Dal radicalismo giovanile alla consapevolezza dei limiti

L’impegno sociale di Sofri, Bompressi, Pietrostefani, a cura del Comitato "Liberi Liberi"

Mercoledì 27, ore 21.45

Relatori:

Aldo Brandirali, Fondatore del Movimento "Popolo e libertà"

Peter Schneider, Scrittore e Saggista

Riccardo Bonacina, Direttore del settimanale Vita

Adam Michnik, Direttore del quotidiano Gazeta Wyborcza

Jacqueline Risset, Docente di Letteratura Francese presso la Facoltà di Lettere della Terza università di Roma

Carlo Ginzburg, Storico, Docente presso l’Università di Berlino

Schneider: Quello che è successo ad Adriano è una grande ed enorme ingiustizia: non crediamo più alla giustizia del popolo, ma nemmeno alla giustizia dei pentiti e del pentitismo. È incredibile che l’unico esecutore di un omicidio è l’unico che accusa un altro, e che i giudici valutino la sua credibilità con la frase seguente: "è stato soltanto l’angoscia e il rimorso, la crisi di coscienza che aveva spinto lui a confessarsi". Il modello dei giudici sembra il modello drammaturgico del figlio prodigo, del figlio ritrovato, ma è un modello molto limitato perché le motivazioni di un pentito possono essere mille. Prendere le ipotesi, anche ridicole e speculative, di questo pentito come l’unica prova di una sentenza che praticamente è un ergastolo, non ha niente a che fare con uno Stato di diritto.

Un modo per evitare queste ingiustizie sarebbe quello di intaccare la casta dei giudici, che raramente si giudicano (ad esempio, in Germania, nessuno dei giudici nazisti è stato processato): occorrerebbe creare un organismo internazionale di esperti che valuti questo processo, occorrerebbe lavorare per una giustizia, per un giudizio sulla giustizia.

Michnik: Siamo qui grazie all’evoluzione che ha subito la generazione mia e di Adriano Sofri, la generazione dei sessantottini, della rivolta, in Europa Occidentale come in Europa Orientale, con le debite differenze.

I rivoltosi di cui parliamo, in Europa orientale come in Europa occidentale, avevano in comune le seguenti due tesi del ’68: la prima è una frase celebre del comandante Ernesto Guevara: "Se il mondo è oggi come è, non voglio morire nel mio letto". La seconda si leggeva sui muri di Parigi ed è un invito al realismo: "Bisogna volere l’inimmaginabile". Noi rivoltosi polacchi lottavamo per le libertà elementari più banali, come la libertà di religione: questo ci ha fatto incontrare Adriano Sofri e la sua grandezza morale, nelle azioni da lui organizzate con i mezzi di comunicazione di massa a favore dell’amnistia per i prigionieri politici in Polonia, e nell’appoggio materiale e finanziario da lui organizzato ed offerto.

Brandirali: La parola "radicalismo" è per me e per la mia storia la grande questione, perché ho dovuto scomporre questo modo di stare nella vita, questo momento giovanile, quando mi sono sentito colpito da una difficoltà umana più profonda. Avevo il desiderio di non spegnere l’ardore di quel radicalismo e nello stesso tempo di trovare risposte alle domande, risposte capaci di sostituire quella astrazione che invece non era in sé radicalismo, era astrattezza, incapacità di rapporto con la realtà.

Il mio movimento "Servire il popolo" era chiamato dagli amici di Lotta continua "servire il pollo", perché era considerato allucinante questo modo di essere di quelli di "servire il popolo", anche se noi che lo abbiamo percorso ne conoscevamo le pulsazioni interne. Dietro la stupidaggine della forma espressiva, delle montagne di volantini, documenti, testi, controtesti, nostri, vostri, nulla si è salvato e nulla si salva. Prendiamo atto di questo. Forse è questo che veramente caratterizza quella consapevolezza dei limiti. Certo è tenero questo accettare il limite umano ed è insieme il primo gesto di riconoscimento dell’astrattezza e della inadeguatezza dell’impianto culturale e teorico rispetto al desiderio e all’esperienza umana. Ma il limite e l’accettazione del limite aprono a una presenza più semplice, più umana, che porta questa capacità di iniziativa, di solidarietà, di sostegno, di aiuto, di responsabilità della persona dentro la vita.

