odore del pane degli orfani mi investirà rallegrandomi il cuore. Quando tornerò, ma quando tornerò?". La cupola azzurra con la quale non può rivaleggiare il cielo è la chiesa di padre Men’ dove Aleksandr GalicÚ fu battezzato.

Ecco la seconda parola che vorrei sottolineare, la parola "casa".

Padre Aleksandr con la sua paternità spirituale offriva una casa in cui vivere. La Chiesa era per lui un’unica famiglia in cui nessuno può sentirsi solo; l’ideale della Chiesa è quella di una comunità di persone unite nello Spirito che possono dire sinceramente: "Cristo è in mezzo a noi".

Se volete unire le due parole con le quali abbiamo iniziato, l’idea è quella di una novità (la sorpresa) che si fa esperienza (la casa in cui vivere questa verità), esperienza vivibile grazie ad una compagnia che viene guidata da un padre, perché non sorge casa se non accanto alla compagnia offerta da un padre che guida.

Di questa paternità, che tutti quelli che conoscevano padre Men’ avvertivano, vi parlerà Olga Oboukhova.

Olga Oboukhova insegna lingua russa all’Università di Pisa.

Oboukhova: Io vi racconterò come è cominciato e come è continuato il nostro rapporto, non solo il mio ma di tanti giovani, che hanno conosciuto padre Aleksandr, all’inizio della loro vita da adulti, in un paese completamente ateo, cresciuti in una famiglia atea, che non si interessava non dico dei problemi, ma neanche delle idee o di altre cose che riguardassero la Chiesa o i problemi spirituali.

Io ho conosciuto padre Aleksandr quando avevo 17 anni e lui 32; la prima volta sono venuta proprio a casa sua lì dove sta ancora la sua famiglia, vicino alla città di Zagorsk, fuori Mosca, in campagna, in mezzo ad un paesaggio bellissimo, ed ho visto quest’uomo molto bello, molto allegro e capace di entrare subito nel problema dell’altro, ma con allegria, con interesse autentico, spontaneo, che riusciva a comunicare a livello di ogni persona che incontrava suscitando interesse e attrattiva nella persona che veniva da lui.

Io ero una studentessa, al primo anno, senz’altro ignorante, con tanti problemi sia della vita che di varie scienze; mi stupì la facilità con la quale riuscì a entrare in tutti i miei interessi, ad offrirmi libri da leggere che mi interessavano e che mi potessero guidare in qualche modo, verso la Chiesa sì, ma senza uno sforzo, senza una violenza perché sulle prime non abbiamo mica parlato dei problemi spirituali, della Chiesa, ma della letteratura, dell’arte, del più e del meno, però in qualche modo era già la mia guida.

Poi cominciai ad andare da lui in campagna ogni volta che potevo e stavamo lì a prendere il tè, a parlare, a leggere e a parlare di libri. Dopo due mesi all’improvviso gli dissi: "Voglio farmi battezzare". Si è rallegrato tantissimo, proprio rallegrato, ha riso e ha detto: "Ecco, che bello, è proprio da questo che bisogna cominciare. C’è un professore che viene da me da tanti anni e non si decide mai a farsi battezzare, invece bisogna cominciare da questo".

Vi voglio trasmettere ricordi perché adesso si affermerà la tendenza a farci un’icona, come succede con ogni grande uomo, soprattutto con un uomo di tale statura di santità, e morto martire. Però nella vita era un uomo straordinario in tutto: nel senso dell’umorismo, nella capacità di comunicare, nel modo allegro di passare il tempo insieme ecco, era straordinario anche in questo. Mi ha battezzato e ha continuato per tutti questi anni ad essere la mia guida. Il suo insegnamento religioso, individuale, era basato soprattutto sul profondo concetto della libertà della persona, cioè la persona deve poter arrivare al punto di esprimere in pieno le proprie capacità, in piena libertà, e realizzarsi in pieno, ma così come è, persona unica.

Per questo ad alcuni dava alcuni libri, a certi altri libri. Dopo i primi anni che ci si conosceva, io gli ho chiesto: "Padre, mi sento male perché lei non mi da più nessun libro; come è possibile? Non si preoccupa più delle mie letture?". Lui mi ha detto: "Ormai hai letto tutto quello che potevi, adesso puoi camminare anche da sola, nel senso che puoi anche scegliere da sola il modo in cui esprimerti, come realizzarti".

