Mercoledì 23 agosto, ore 17

IL PARADOSSO DELL'INCARNAZIONE

Tavola Rotonda

Partecipano:

Ignace De La Potterie, David Schindler.

Modera:

Onorato Grassi.

O. Grassi:

(…) Il tema di questo incontro, "il paradosso dell'Incarnazione", è centrale non solo all'interno della Chiesa ma della nostra epoca. I relatori sono personalità di altissimo valore. Non è questo luogo di presentazioni accademiche, quindi dirò solamente che padre De La Potterie è belga, da trent'anni vive a Roma dove studia e insegna, ed è uno dei più insigni studiosi del Nuovo Testamento. Quello che ha cercato di fare in questi anni è una lettura cristiana della Bibbia, una lettura che coniugasse la lettera allo spirito. Memorabili sono i suoi studi, soprattutto sul Vangelo di San Giovanni e sulla gnosi. Il professor Schindler è americano, docente alla "Notre Dame University", è direttore e redattore capo della rivista "Communio". A lui si debbono approfondite analisi del cattolicesimo americano, della situazione culturale in America e dei problemi che la Chiesa incontra in quel Paese avanzato e profetico, per molti aspetti, per tutti noi. Ciò che accomuna i due relatori è una forte passione intellettuale sempre collegata alla concretezza e, mi hanno pregato di dirlo, una grande simpatia, e di questo li ringraziamo, per il movimento di Comunione e Liberazione. Ed ora il tema di questo pomeriggio. Il paradosso è qualcosa che sconcerta la mentalità comune. Perché paradosso dell'Incarnazione? Perché l'Incarnazione è un paradosso. Feuerbach diceva che se accettassimo l'incarnazione di Dio, la storia dell'uomo non avrebbe più nessun senso perché la verità sarebbe entrata nelle vicende umane e tutto finirebbe. Su questa affermazione di Feuerbach molta cultura si è costruita e su questo pregiudizio molti hanno detto che affinché la storia dell'uomo possa esserci, bisogna prescindere dall'Incarnazione, dal fatto che Dio è entrato nella storia stessa. Questo è la negazione di quella che Guardini chiamerebbe l'essenza del cristianesimo, che sta proprio nel fatto che il Verbo si è fatto carne, che ciò cui l'uomo aspira, l'assoluto, è entrato come un particolare nelle vicende di ogni uomo: tanto da portare l'uomo ad essere costruttore di una storia nella storia (…). Mi sia consentito di concludere quest'introduzione con una citazione che descrive la vera alternativa della Chiesa, non fra progressisti o conservatori, ma fra coloro che prendono sul serio il fatto dell'Incarnazione e coloro che invece lo obliterano (…). Darei ora la parola a padre Ignace De La Potterie.

I. De La Potterie:

Tra il Meeting dell'88 e quello di quest'anno, c'è un misterioso e profondo legame. L'anno scorso voi giovani di Rimini volevate essere "cercatori di infinito, costruttori di storia" (…). Avete capito che per costruire la storia e non distruggerla, per dare un senso alla vita, l'uomo deve sempre sognare l'avvenire, deve avere davanti a sé l'orizzonte dell'infinito: l'uomo è sempre almeno implicitamente un cercatore di infinito, un cercatore di Dio (…). Il Meeting dell'83 ha mostrato che il senso religioso sta risvegliandosi nel mondo di oggi. Ionesco e Guitton, giustamente, hanno visto nel Meeting di Rimini "l'annuncio profetico di un tempo nuovo, per la Chiesa e per il mondo". Quest'anno però il tema sembra essere di tono minore, più prosaico e realistico, almeno a prima vista: l'approccio, la ricerca e il possesso della realtà, dice il programma, può avvenire solo nel paradosso. Questo vale anche per la ricerca della verità religiosa, per la ricerca dell'infinito. Ma che cosa è un paradosso? Che cosa vuol dire? Il paradosso è un fatto, o un'opinione che va contro l'opinione comune, che urta il buon senso e che quindi potrebbe anche sembrare una cosa assurda; ma bisogna valutare bene la differenza fra paradosso e assurdo. Questo ci rinvia di nuovo a Eugène Ionesco, creatore del "teatro dell'assurdo". Ma se egli ha voluto mettere a nudo l'assurdo del mondo contemporaneo, cioè "l'assenza di Dio, il carattere irreale del mondo, il vuoto metafisico", era precisamente per invitarci a superare questa situazione assurda. E proprio a Rimini che pare egli abbia compreso questo: qui egli ha scoperto che si può vincere l'assurdo, che si può incontrare la verità anche nel paradosso, anzi, solo nel paradosso. E ha voluto mostrarlo con la sua opera, in prima lo scorso anno al Meeting di Rimini, su Massimiliano Kolbe: questo eroico frate "ha trasformato l'assurdo bunker della morte in un flusso d'amore". Il paradosso è stato vinto dall'amore. Un altro aiuto per la nostra riflessione ci viene dal filosofo Jean Guitton, anch'egli presente a Rimini lo scorso anno. Nel suo libro L'assurdo e il mistero egli scrive: "L'idea dell'assurdo ha invaso la coscienza e le subcoscienze dei popoli", e ancora: "L'assurdo e il mistero sono i due poli opposti tra i quali oscilla il pensiero". Ma dove si trova allora un posto per il nostro tema, il paradosso? Vorrei rispondere: a mezza strada tra l'assurdo e il mistero. Alcuni, davanti ai paradossi della vita, concludono che tutto è assurdo; ma la scelta del non senso e dell'assurdo conduce unicamente al nichilismo e alla disperazione; una fede che voglia accontentarsi di un "credo quia absurdum", non può reggere a lungo. L'altra scelta apre il paradosso sul mistero. Certo, non è ancora la soluzione di tutti i problemi. Ma se si accetta di considerare il paradosso come mistero, allora esso trova significato e suscita speranza. Al di là dei conflitti, al di là delle teorie e delle ideologie, si propone a noi il mistero: fa comprendere che esiste un senso profondo delle cose, benché sia un senso ancora nascosto ed inesprimibile. Il paradosso esiste solo per la ragione; il mistero invece è dell'ordine dello spirito, interpella la fede. Se accettiamo, nella fede, di considerare il paradosso come mistero, allora comincia a prendere senso per noi e diventa, nella speranza, fonte di luce e di gioia (…). È questo invito a cambiare il paradosso in mistero che viene rivolto a noi tutti in questo Meeting dell'89.