L’ultima parola non è accettare il limite, altrimenti bisognerebbe spegnere quel cuore ardente giovanile, mentre la nostra generazione non può e non vuole invecchiare sino a che non ha concluso questa risposta. Il movimento "Popolo e libertà" non sembra molto diverso da "Servire il popolo", invece è diverso perché non è più una teoria, ma una presenza protesa a portare dentro la vita pubblica l’intensità ideale di testimonianza di qualche cosa di vero che si vede, che si tocca con le mani, che si sente, che si è incontrato, che caratterizza il fondo vero della vita degli uomini.

Risset: Pietrostefani, Sofri e Bompressi, e la loro condanna, fanno una azione sulla riflessione sulla giustizia di grande aiuto: il rintracciare il tragitto dell’intellettuale Adriano Sofri dal ’68 ad oggi come un esempio di maturazione.

Sofri fa qualche cosa di più (anche nei numerosi libri da lui scritti) di una semplice riflessione sulla sua storia di rivoluzionario che ha cambiato il suo pensiero: la sua è piuttosto una riflessione sulla possibilità e la necessità di una sinistra oggi che capisca qualche cosa di più dell’umano, ed è una riflessione di una utilità e di una preziosità senza uguali in questo momento. Sofri continua questo lavoro anche dal carcere, al quale ingiustamente, iniquamente, è condannato: il lavoro è il tentativo di ridare alla giustizia, che ha preso in questo periodo un senso talmente punitivo e penalista, il suo senso originario.

Bonacina: Nell’amicizia con Sofri, posso testimoniare che l’accettazione della consapevolezza dei limiti non è mai stata un arrendersi al cinismo, alla non speranza, non è mai stata immobilismo, nel suo lavoro, nei suoi viaggi, nei suoi gesti. Dice Giussani citando Jean Guitton: "Ragionevole è colui che sottomette la ragione all’esperienza"; nel cammino che ho conosciuto di Adriano Sofri c’è proprio questo, questo passaggio dall’utopia alla realtà, questa voglia di ripartire dalla realtà, dalla persona, dal rispetto verso l’alterità del reale, dell’altra persona: questa passione al destino dell’altro.

Ginzburg: Mi ha sempre colpito l’atteggiamento di Sofri di non voler rinnegare il proprio passato. Mi pare una forma molto alta di atteggiamento: non è narcisismo, ma il rispetto per il se stesso diverso che si è stati.

La ricchezza d’animo comunicata dal modo in cui queste tre persone sono andate in carcere, non è una prova della loro innocenza, perché questa innocenza viene prima. Ero certissimo dell’innocenza di Adriano da sempre, però dopo il primo processo ho cercato di fare qualcosa di utile utilizzando gli strumenti del mio mestiere. Così ho studiato le migliaia di pagine che costituiscono gli atti processuali, e in questo modo mi sono convinto anche dell’innocenza di due persone che non conoscevo personalmente, per le quali dunque non c’era quell’immediata certezza umana che precede qualsiasi prova. Adriano Sofri, Giorgio Pietrostefani e Ovidio Bompressi non sono colpevoli, contro queste persone non vi è nulla, non vi sono prove, esiste soltanto la parola di Leonardo Marino, non voglio usare nemmeno tra virgolette la parola "pentito", parola ripugnante che non ha nulla a che fare con il pentimento.

L’innocenza di queste persone fa sì che questo processo sia uno scandalo, la sentenza che ha condannato queste persone, è una sentenza scandalosa, una vergogna per il nostro paese.