In quei tempi, era il ‘67, ‘68, ‘69, finiva già il cosiddetto "disgelo" e cominciava quella che noi adesso chiamiamo "stagnazione", cioè il regime diventava sempre più duro verso i credenti e verso la Chiesa. Padre Aleksandr ha subìto anche lui tante persecuzioni, aveva tanti amici dissidenti ma non firmava per esempio le lettere aperte, non faceva mai le denunce, perché, diceva, "ritengo che in Chiesa noi facciamo un lavoro molto più importante, molto più profondo. Siamo come le talpe che scavano in profondità, che scavano sotto la terra e poi, quando sotto la terra è già scavato, l’edificio si distrugge, cioè noi educhiamo le anime e poi le anime libere e coscienti di se stesse decideranno quello che devono fare". Identico era il suo atteggiamento verso le autorità della Chiesa russa ortodossa; non ha mai gettato discordia perché era profondamente ortodosso nel senso della obbedienza alla ortodossia. C’era una ubbidienza verso la gerarchia, voleva migliorare questa chiesa terrena, però non è mai intervenuto, neanche privatamente, contro le autorità oppure contro il comportamento della chiesa ufficiale: scavava più in profondità.

Quando sono arrivata io, nella sua chiesa c’erano già tanti fedeli battezzati da lui da adulti, e lui già tanti anni fa mi aveva detto: "Sai, quando ho cominciato si potevano contare uno per uno tutti i miei figli spirituali che ho battezzato da adulti".

Prima la nostra comunità era abbastanza unita, nel senso che quasi tutti conoscevano tutti gli altri, ci si incontrava spesso, si poteva parlare tra di noi, conoscersi, ma poi sia perché le autorità hanno cominciato a rendere più difficile incontrarsi sia perché questi figli sono diventati troppi e tanti, il modo di riunire la comunità è cambiato, proprio per volontà di padre Aleksandr. Lui ha organizzato dei gruppi di studio di preparazione al battesimo, della storia della Chiesa, delle Sacre Scritture, dove i nuovi venuti potevano apprendere tramite terzi, perché a lui letteralmente non bastava il tempo per occuparsi di tutte queste persone, divenute migliaia.

Quando è cominciata la perestrojka, ha avuto più possibilità di intervenire in pubblico. Lui veramente sfruttava ogni più piccola occasione per venire a parlare con la gente, con tutti, e non so come riuscisse a far entrare tutti questi impegni in una giornata di 24 ore, perché scriveva e svolgeva il suo lavoro di sacerdote con tutti gli impegni che comporta, poi non dimenticate che la liturgia ortodossa dura da tre o quattro ore e anche questo è un impegno grosso e faticoso. Nonostante questo riusciva a intervenire in tanti posti diversi anche in televisione, alla radio, negli stadi, perché aveva lo spirito di un vero missionario: anche se fosse capitato in un’isola deserta, con soli due indigeni di numero, avrebbe svolto il suo lavoro di missionario, di evangelizzazione.

Possiamo anche dire "miracolo" il fatto che in questo paese sia nato un uomo così, con lo spirito di un vero missionario, questo grande carisma che veramente riesce ad attirare a lui tante persone, perché senz’altro ci sono sempre stati, e la tradizione ortodossa in questo senso non si è mai interrotta, dei sacerdoti che continuavano la loro missione nel vero spirito della Chiesa, però da padre Aleksandr veniva quella gente più difficile da convertire: gli intellettuali o gente già preparata e in un certo senso corrotta da certe conoscenze e da un certo cinismo al quale lo ha educato il potere. Questa gente veniva da padre Aleksandr perché lui con ciascuno poteva parlare la sua lingua, con un fisico poteva parlare di fisica, con uno psicologo di psicologia, con un critico d’arte poteva parlare di arte e sapeva sempre meglio degli altri tutto. Era anche questo che attirava a lui: poteva risolvere problemi a livello più alto anche della scienza, sempre con spirito religioso, e per la gente cresciuta in questo paese, incapace di trovare alcun valore in nessun campo, né i valori etici, né i valori intellettuali, lui era veramente una risposta a tutte le domande, e tutto questo era poi dato agli altri con allegria, quasi per gioco, e con grande affetto. Non appesantiva questa sua guida spirituale, anzi sollevava, dava lo stimolo per continuare e per andare avanti, mentre nello stesso tempo, come sacerdote, come guida spirituale, quando uno entrava nella Chiesa, lo educava alla libertà, ad una libera responsabilità, nello spirito della Scrittura e della Chiesa. Senz’altro è stato anche, come penso dovrebbe essere, e lo è ogni sacerdote, severo, perché guidava nella direzione giusta con una mano ferma. E se poi non si andava nella direzione giusta, lui comunque riusciva ad approfondire sempre di più il desiderio di conoscenza e di crescita spirituale di ciascuno.