Il Paradosso cristiano fondamentale: l'Incarnazione

a) Cerchiamo ora di meglio comprendere il tema del paradosso nello specifico dell'incontro tra le religioni. Vogliamo mostrare che per noi cristiani, nella ricerca dell'infinito, il paradosso maggiore è quello dell'Incarnazione, sebbene debba anch'esso travalicare nel mistero. Partiamo di nuovo dal Meeting dell'88 e dal dialogo delle religioni. Notiamo anzitutto che l'iniziativa di andare incontro alle altre religioni è venuta proprio dalla Chiesa cattolica, come frutto del clima nuovo diffusosi nella Chiesa dopo il Concilio Vaticano II (…). b) Questo dialogo ecumenico tra tutti i cristiani, ed a livello ancora più universale, quell'incontro delle religioni del mondo, costituiscono indubbiamente un fatto positivo. Ma hanno anche un lato negativo: potrebbero far pensare che tutte le religioni si equivalgono e sono al fondo uguali. Che ragione ci sarebbe allora d’andare ancora in missione a predicare il Vangelo? Questa opinione genera grande confusione, provoca turbamento e conduce facilmente al relativismo o all'indifferentismo. È un grave equivoco che bisogna assolutamente chiarire. Ora, fortunatamente, proprio qui a Rimini, nell'89, la premessa al dibattito sull'incontro delle religioni è stata molto chiara: "L'Incontro fra le religioni è possibile nella misura in cui ciascuna religione scopre la propria specificità e, attraverso questa, cerca di costruire un mondo nuovo". c) Arriviamo così direttamente al nostro tema: qual è, nella ricerca di Dio, la specificità del Cristianesimo fra le diverse religioni del mondo? Tale elemento più specifico del Cristianesimo ne costituisce per forza l'elemento più paradossale. Ora, la specificità cristiana, il paradosso cristiano fondamentale, è un fatto storico: l'Incarnazione del Figlio di Dio. Noi cristiani crediamo e professiamo che il Verbo di Dio si è fatto carne in un uomo concreto della nostra storia: Gesù di Nazareth, di cui "si credeva che era il Figlio di Giuseppe", dice il Vangelo (Luca c. 3,23) ma che in realtà era soltanto stato concepito e partorito da una vergine, Maria, appunto perché potesse comprendersi che egli era il Figlio di Dio e non il Figlio di un uomo. Questo fatto dell'Incarnazione è talmente sorprendente e unico nella storia delle religioni che costituisce lo specifico del Cristianesimo (…). Le altre religioni sperimentano ciò che Eliade ha chiamato "il terrore della storia"; cercano pertanto la salvezza nell'evasione dal divenire storico, ricorrendo, ad esempio, al mito dell'eterno ritorno al tempo primordiale (Cfr. Le mythe de l'"Eternel Retour") (…). Solo il giudeo - cristianesimo situa l'evento salvifico nel tempo, dentro la storia, anzi presenta una storia della salvezza che punta all'evento escatologico, alla fine dei tempi. Di fronte alle religioni tradizionali, scrive Eliade, la novità della religione giudaica consiste nel fatto che "l'evento storico diventa una teofania, in cui si manifesta sia la volontà di Dio che i rapporti personali tra lui e il popolo eletto" (Le mythe de l'"Eternel Retour", 164). Ma una differenza essenziale distingue successivamente il Cristianesimo dal Giudaismo. Per i giudei, la teofania storica essenziale è quella della legge sul Sinai. Per i cristiani, l'evento centrale della storia della salvezza è la venuta storica di Gesù Cristo. Giovanni scrive nel suo prologo: "La Legge è venuta per mezzo di Mosè; la grazia della verità è venuta in Gesù Cristo" (Gv. 1,17). E Paolo, nella Lettera ai Galati (Gal. 4,4 - 5): "Quando venne la pienezza del tempo, Iddio mandò il suo Figlio, fatto da donna, fatto sotto la legge, affinché riscattasse quelli che erano soggetti alla legge, affinché ricevessimo l'adozione a figli". Nella storia della salvezza, quindi, Gesù non è soltanto il Messia aspettato da Israele: lo è, ma in un modo totalmente nuovo, perché, nella linea orizzontale della storia di Israele si inserisce verticalmente la venuta e la manifestazione del Dio trascendente, nel mondo, in Gesù, "il Figlio unigenito venuto da presso il Padre" (Gv. 1,14). La tradizione dogmatica della Chiesa, pertanto, spiegherà che in Cristo ci sono due nature (quella umana e quella divina), ma una sola persona, quella divina del Figlio di Dio. Di fronte a Gesù, che noi chiamiamo il Signore, il nostro culto non è quindi idolatrico, come talora ci rimproverano i giudei, perché non è culto ad un semplice uomo, ma a qualcuno in cui riconosciamo il Figlio di Dio venuto fra noi. L'importanza ed il significato del paradosso dell'Incarnazione possono essere ricondotti a tre aspetti. (…) Il primo aspetto, ovviamente, è che, secondo noi cristiani, si può incontrare una persona divina nella storia umana, in un essere umano, nell'uomo di Nazareth chiamato Gesù. Ma sarebbe sbagliato concludere che nell'Incarnazione abbiamo la base teologica per la totale secolarizzazione del mondo, per l'edificazione della "città secolare" (11. Cox). Dio, senz'altro, è entrato nel mondo e si è fatto uomo, ma non segue da ciò, come pretendono alcuni teologi della secolarizzazione, che il compito del cristiano si riduca ormai a rendere più umano il mondo ed a realizzare l'autonomia dell'uomo. Ragionando così si dimentica che Cristo, che è venuto fra noi, non è soltanto uomo; è anche il Figlio di Dio ed è venuto appunto per farci partecipare alla sua vita filiale. Ignorare la presenza del divino in Gesù significa ridurre il cristianesimo ad un umanesimo, all'orizzontalismo. Si sopprime il mistero di Gesù Cristo che è "Dio - con - noi". Il secondo aspetto del paradosso dell'Incarnazione è che essa implica anche una profonda trasfigurazione del tempo e della storia e permette di rendere presente ed attuale un evento del passato (…). Per comprendere il vero Gesù, quello dei vangeli, dobbiamo, come diceva S. Gregorio Magno, "alzarci dalla storia al mistero" (In Ezecb., I, 6, 3), perché la Sacra Scrittura, "quando racconta una storia, manifesta un mistero" (Mor., XX, 1, 1); dobbiamo quindi alzarci dalla storia di Gesù al mistero di Cristo: egli sovrasta il tempo e lo spazio; il Gesù della storia, certo, è lontano da noi; non così il Cristo, nella pienezza del suo mistero. Egli è al di sopra dei limiti della storia; egli è vicino a noi, rimane presente a ciascuno di noi; con Kierkegaard, il filosofo dell'esistenzialismo, possiamo e dobbiamo dire che noi, cristiani, siamo veramente contemporanei di Cristo. Lo scriveva recentemente anche Mons. Giussani: "Che Cristo sia veramente presente alla nostra esistenza, questo è proprio la sostanza, il contenuto impressionante, l'eccezionalità del Cristianesimo". E perciò ci rivolgeva l'invito a fare "l’esperienza del Mistero presente. Mistero, cioè il cuore ultimo delle cose; Presente, diventato Uomo" ("Il Sabato", 22.04.1989, 97). Questa teofania fatta una volta nella vita di Gesù ma che, per mezzo di lui si attualizza nel presente della nostra vita, è il secondo aspetto del paradosso della Incarnazione. Il terzo aspetto va cercato nel motivo dell'Incarnazione. Nelle altre religioni, la ricerca dell'Infinito è una ricerca umana, quindi uno sforzo ascensionale, una salita dell'uomo verso il divino. Il Cristianesimo ha completamente invertito questo movimento: è Dio a cercare l'uomo; l'iniziativa parte da Dio (…). Il movimento della rivelazione e della salvezza, parte dunque da Dio e viene verso l'uomo (…). "Dio è amore" (1 Gv. 4,8.16), "l'amore è da Dio" (1 Gv. 4,7). Questa rivelazione è la novità forse più radicale portata dal Cristianesimo nel mondo: "egli (Dio) per primo ci ha amati" (1 Gv. 4,19), scrive Giovanni. Questo amore è la più profonda spiegazione dell'Incarnazione del Figlio di Dio: "Dio ha tanto amato il mondo che ha dato il suo Figlio unigenito, affinché chiunque crede in lui, non perisca, ma abbia la vita eterna" (Gv. 3,16) (…). Che Dio, infinitamente perfetto e trascendente, si sia interessato degli uomini, anzi, abbia amato gli uomini al punto di farsi uomo egli stesso, per dare loro la possibilità di partecipare alla sua propria vita divina, ecco certamente una delle affermazioni più audaci e più sconcertanti del Cristianesimo; la ragione umana con le proprie forze mai avrebbe potuto immaginarla, mai sognarla. È ciò che vorremmo adesso illustrare più attentamente con alcuni esempi storici degli attacchi contro il Cristianesimo.