Si sentiva di casa in tanti ambienti, negli ambienti degli intellettuali come nell’ambiente delle vecchiette che venivano in chiesa ogni giorno, la metà delle quali erano quasi analfabete. Tutti lo amavano e quando abbiamo saputo della sua tragica scomparsa e poi abbiamo letto sui giornali italiani che ai funerali erano presenti ex combattenti all’Afghanistan, ci siamo meravigliati, perché non sapevamo che lui li conoscesse, eravamo rimasti un po’ stupiti, tanto che pensavamo fosse una provocazione del potere. In seguito sono stata a Mosca ed ho chiesto ai familiari ed agli amici cosa fosse questa storia dei reduci dell’Afghanistan, e mi hanno raccontato che padre Aleksandr una volta ha dovuto fare un rito funebre per un ex combattente dell’Afghanistan, e l’atteggiamento e le cose che ha detto hanno colpito questi ragazzi che gli si sono molto affezionati: venivano in chiesa, gli chiedevano dei consigli, chiedevano un sollievo, un aiuto spirituale. Questi giovani ragazzi sono molto provati; molti sono rimasti invalidi in modo orrendo e lui li aiutava in vari modi. Ho saputo che dopo la sua morte questi ragazzi sono venuti dalla vedova di padre Aleksandr e le hanno detto: "Signora, se vuole le facciamo le guardie del corpo, la aiutiamo in tutti i lavori in casa ed in tutto; vogliamo aiutarla e starle vicino". Mi sembra una cosa molto significativa questa, che padre Aleksandr fosse un uomo per tutti i tempi e per tutte le persone che volevano o potevano venire da lui; aiutava tutti con grande spirito di allegria e gioia.

Una volta, quando ero molto angosciata e triste, lui mi ha detto: "Sai, io capisco che tu adesso soffri, stai male, però se tu potessi vedere gli angeli staresti molto bene". Allora ho capito che veramente lui li ha visti.

Dell’Asta: La terza parola sulla quale vorrei fermare la vostra attenzione è la parola continuità. Padre Aleksandr non è spuntato dal nulla; lui stesso amava ripetere: "Non ho inventato nulla, ho cercato di vivere e di insegnare quello che a mia volta ho visto e amato fin da piccolo". Se noi avessimo il tempo di ripercorrere la sua biografia, essa ci riporterebbe direttamente alla grande cultura cristiana dell’inizio secolo, a Berdjaev, Bulgakov, Solov’ev ed alle Fraternità, alle comunità sorte da quei pensatori. Voglio leggervi un passo di una introduzione che lui aveva voluto scrivere per un saggio pubblicato in Italia sulle fraternità russe dell’inizio secolo: "Ho sperimentato personalmente il benefico influsso di quelle comunità. Nella oscura epoca staliniana, in cui nelle poche chiese aperte a Mosca risuonava raramente una parola di predicazione, noi giovani ricevevamo nelle comunità l’indispensabile nutrimento spirituale, che ci avrebbe dato forza per molti anni. Tali gruppi custodivano l’eredità della coscienza e della tradizione ecclesiale, particolarmente importante in un’epoca di distruzione di tutte le tradizioni".

Cosa fosse questo essenziale, questa eredità, traspare dalle righe tratte da un articolo che padre Men’ scrisse su Vladimir Solov’ev: "Egli si rendeva conto che il Vangelo non è una dottrina astratta, una morta reliquia, deve diventare una forza universale, capace di trasfigurare, una forza che indichi la strada all’umanità. Dimostrava in modo convincente che la fede autentica non è un resto del passato, che essa ha una importanza illimitata per la coscienza e la civiltà contemporanee, il predicatore non si ritirava nella tranquillità dell’uomo che aveva conquistato la fede –, e qui sembra davvero che parli di sé – contava liberamente e con coraggio i propri pensieri, introducendo i lettori e gli ascoltatori nel mondo cristiano. Non si limitava a citare gli autori antichi, ma sapeva esporre i più complessi problemi teologici nella lingua e nel pensiero filosofico accessibili a qualsiasi persona istruita".