Il rifiuto del paradosso cristiano

Per comprendere meglio il carattere paradossale dell’Incarnazione, è molto istruttivo vedere tre esempi del suo rifiuto e le ragioni di esso: prima, da parte delle autorità giudaiche del tempo dei Gesù; poi da parte del paganesimo e dello gnosticismo nella Chiesa antica; infine, nel mondo moderno. a) Nel vangelo di Giovanni tutta la cristologia è costruita sul tema della Incarnazione. Questa automanifestazione di Gesù, in cui egli si rivela come Figlio di Dio, costituisce anche la ragione della sua condanna (…). Per i Giudei, pretendere di essere il Figlio di Dio, era blasfemo e proprio su questo punto si consumerà in seguito la divisione del Cristianesimo dal giudaismo, compendiata nella frase del prologo: "I suoi non lo hanno accolto" (Gv. 1,11), proprio per il motivo dell’Incarnazione. b) La dottrina dell’Incarnazione ancor meno poteva essere accolta dalle religioni non cristiane del mondo antico. Uno degli avversari più decisi del Cristianesimo fu Celso, un filosofo del II secolo, probabilmente vissuto a Roma, che scrisse un trattato polemico contro i cristiani, Il discorso veritiero, di cui Origene fece una confutazione sistematica nel suo Contra Celsum. Celso attaccò tutti gli aspetti del Cristianesimo, la maggior parte delle sue critiche son quelle che verranno poi ripetute nei secoli successivi. Secondo Celso, che era di formazione platonica, Dio è totalmente inaccessibile per l’uomo con i sensi del suo corpo; possiamo raggiungere Dio solo con una specie di illuminazione. Parlare come i cristiani di Dio che si è fatto uomo, vuol dire proclamare una religione nuova che non ha senso; affermare la fisicità del Figlio di Dio è semplicemente assurdo (…). La riflessione, talvolta sarcastica, di Celso non ha niente di religioso; è un discorso totalmente secolarizzato. Al Dio dei cristiani attribuisce un sentimento banale come la curiosità, oppure l'impotenza davanti ai disordini di questo mondo. Nessuna parola sulla salvezza degli uomini; e nessuna parola, ovviamente, sull'amore di Dio per noi. Dell'amore di Dio, il mondo pagano non aveva la minima idea. In un tale contesto, puramente razionale, si comprende anche l'interpretazione che Celso dava per la dottrina cristiana del concepimento verginale di Maria al momento dell'Incarnazione. Per Celso era una favola. È da lui che viene il racconto, ripetuto poi per secoli fino ai nostri giorni, dell'adulterio di Maria (…). c) Quale è stata, anche nel secondo secolo, la reazione degli gnostici di fronte alla dottrina cristiana dell'Incarnazione? La gnosi è un fenomeno estremamente complesso, che trova la propria radice nelle dualità dell'uomo. Si manifesta più o meno in tutti i periodi della storia, anche oggi. Dobbiamo qui limitarci ad un breve accenno. Gnosis, in greco, significa "conoscenza", ma per gli gnostici era esclusivamente la conoscenza della salvezza. Lo gnosticismo infatti era un dualismo radicale tra la materia e lo spirito, tra la sfera inferiore del mondo e la patria celeste, il "pleroma". Per gli gnostici, l'uomo è un essere divino, prigioniero nel carcere della materia, un pezzo d'oro caduto nel fango; perciò egli si sente straniero in questo mondo cattivo, perché, come dice un testo gnostico, "il male dell'ignoranza sommerge tutta la terra" (Corpus hermeticum, VIII, 1).La salvezza quindi consiste nel ritorno al paradiso perduto, per mezzo della conoscenza di sé e della propria divina origine (…). Si comprende bene quale sia allora la posizione degli gnostici di fronte alla dottrina dell'Incarnazione. Si può già rilevarla da un indizio letterario