Se volete un’altra parola, la quarta: continuità della cultura per rendere incontrabile il cristianesimo all’uomo contemporaneo. Padre Men’ in questo senso era un testimone dell’Unico per renderlo presente al mondo; era da questa passione per l’Unico e per l’Unità che nascevano le grandi amicizie di padre Men’, in particolare le amicizie per chi con lui condivideva questa ansia di unità missionaria; grande amicizia, ad esempio, e immediata consonanza con padre Scalfi, con Russia cristiana, e poi con il Movimento di Comunione e Liberazione, rapporto che culminò nella decisione di tradurre in russo i libri di don Giussani.

Qui si potrebbero dire molte cose ma credo che la modestia di Padre Romano non mi perdonerebbe ciò che potrei dire.

Padre Romano propose di tradurre Il Senso Religioso, spiegando il contenuto del libro; padre Aleksandr si disse d’accordo, poi lesse la prima traduzione e si appassionò a tal punto del testo che volle intervenire consigliando il titolo, un po’ diverso da quello italiano, e scrivendo l’introduzione.

Vi leggo qualche riga dell’introduzione e ancora una volta sentiremo le stesse cose che abbiamo sentito nell’articolo su Solov’ev; parla di un altro con una intelligenza ed un’acutezza notevoli ma è come se padre Men’ parlasse di sé, perché appunto l’uno e l’altro parlavano dell’Unico: "Il libro di Luigi Giussani si rivolge a quei nostri contemporanei che con più che serietà riflettono sul senso della vita, a coloro per i quali le domande eterne non sono un gioco ozioso della mente, ma il cardine autentico dell’esistenza. In una parola, è un libro sull’essenziale. Alla domanda sul senso dell’esistenza, ci sono fondamentalmente tre risposte: la prima si riduce allo scetticismo, alla negazione della possibilità di sciogliere l’enigma della vita, di cogliere la verità; la seconda sostiene che l’esistenza è un processo cieco, assurdo, sostanzialmente senza senso; la terza risposta viene dalla religione. Essa afferma la realtà di un senso perenne della vita, poiché lega l’uomo al più alto principio. Lo scopo di Luigi Giussani è manifestare la natura della terza risposta, la risposta della religione. Tuttavia, sebbene il libro sia dedicato alla religione, il lettore non vi troverà tentativi di trasmettere una esperienza mistica o riflessioni su questa esperienza. Il problema di Luigi Giussani è diverso, più filosofico che teologico; lentamente, con l’attenzione, egli ci conduce per gradi sulla porta della Chiesa, e solo alla fine ne oltrepassa la soglia; ci conduce armato del metodo razionale, ci richiama a non prendere le distanze dalla ragione, grande dono di Dio, ma a utilizzare tutta la sua forza per avvicinarsi alla realtà ultima. Il cammino verso la Chiesa, per Luigi Giussani, è la via di un pellegrino solitario; quando il pellegrino giunge sotto le sacre volte, la sua solitudine finisce. L’autore mostra che la vita religiosa esce dai confini dell’esperienza individuale, ed esige la comunità nel seno della quale si compie l’incontro con Dio, l’incontro con Cristo", ma, su questa amicizia, su questa passione per l’Unico, è appunto Padre Romano che ci deve dare la sua testimonianza.

Padre Romano Scalfi, trentino, sacerdote, fondatore e direttore del Centro Studi Russia Cristiana.

Scalfi: Ho avuto la grazia di conoscere Padre Aleksandr prima di incontrarlo a Mosca due anni fa, prima di averlo nostro ospite a Seriate, per ben due volte. Lo conoscevo attraverso la sua fama, che era giunta fino a noi, anche in tempi quando era proibito parlare di lui, ed era pericoloso parlarne. Lo conoscevo come un grande apostolo della Russia ed un grande ecumenico. Non penso di esagerare nel dire che, in questi ultimi decenni, la Russia ha avuto il suo più grande missionario, e la persona più profondamente ecumenica, proprio in Aleksandr Men’. E vorrei parlare appunto di questi due aspetti, che mi sembrano caratterizzare la sua figura: la missionarietà e l’ecumenismo, caratterizzarla come termini che esprimono il profondo del suo cuore e il profondo della sua mente.