molto preciso: gli gnostici cristiani del II secolo hanno tratto larga ispirazione dal prologo giovanneo: un solo versetto del prologo non hanno mai potuto accettare, il versetto numero 14: "Il Verbo si è fatto carne". Nel loro sistema questo rifiuto era logico, dato che la materia era, dal loro punto di vista, "la pienezza del male" (Corpus hermeticum, VI, 4). Il loro rifiuto di Gv. 1,14 implicava un rifiuto totale dell’Incarnazione (…). La risposta dei padri della Chiesa a questa grossa sfida dello gnosticismo è stata molto decisa. Hanno sottolineato con forza l’importanza della carne di Cristo per la nostra salvezza. Tertulliano scrisse il suo De carne Christi. Ireneo di Lione, il principale oppositore dello gnosticismo nel II secolo, ha mostrato ripetutamente che la salvezza cristiana implica la salus carnis, con la Risurrezione e la Glorificazione anche dei corpi (…). d) Domandiamoci ora come si manifesta il rifiuto dell’Incarnazione oggi. A quanto pare, possono distinguersi nel nostro tempo due tendenze contrastanti, più o meno simili a quelle del mondo antico ed egualmente pericolose: il neo-paganesimo materialistico ed il neo-gnosticismo. Il paganesimo moderno è frutto del positivismo e dello storicismo: vede in Cristo solo l’uomo Gesù, sotto l’aspetto esclusivamente storico, sociologico o umanitario (…). In una tale prospettiva orizzontalistica non c’è più dimensione trascendente in Cristo; Gesù può ancora essere presente nella nostra vita, ma solo come maestro di etica o di impegno sociale. Il Cristianesimo è ridotto ad una specie di moralismo; è scomparso il mistero. La corrente neo-gnostica è l’esatto opposto della precedente (…). Molto giustamente scriveva Luciano Pellicani: "In un mondo sempre più secolarizzato gli uomini avvertono il bisogno di surrogati ideali per riempire il vuoto lasciato dalla crisi delle religioni tradizionali, e che soddisfino esigenze metafisiche che altrimenti resterebbero frustrate". Sotto ognuna delle sue maschere, egli prosegue, la gnosi "promette la stessa cosa: una sorta di liberazione dalla schiavitù o dalla banalità del quotidiano" (…). Per lo gnostico moderno come per quello antico, l’Incarnazione non può avere alcun senso. Il Gesù prepasquale, quello della storia, è solo un buon ebreo che rimane irrilevante per il credente; ma il Cristo della fede rischia fortemente di ridursi ad un mero simbolo spirituale (…). Ma si può ancora parlare, allora, di Cristianesimo autentico? Paragonando tra loro queste due grandi correnti contemporanee – la neo-pagana di tipo scientista e la neo-gnostica – si può dire che ognuna, come la gnosi antica, "divide Gesù" (Solvit Jesum, 1 Gv. 4,3, in alcuni manoscritti): il secolarismo vede solo l’uomo Gesù, la falsa mistica ne fa un mito. La fede cristiana, invece, rifiuta quella dissociazione completa del divino e dell’umano in Gesù perché, se ci sono in lui due nature, c’è però una sola persona; il Cristianesimo, quindi, mantiene sia il realismo del fatto storico dell’Incarnazione di Cristo nel seno verginale di Maria, sia il mistero presente nell’uomo Gesù, perché nella realtà fisica dell’uomo Gesù abita la persona divina del Figlio di Dio. Concludiamo questa seconda parte con una citazione di Vladimir Solovi’ev, ne Il racconto dell’Anticristo, cioè la risposta dello starets Giovanni all’Imperatore: "Grande Sovrano! Quello che noi abbiamo di più caro nel Cristianesimo è Cristo stesso. Lui stesso e tutto ciò che viene da lui, giacché noi sappiamo che in lui dimora corporalmente tutta la pienezza della divinità" (cit. da Mons. L. Giussani, ne "Il Sabato", 22.04.1989, 85).