Ma prima di parlare distintamente di questi due temi, la missione e l’ecumenismo, vorrei far capire la genialità di aver unito missione ed ecumenismo, ciò che normalmente non si comprende né in Oriente, né in Occidente, anticipando, sotto certi aspetti, ciò che il Papa, continuamente negli ultimi tempi, sta ripetendo, che non c’è vera missione senza una passione ecumenica, e che non esiste un autentico ecumenismo al di fuori di un impeto missionario. Credo proprio che per questa sua genialità non sia accontentato di un ecumenismo vago o di una missione ambigua; per questo fu colpito, e possiamo considerarlo, appunto, un martire della missione e dell’ecumenismo. Resta sconosciuta la persona che ha alzato la mano per colpirlo, ma sappiamo chi ha fatto alzare questa mano: il potere della gente di palazzo, i nuovi idoli, l’idolo di un nazionalismo esasperato, che antepone la patria a Dio e a Cristo. Queste due forze negative e diaboliche hanno preparato questa mano, che così misteriosamente ha offerto a Dio il sacrificio più grande che Padre Aleksandr poteva dare.

Due mi sembrano essere le caratteristiche fondamentali della sua missionarietà: l’annuncio di Cristo come Salvatore unico e universale e l’annuncio della Chiesa come sacramento di salvezza. Come è già stato detto, Padre Aleksandr ha evitato di fare il contestatore politico; amico di ZÚeludkov, di Jakunin, di Dudko e di altri che credettero opportuno intervenire e pagare con anni di lager il proprio intervento in favore di una libertà anche politica, anche religiosa, Padre Aleksandr ha preferito dedicarsi soprattutto e principalmente all’annuncio cristiano. Non perché considerasse contrario ad una visione cristiana anche un capovolgimento, un miglioramento, una trasfigurazione della realtà terrena; preferì tacere perché voleva lavorare come una talpa che, all’oscuro, va alla radice della questione, non perché avesse particolari simpatie nei confronti del socialismo reale. Pochi mesi prima del suo olocausto, in una intervista rilasciata a un giornalista russo che insisteva nel domandare che cosa pensasse del socialismo, lui rispose: "A dir la verità, non ho mai capito cosa sia il socialismo. So soltanto che l’ateismo del socialismo ha rovinato la Russia; io preferisco parlare di Cristo, anche perché non so immaginare la Russia, se non in Cristo". E, sempre in questa intervista, Padre Aleksandr proseguiva: "La cultura umana ha un suo corso fatto di slanci creativi e di cadute, ma ogni volta che si è tentato di strappare Dio dalle menti degli uomini, nella Germania di Hitler, da noi in Russia, oppure in Cina, sempre al suo posto è sorto un idolo, e questo dimostra che non si può separare l’uomo, la cultura, lo spirito dall’eterno, da Cristo. Lontano da Lui, tutto diventa meschino, e noi cominciamo a costruire sistemi idolatrici".

Proprio nel cuore del suo apostolato, della sua missione, ma ancora prima nel suo cuore di uomo credente, stava Cristo. Giustamente, Olga Oboukhova ha detto che illuminava in tutti gli aspetti della vita, perché non distingueva un Cristo quando celebrava da un Cristo quando viveva umanamente, normalmente la vita. Una delle frasi più ricorrenti nelle sue prediche è nella liturgia del mattutino: "La luce di Cristo illumina tutti e tutto". La sua serenità, la sua pace derivava appunto da questo sentire sopra di sé e vedere in tutto, ovunque la luce di Cristo. Uomo di grande cultura, interessato a tutti i problemi, anche della scienza, dell’arte (era anche un iconografo, del resto), tutto vedeva e giudicava come illuminato segretamente; non sembrava predicare quando parlava, ma tutto era una predica, tutto spontaneamente sgorgava serenamente dal suo cuore; in Cristo vedeva il compimento di ogni cosa. Padre Aleksandr Men’ ha scritto moltissimo (e come abbia fatto a scrivere tanto, resta un mistero), anche un volume sulle religioni orientali. Sapeva scoprire ovunque una positività, quando intravedeva un senso religioso; ma la pienezza di tutto, il compimento di tutto, lo vedeva solo in Cristo, nella sua Chiesa. Testimonia di lui un suo discepolo, oggi sacerdote, che era presente in questi giorni sulle piazze della Russia ad incoraggiare la gente, a battezzare la gente; lui e Padre Jakunin, la notte in cui si aspettava la reazione dei golpisti, hanno battezzato, sulla Piazza Rossa, duecentocinquanta della milizia che difendeva Eltsin. Dicevano: "Se dobbiamo morire, è meglio morire da cristiani". Un discepolo di Padre Aleksandr così scrive del maestro: "Anche dopo la sua morte, cresce sempre di più la certezza che lui conosceva veramente Cristo, come un amico, e lo riconosceva in tutto. Tutte le ricchezze dello spirito umano, per Padre Aleksandr, erano la testimonianza di un’unica verità, di quella verità che aveva chiamato alla vita il mondo, la natura e l’uomo".

Quando scrivere di religione era considerato un delitto, e diffondere testi religiosi era soprattutto pericoloso, perché portava al lager, egli scrisse una decina di volumi sulla religione, una specie di summa religiosa. Ha scritto un’opera di sette volumi intitolata: Alla ricerca della strada verso la verità della vita. Faceva giungere poi clandestinamente i testi in Occidente, e siamo orgogliosi e lieti di aver contribuito a questo contrabbando di testi, che venivano stampati in russo e poi, nella misura del possibile, sempre clandestinamente, venivano rimandati in Russia. I suoi testi accanto ad altri testi del Samizdat religioso contribuirono più che mai alla formazione di quella cultura alternativa che ha scardinato in Russia la cultura marxista ed ha preparato il ritorno di tanta gente alla fede. Dice Besmertnik, un altro suo amico, uno dei suoi figli spirituali: "I suoi libri convertirono a Cristo migliaia e migliaia di persone". Sette dei suoi figli spirituali sono oggi sacerdoti. Quando a Leningrado e in altre città della Russia abbiamo trovato gente impegnata nella missione, aperta all’ecumenismo, dopo un po’ di tempo veniva fuori il nome di Padre Aleksandr.

Come dicevo, con i suoi scritti, con la sua parola, Padre Aleksandr ha preparato i tempi nuovi della Russia. Ma non ha solo collaborato a creare una mentalità nuova che ha portato la fede; cosa ancora più straordinaria per i tempi difficili ha creato delle comunità nuove (e questo è veramente un miracolo), perché ci sono stati altri tentativi, altri gruppi, altri seminari di cristiani, ma nessuno come lui ha contribuito a creare tante piccole comunità cristiane, indipendenti le une dalle altre, piccoli gruppi di tre o quattro persone, perché di più era pericoloso. Spesso non si conoscevano vicendevolmente, perché sarebbe stato facile alla polizia ritrovare tutti. Su questo aspetto, Padre Aleksandr fu veramente geniale; è stato profetico. Oggi da più parti si risente dire in Russia: "Oggi è il tempo della Chiesa, tempo di creare delle comunità cristiane". "La gente ritorna in massa alla fede, in massa si fanno battezzare, ma se questa gente non diventa Chiesa – ripeto ciò che sento dire dagli amici ortodossi – non fa comunità, c’è il pericolo che alla moda di andare a Cristo subentri la moda di andare verso il consumismo dell’Occidente, dove il cristianesimo rimarrebbe una pia pratica, se pur rimane, o un vago ricordo".

Pur non entrando mai direttamente in polemica con il potere (non è che dal potere fosse ben visto), fu sempre sospettato, controllato e perseguitato; la sua non fu una missione facile, e men che meno tranquilla. Non lo fu nemmeno all’interno della propria Chiesa. Furono proprio i suoi superiori che ad un certo momento gli impedirono di mandare clandestinamente all’estero i suoi scritti. Ed egli ubbidi, perché fu grande e geniale anche nell’obbedienza. Dopo l’arresto di Padre Dudkò, di Padre Jakunin, suoi amici, sembrava essere imminente anche il suo turno. Nel 1983 veniva convocato quasi quotidianamente dal KGB. I suoi amici ci avevano fatto pervenire una scheda da pubblicare in caso di arresto. In quel tempo, aveva confidato ad un amico: "Ho fatto quel che ho potuto per la Chiesa di Cristo, ora sono pronto per presentarmi davanti al tribunale di Dio". Teneva pronta anche la valigetta con le cose indispensabili per quando sarebbe stato arrestato. Arrivò la perestrojka prima dell’arresto, e Padre Aleksandr ne approfittò per scatenare tutta la sua passione missionaria, la sua passione per Cristo e per la Chiesa, scatenare, non trovo una parola più adeguata per esprimere la sua passione, pur conservando sempre una serenità, una magnanimità, una affabilità che lo distinguevano. Avevano chiesto a lui: "Come si sente, Padre, in questo periodo della perestrojka?", e lui rispose: "Come una freccia su un arco teso". Era presente ovunque, alla televisione, sui giornali sovietici, su ogni giornale, nelle scuole, all’università. In media nel suo ultimo anno di vita, ha tenuto più di venti conferenze al mese, senza contare le sue prediche, i suoi articoli. Il Signore lo ha voluto prendere in un momento di grande attività missionaria; era maturo per il cielo.