Dal paradosso al mistero: il senso dell'incarnazione

Abbiamo visto finora quante difficoltà hanno avuto gli uomini davanti al paradosso cristiano di un Dio fatto carne. Ma anche noi, come diceva Eliade, siamo ancora lontani dall'aver compreso il significato totale dell'Incarnazione. Per meglio comprenderla cerchiamo di vederla non più dal di fuori come paradosso, ma di entrarvi, di penetrarla, con fede, come mistero, perché l'Incarnazione è il mistero primordiale di Gesù Cristo (…). Lasciamoci condurre per mano dal grande teologo dell'Incarnazione che era San Giovanni, percorriamo, insieme, il suo grande inno all'Incarnazione, il prologo del IV vangelo (...). a) Il prologo è un'introduzione diretta al IV vangelo, (…) che funge da chiave di lettura per la vita di Cristo raccontata successivamente (…). I primi cinque versetti del prologo, ci svelano due aspetti importanti del mistero di Cristo: egli è la luce degli uomini, la rivelazione divina al mondo; e ciò che in lui viene "manifestato" (c.F.r. 1 Gv. 1,2) è "la vita", la sua vita divina, la sua relazione eterna al padre. Ma la parte centrale del prologo (1,6 - 14) è la più importante. Dopo aver presentato la venuta del Verbo sotto il simbolo della luce, l'Evangelista precisa adesso che quella venuta si è realizzata concretamente nella storia in un evento preciso: l'Incarnazione del Verbo: "Sì, il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi, e noi abbiamo contemplato la sua gloria, la gloria dell'Unigenito, venuto da presso il Padre, pieno della grazia della verità" (…). Queste poche parole sono il compendio di tutto il mistero di Cristo; e ci danno la chiave di lettura per tutto il quarto vangelo. Alla fine del prologo, l'evangelista aggiungerà che "il Figlio Unigenito è tornato nel seno del Padre" (1, 18). Ed è con i titoli "Figlio" o "Figlio Unigenito" che egli designerà Gesù attraverso tutto il vangelo. Nella teologia giovannea quindi, l'uomo Gesù è colui che si rivela progressivamente come il Figlio di Dio. Questo è il cuore del Cristianesimo: quell'uomo concreto, nato dalla vergine Maria, è diventato la tenda, in cui ha abitato il Verbo (c.F.r. 1,14), egli è il tempio della presenza di Dio, il luogo in cui gli uomini possono comunicare con Dio (…); l'incontro con Dio accade in Gesù. b) Che cosa significa questa rivelazione per noi, per la nostra vita concreta di ogni giorno? Questa verità su Cristo domanda a noi un cambiamento progressivo ma radicale. Se abbiamo accolto il Verbo incarnato, come hanno fatto i primi discepoli, e se veramente crediamo sempre più in lui, riceviamo da lui "il potere di diventare figli di Dio" (1,12). Giovanni non dice: il potere di essere figli di Dio, ma: di divenirlo. Si pone qui tutto il problema della nostra identità cristiana, il problema dell'autenticità cristiana di cui molti, purtroppo, non sanno più cosa dire oggi. Con Hans Urs Von Balthasar, è opportuno porre la domanda: "che cos'è un cristiano?". Il vangelo ci dice che Gesù richiede non solo una conversione, ma qualcosa di più profondo: una nuova nascita per una vita nuova, un divenire uomini nuovi, ossia figli di Dio; è ciò che Gesù spiegherà a Nicodemo, il quale però non capirà granché. Il cristiano è invitato a diventare progressivamente un uomo "nato dallo spirito" (3,8); perciò, dopo la Risurrezione, Gesù dirà a Tommaso: "Diventa un uomo di fede" (20,19) (…). Con la nostra fede personale in Cristo, la verità, che è lui stesso (Gv. 14, 1), diventa la verità nostra. Fermiamoci un momento su questa formula bellissima: veritas nostra. L'espressione è stata coniata nella Chiesa antica; come per i cristiani del II secolo, dovrebbe essere l'espressione della nostra coscienza e fierezza cristiana, l'espressione della nostra gioia di essere cristiani. Tertulliano usava queste due parole per rispondere agli attacchi dei pagani e degli eretici: veritas nostra. Di fronte a loro, non provava alcun senso di inferiorità. Al contrario! Auguriamoci che sia vero anche per noi: osiamo dire di essere cristiani, osiamo mostrarlo, osiamo operare per questo, anche in un mondo che non lo è: la nostra fede è "la verità nostra". Alla luce del mistero dell'Incarnazione, abbiamo detto, esser cristiano significa che nella fede siamo veramente figli di Dio. Ma ciò porta con sé un altro fatto: la vita dei figli di Dio si esprime esternamente come una vita di comunione di tutti quanti sono i discepoli ed i fratelli di Gesù, cioè come una vita di fratellanza, una vita di amore (…). Se l'Incarnazione si presentava all'inizio come un paradosso, vediamo ora che poco a poco si è trasformata in un mistero ma un mistero di luce, di libertà, di gioia. Il messaggio che ci hanno tramandato i primi discepoli, i testimoni dell'Incarnazione, è che la vita cristiana è vita di comunione: comunione con il Padre e con Gesù, suo Figlio, e comunione fraterna, quindi amore reciproco. Allora si capisce perché l'unico precetto che Cristo ci ha lasciato sia di amarci gli uni gli altri, come egli ha amato noi (c.F.r. Gv. 13, 34). Comprendiamo ora anche che questa verità cristiana, la "verità nostra", non è più "paradosso"; al contrario è una verità che ci rende liberi (Gv. 8,32), perché è il Figlio stesso che ci libera (Gv. 8,36). Pertanto la nostra comunione con lui, fonte della nostra comunione fraterna, è anche la fonte della nostra liberazione e della nostra gioia. Voi, giovani di "Comunione e Liberazione", ricordatelo sempre: solo questa "comunione" cristiana potrà essere la vostra vera "liberazione".

O. Grassi:

Permettetemi di esprimere, penso anche a nome di tutti voi, il mio ringraziamento per la magistrale lezione che il padre De La Potterie ci ha offerto questo pomeriggio, non solamente una lezione di alta teologia, ma una lezione che serve alla vita, soprattutto per coloro che quelle cose or ora dette vogliono o cercano di far diventare vere nella vita. Vorrei solo sottolineare il termine fisicità che padre De La Potterie ha usato ripetutamente: forse è proprio questo il termine dello scandalo del paradosso che il cristianesimo porta nel mondo, laddove la fisicità arriva anche nei giorni nostri ed è contro questa fisicità che molto spesso viviamo grandi difficoltà. Ma mi conceda, padre, di ringraziarla anche perché quando dei maestri sanno parlare in modo così chiaro e così appassionato la vita per noi semplici credenti sembra quasi diventar più facile da percorrere. Ed ora pregherei il professor David SchindIer di prendere la parola: continuerà la conversazione di questo pomeriggio riprendendo un termine che padre De La Potterie ha già usato nel suo intervento, la trasfigurazione, la trasformazione, il cambiamento, mettendo in luce come nell'Incarnazione stia il fondamento dell'etica cristiana.