Ma un altro aspetto vorrei brevemente presentare: il suo aspetto di vero ecumenista. Il suo nome non è apparso sulle grandi riviste specializzate in ecumenismo, non ha mai partecipato ad assisi ecumeniche straordinarie, agli incontri ufficiali, neppure agli incontri teologici, anche se aveva tutti i requisiti per essere un gran teologo, per fare questi confronti tra le varie religioni. Certamente, non lo si può chiamare uno specialista in ecumenismo (ma questa forse fu la sua fortuna); non era affatto, come si chiamava in Russia, per l’ecumenismo turistico; cioè diventare ecumenici solo quando si trattava di incontri straordinari; era fatto per l’ecumenismo di ogni giorno. Il cuore, la mente, l’anima, tutta la persona di Padre Aleksandr era ecumenica, perché per lui l’ecumenismo non era un ruolo, una specializzazione, una moda, ma appunto il cuore della sua personalità. "La tolleranza – ha scritto lui – è il frutto di una grande maturità della persona, e della cultura in genere. Ed è una cosa molto semplice, occorre larghezza e nobiltà d’animo, superare i complessi di inferiorità. L’intolleranza nasce normalmente in persone nevrotiche e fiacche". Lui non era né nevrotico né fiacco. Pensava appunto che ci fossero una intolleranza ed un ecumenismo dei fiacchi molto sospetti. Pochi mesi prima di morire un giornalista gli chiese se, fra le sue fraternità, poteva esserci un paragone, una continuità con le società bibliche sorte in Russia all’inizio del secolo. Rispose categoricamente: "No, perché nelle società bibliche russe entravano in modo confuso e indistinto cristiani delle varie confessioni, pseudomistici, settanti, massoni e perfino occultisti. Questo non è il mio ecumenismo. L’ecumenismo non vuole l’eclettismo – sono sempre sue parole – non vogliamo trasformare tutte le religioni in una certa massa informe, che accetta dei valori morali comuni. L’ecumenismo non va in questa direzione".

Era rigorosamente ossequiente, obbediente alle norme della Chiesa ortodossa russa, anche a quelle che lui giudicava poco ecumeniche. Quando fu da noi per più di un mese, assisteva alla nostra liturgia bizantina; io un giorno gli proposi di celebrare lui separatamente sul nostro altare, e lui mi disse: "Tu lo sai come volentieri vorrei celebrare e concelebrare con te, ma sai che le ultime disposizioni della nostra Chiesa non ci permettono di celebrare su un altare cattolico". E preferiva assistere alla nostra liturgia, obbediente alle disposizioni della sua gerarchia, anche a quelle disposizioni che lui non riteneva giuste, giustificabili; ma occorreva obbedire, perché l’ecumenismo fosse vero. Non era, il suo, un ecumenismo disinvolto, ma sapeva unire ad una scrupolosa fedeltà alla sua Chiesa, una magnanimità, un riconoscimento della verità ovunque; soprattutto vibrava immediatamente all’unisono quando incontrava una passione per Cristo, per la Chiesa, per la missione ed entrava in un rapporto di simpatia, di collaborazione, di amicizia, di fraternità vera. La difficoltà nell’ecumenismo non vengono dai missionari eccessivi, ma dalla "fiacca missionaria". Dove non si capisce la missione, l’ecumenismo può essere soltanto di parata, di professione, di ruolo, mai un vero ecumenismo. L’ecumenismo è nato da una passione per Cristo e muore quando vien meno la passione di annunciare Cristo. Fu accusato di eccessive simpatie per il cattolicesimo; forse anche per questo certi nostri ecumenisti lo vedevano male, non lo vedevano di buon occhio, era troppo vicino, o meglio era troppo poco lontano perché potesse essere oggetto di interesse. Un ortodosso, uno dei suoi figli spirituali, Zelinsky, dice di lui: "Per lui la Chiesa universale già esisteva nella sua chiesetta ortodossa, vicino a Mosca. La Chiesa universale nasceva ovunque si trovasse lui, prete ortodosso. Ovunque lo avessero mandato, fra gli Eschimesi come fra i Papuani, lui, come S. Saldo di Sarof, avrebbe imparato la loro lingua, avrebbe tradotto per loro il Vangelo e la Liturgia; se si fosse trovato in un lager o in prigione, là sarebbe stato l’apostolo della Chiesa universale, restanto nella Chiesa ortodossa, senza allontanarsi di un passo". Vladimir Solov’ev, il più acuto pensatore, il più grande ecumenista della Chiesa ortodossa russa, ha avuto in padre Aleksandr il suo vero discepolo. Zelinskij concludeva la presentazione della figura di Padre Aleksandr con queste parole: "La sua morte mi sembra misticamente unita con il suo messaggio all’universalità, con il suo messaggio ecumenico, con il suo annuncio all’universalità all’interno della Chiesa ortodossa. Per questo, non temo di chiamarlo un santo, un martire dell’ecumenismo e della missione".