D. Schindler:

(…) Il tema del mio contributo è l'Incarnazione come fondamento dell'etica. Il tema che voglio presentare, molto semplicemente può essere riassunto in una frase: la forma di Cristo è quella dell'etica. De Lubac aveva già intuito, tempo addietro, che il problema della natura e della grazia non è una questione arcana. Piuttosto il problema raggiunge il cuore del significato dell'essere cristiani (…). La grazia ordina la natura fin dall'inizio della sua esistenza e anche dagli strati più profondi. La grazia è non un requisito della natura, ma un dono totalmente gratuito, che interpella, chiama la natura in maniera radicale, infinita (…). Molta parte della teologia del post-Concilio di Trento ha tracciato uno spartiacque tra la natura e la grazia, tra la natura e le sue attività, che sono state lasciate a se stesse, alla loro stessa integrità, alle loro risorse naturali. D'altra parte però, in nome dell'immanenza dell'ordine della grazia, molto parte della teologia del post-Vaticano Secondo ha assorbito talmente la grazia nella natura, al punto che la natura e le sue attività non venivano più viste come bisognose di una trasformazione radicale e del rapporto con Dio. Ciò che De Lubac ha percepito era che entrambe queste teologie portavano alla secolarizzazione. Ciò che De Lubac ha intravisto, è che nessuna di queste due teologie era in grado di far fronte alla crisi della modernità (...). La sua teologia, invece, mostra che la natura non è un neutrale rispetto alla forma religiosa. La natura mai esiste senza una forma, mai può esistere senza una implicazione riguardo a ciò che è ultimo, e quindi la pratica, mediante la quale possiamo estendere la natura nella cultura, analogamente non può mai esistere senza una forma religiosa. Quando sosteniamo che la pratica è una questione di religione prima di essere una questione di etica o di politica o di moralità o di giustizia sociale, intendiamo dire che tale pratica mai potrà essere neutrale quando si parla di forme religiose, e che questa pratica sarà diversa a seconda del fatto che venga forgiata dalla forma assegnata nella grazia, oppure da altre forme (...). Ma per chiarire tutto questo, dobbiamo porci due domande. La prima: come possiamo capire la forma o la logica della pratica, richiesta dal rapporto a Dio e data nella grazia? Secondo: come questa forma o logica o pratica, che ci è data nella grazia, può contrapporsi alla forma della logica e della pratica come viene intesa nei termini convenzionali della nostra cultura? Qual è la forma o la logica della cristianità e qual è la forma essenziale o logico-essenziale della nostra cultura oggi? Per quanto attiene alla prima domanda, vorrei dire che (...) noi, come cristiani, invero già come uomini, siamo sottoposti all'ordine di Dio, in Gesù Cristo e quindi dobbiamo assumere la forma di Cristo. Qual è questa forma? La forma, come forma di Cristo, è una forma di amore (...). Tutto ciò che possiamo dire come cristiani, relativamente alla forma delle nostre attività naturali e delle produzioni, della nostra pratica, è che tutto ciò deve scaturire dalla forma rivelata in Gesù Cristo e quindi deve nascere e prendere forma dall'amore la cui pienezza si dà in Gesù Cristo. E, come dice Balthasar, l'archetipo per questo intero sviluppo nasce dall'unione ipostatica, e cioè la natura umana distinta di Cristo ha la sua esistenza soltanto in rapporto, in unità, in coniugazione con la persona divina (...). L'amore di Cristo visto come una forma. Questo è il richiamo cristiano alla santità: assumere la forma che è Cristo, che è amore (...). Per rispondere alla seconda domanda, invece, è meglio esordire con una comprensione convenzionale del concetto di diritto. Il diritto, come viene concepito nella tradizione liberale, è una pretesa che un individuo rivendica sull'altro. La forma o la logica della comprensione liberale dei diritti è di tipo egocentrico. (…). Un diritto non esprime altro che il tipo di obbligo che deriva dalla egocentricità dei rapporti: un obbligo degli altri nei miei confronti. Anche quando questo diritto viene esteso a tutti gli individui, la direzione di questa obbligazione rimane pur sempre di tipo egocentrico (…). Un secondo modo di caratterizzare la forma della nostra cultura, come peraltro suggerii Balthasar, si esprime in termini di macchina. Il legame tra la forma del liberalismo e la forma della macchina è l'esternalità delle relazioni dei rapporti (…). Ciò che vorrei sottolineare qui è che la cupidigia, il potere, il consumismo che spesso caratterizzano i modelli dei rapporti nella cultura moderna contemporanea, in comune hanno la forma o, se vogliamo, la logica della macchina (…). Qual è, allora il compito del cristiano (…)? Sei brevi commenti conclusivi: anzitutto Cristo, come forma di amore non sostituisce le forme della cultura e della natura (…). Cristo come forma di amore ordina e quindi posiziona tutte le forme naturali, dall'inizio e dai loro strati più