Dell’Asta: L’ultima parola con la quale vi voglio lasciare, seguendo gli scritti di Padre Aleksandr, è la parola responsabilità, l’appello alla responsabilità e alla libertà. Quello che vi leggerò è una delle ultime cose scritte, e si sente l’eco della tragedia che Padre Aleksandr avvertiva pesare sul suo capo, ma anche la speranza legata alla coscienza che l’uomo può sempre mutare ogni tragedia in bene, se accoglie l’appello alla sua responsabilità che gli viene da Dio. In questo senso sono parole che valgono oggi quando il futuro della Russia non dipende da giochi politici o economici, da nuove o vecchie ideologie, ma dalla libertà, da quella passione per la verità che Padre Aleksandr testimoniava. "Da tutti i confini della terra si levano segnali di allarme, grida di aiuto; la minaccia di una malattia mortale incombe sul mondo, sul nostro paese, sui nostri figli, su tutto il nostro futuro. Se non passiamo subito dalle parole ai fatti, di qui a poco questa possibilità ci verrà preclusa, e come diceva Matteo "si solleverà popolo contro popolo e regno contro regno, vi saranno carestie e terremoti in luoghi vari". Non è la prima volta che si avverano le minacciose profezie bibliche; all’uomo è dato di poter scegliere fra due strade: "Vedi, dice il profeta, io pongo oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male". E, ahimè, troppi finora hanno preferito la strada della morte e del male. Oggi al tramonto del XX secolo, possiamo leggere nella storia le stesse parole di saggezza scritte nella Bibbia. La storia ci insegna continuamente che il male si punisce da sé. La violenza sulle persone, sulla loro libertà e coscienza, ha generato traditori, delatori, schiavi. Le guerre, il terrore, le violazioni della legge hanno ucciso interi popoli, hanno annientato l’anima, la cultura, i fondamenti morali. Eravamo stati preavvisati. La parola di Dio aveva predetto da tempo dove avrebbero condotto tirannia e sciovinismo, materialismo e disumanità, incredulità e orgoglio satanico. Tuttavia non ci abbiamo riflettuto, non abbiamo compreso che il pentimento era indispensabile. Ed ora un nuovo nemico ci si fa innanzi, un nemico interiore; il suo nome è: irresponsabilità e indifferenza. Per volere del nostro Creatore, la nostra vita è strutturata in modo tale che noi siamo legati l’un l’altro da migliaia di legami. È l’uomo che trasmette al suo simile il sapere, la tradizione, i frutti del lavoro, la fede, l’amore, la vita stessa; ma proprio in forza di questa stessa legge, gli uomini possono diventare portatori del contagio del male. Dunque siamo responsabili gli uni degli altri e di conseguenza l’indifferenza è un peccato, un delitto. L’irresponsabilità, il rifiuto di preoccuparsi del prossimo, è un peccato contro il comandamento di Cristo che ci insegna a vincere l’egoismo mortale. Il Vangelo ci ammonisce: se non ci pentiremo, se non porteremo frutti di pentimento, se non ci allontaneremo dalla via dell’egoismo, alla fine diventeremo vittime di cieche forze distruttive. Non sono forse state l’indifferenza, l’irresponsabilità a condurre alla violazione di tutte le leggi umane e divine? Troppo a lungo abbiamo calpestato la verità, la fede, la misericordia. Abbiamo raccolto frutti mostruosi di delitti: narcotici, follia e odio, frutti di miseria e di malattie. Da tutto ciò, lo ripeto, eravamo stati messi in guardia dalla parola di Dio. Non è possibile tentare oltre la sorte. Questa è l’ora dell’ultima possibilità".