profondi fino alla fine, trasformandoli e trasfigurandoli in lui cioè nell'amore. La cristianità non sostituisce la cultura umana e tutte le competenze umane che questa cultura esige, d'altra parte, però, una cultura umana che non si consenta di essere formata dalla cristianità non potrà essere neutrale ma piuttosto assumerà un’altra forma che le circostanze moderne vanno delineando secondo il tipo cartesiano. Secondo: l'amore. L'amore che è la condizione intima e la forma di tutte le azioni cristiane non è un principio che noi possiamo possedere, dal quale dedurre programmi e azione. (…) Un'azione autenticamente cristiana mai potrà essere trionfalistica, sempre dovrà procedere nel quadro della umiltà, dell'autoabbandono, dell'amore, del crocifisso (…). Terzo: la forma di amore che i cristiani devono assumere in tutto ciò che sono, fanno e dicono, è la forma che proviene dal più profondo della natura umana. Contestualmente, questa forma di amore giunge alla natura umana in maniera totalmente gratuita, da luoghi ben più remoti della natura umana e quindi comporta una inversione completa di ciò che è naturale. Conseguentemente la condizione del discepolo cristiano sarà sempre scandalosa. 1 cristiani devono sempre cercare di aiutare gli esseri umani per raggiungere la soddisfazione della loro natura, ma lo devono fare nella piena consapevolezza del paradosso: paradosso che questo atto di soddisfazione potrà avere solo la forma di un amore che è crocefisso (…) Quarto: l'azione cristiana è sempre questione di essere portati mano nella mano proprio attraverso la grazia dell'azione di Dio, da cui si vede ed emerge il "fiat" di Maria, della Chiesa. Questa azione, quindi, dovrà avere sempre una dimensione essenzialmente contemplativa (…). Quinto: benché sia l'ideale la forma di amore cristiana non può penetrare appieno tutte le organizzazioni e le azioni umane: la finitezza e il peso del peccato fanno sì che questo tipo di vita sia impossibile (…). Sesto: l'impegno cristiano con il mondo esige prudenza. Come cristiani dobbiamo collaborare con altri nella nostra società, anche se dobbiamo essere presenti nella nostra forma di cristiani, come testimoni. Questo significa alcune volte raggiungere un compromesso (…). Collaborare, lavorare con gli altri in una società di tipo pluralistico comporta il trovare dei punti in comune con gli altri e per trovare questi punti in comune dobbiamo far leva sulla legge naturale (…). La natura e le sue leggi, però, hanno una integrità che fin dall'inizio è relativa, o comunque dipende molto dal rapporto con Gesù Cristo. Ma se la natura e le sue leggi hanno una integrità di tipo relazionale, il cristianesimo non dovrebbe neanche per un istante far finta, pretendere, nel suo richiamo alla natura (o alle leggi naturali), di non essere influenzato dalla Grazia, dalla fede in Cristo. Il cristiano deve rappresentare le sfaccettature della natura in tutta la sua integrità, anche se egli sa, nella fede, che tutti questi fatti possono ricevere la intelliggibilità ultima e più profonda soltanto in Cristo. Egli ha il dovere di dimostrare che ogni fatto della natura che non evidenzi la forma dell’amore, che non sia aperto dall'interno alla integrazione, è inadeguato, perché niente della natura, nessun aspetto, è ciò che è se non quando viene ordinato in un senso significativo all'amore trino, quello di Dio. De Lubac ci ha aiutati a riconoscere che non esiste nessuna legge naturale che sia neutrale verso la forma religiosa; e questo vale anche per la prassi, l'appello alla giustizia sociale, alla moralità, che sostengono di poter procedere in maniera innocente e quindi di astenersi dalla forma religiosa (…). La pretesa liberale che la cultura e quindi la pratica socio-etica siano neutrali e non dipendano dalla forma religiosa è una delle forme della morte di Dio: è il modo occidentale di spingere Dio ai margini della cultura. Per riassumere tutto quello che abbiamo letto e detto in nome del lavoro di De Lubac, possiamo dire che il Dio dell’Occidente non ha avuto realmente il coraggio di morire: è diventato semplicemente un liberale. Grazie.

O. Grassi:

Grazie anche al professor Schindler: se la parola che ricorreva di più nella relazione di padre De La Potterie era ‘fisicità’, nella relazione del professor Schindler la parola ‘forma’ è stata quella più usata. Forse è questa forma del cristiano che definisce un’etica nella società, il paradosso più grande e più sorprendente che il mondo moderno ha oggi di fronte e col quale ha a che fare, una forma che molto probabilmente può creare una certa aspettativa, una certa problematica anche all’interno della Chiesa e fra i cristiani. Sono forse i problemi che abbiamo discusso questo pomeriggio i problemi più seri che possono contraddistinguere un vero dialogo fra cristiani, fra cattolici, al di là di certe sfumature o di certe discussioni che lasciano a volte il tempo che trovano. L’incontro finisce qui, grazie a tutti e buona serata.