Uscire: esperienze oltre la droga

Domenica 25, ore 15

Incontro con:

Giancarlo Zappa

Paolo Biondi

Antonio Mazzi

Oreste Benzi

Moderatore:

Aldo Brandirali

 

Brandirali: Abbiamo messo questo titolo non perché vogliamo rinchiuderci nello specialismo terapeutico del problema di una particolare malattia dell’uomo, ma per un passo di realismo, di sguardo che ricorda cosa accade intorno a noi. Il problema non è la soluzione politica, ma che non possiamo ragionare di fronte al bisogno dell’uomo e al dramma della vita moderna dell’uomo senza considerarci parte di questo dramma.

Chiedo al dott. Zappa, magistrato, che cosa sta succedendo in carcere dal punto di vista del problema droga.

Giancarlo Zappa, magistrato di sorveglianza nelle carceri di Brescia e Bergamo.

Zappa: Dal punto di vista legislativo il nostro Paese, con la legge 162 del 26 giugno 1990, si è adeguato ad una convenzione internazionale stipulata nel seno delle Nazioni Unite nel dicembre 1988. Essa ci vincola a considerare reato ogni detenzione di droga anche se di modica entità. Però qualora la dose non sia superiore a quella media giornaliera, al carcere viene sostituita una sanzione amministrativa: la sospensione della patente e del passaporto, di competenza del Prefetto. La Corte Costituzionale ha invitato i giudici a stabilire se il tossicodipendente fosse consapevole che la dose che egli deteneva fosse superiore a quella media giornaliera. Ovviamente non è facile stabilirlo e per questo la Corte ha invitato il legislatore a migliorare questa legge.

Detto questo a me corre anche l’obbligo di sottolineare una cosa di carattere generale. Nel nostro sistema è impensabile un divieto che non abbia una sanzione. La legge 162 ha emesso una sanzione amministrativa, che è di competenza del prefetto, per coloro che vengono colti a detenere una quantità di sostanza non superiore alla dose media giornaliera, mentre ha riservato a tutti gli altri la reclusione. Ci chiediamo: che cosa significa la pena nei confronti di un tossicodipendente? a cosa può servire? Innanzitutto, dice la 162, la pena deve avere un potere di dissuasione. Su questo punto nutro gravi perplessità, perché è facile dissuadere chi non è tossicodipendente a non usare lo stupefacente, ma io so bene che chi è tossicodipendente non si cura né della legge né del carcere perché rischia la vita. La conseguenza è che purtroppo nelle nostre carceri i tossicodipendenti stanno aumentanto in numero considerevole, e costituiscono già oltre la metà dei detenuti.

Io credo che il vero tossicodipendente sia un soggetto che deve essere curato. Anche il legislatore si è reso conto che il carcere tradizionale non è assolutamente adatto al tossicodipendente e che la cura e la riabilitazione del tossicodipendente non sono e non possono essere di competenza dell’amministrazione penitenziaria, ma richiedono l’intervento di molteplici realtà istituzionali, dal Ministero della Sanità agli enti locali, e soprattutto, le unità socio-sanitarie locali, in particolare i Servizi per le Tossicodipendenze che mi auguro vengano presto attuati.

Paolo Biondi, giornalista de Il Sabato, redattore della rubrica Uscire.

Biondi: Cerco di raccontarvi come dall’esterno ho incontrato il problema della tossicodipendenza e ho visto nascere il dibattito attorno alla legge. Uscire, l’inserto de Il Sabato dedicato alla tossicodipendenza, è nato nel novembre ‘88 dalla considerazione che sui giornali italiani si parlava sicuramente tanto di droga, sotto tanti punti di vista, ma nessuno si stava accorgendo di una realtà che era ormai nata e che era viva nel nostro paese, con molti aspetti umanamente e socialmente rilevanti, la realtà delle comunità terapeutiche e del volontariato che lavorava per il recupero dei tossicodipendenti. Il nostro tentativo è stato quello di raccontare quanto stava succedendo per consentire al maggior numero di gente possibile di incontrare queste esperienze, tutte le esperienze.

Ci siamo trovati subito nel bel mezzo del dibattito sulla legge. Ricordo che il problema della legge, così come gli amici delle comunità terapeutiche me lo raccontavano allora, era legato sostanzialmente attorno a tre punti. Il primo era quello della liceità, ed è il problema che ha attirato su di sé l’attenzione di quasi tutto il dibattito, anche all’interno delle comunità. Don Ciotti era nettamente contrario ad una legge che stabilisse la non liceità del drogarsi. Il secondo aspetto era che per la prima volta, probabilmente, una legge dello Stato avrebbe dato un riconoscimento a questa interessantissima realtà delle comunità terapeutiche. Fino al 1989, nel nostro paese c’era un’assoluta mancanza dal punto di vista legislativo rispetto alla realtà della droga, così come si presentava, e quindi le comunità aspettavano un riconoscimento da parte dello Stato, e, all’interno di questo riconoscimento – era il terzo punto – volevano che lo Stato affrontasse e risolvesse un problema molto grave con cui si trovavano e si trovano tuttora a fare i conti, il rapporto delle comunità di recupero dei tossicodipendenti e il carcere. La realtà più drammatica che c’era allora, e che purtroppo continua ad esserci malgrado la legge, è che spesso i responsabili delle comunità si trovavano i poliziotti dentro la comunità a portare via i loro ragazzi che stavano facendo, magari anche proficuamente, un cammino terapeutico.

Se adesso vogliamo provare a fare un bilancio, a due anni dall’entrata in vigore della legge, la cosa più sconcertante che emerge è il dato della repressione, cioè la legge rimette completamente all’istituzione carcere la soluzione di un problema così drammatico.

Vorrei finire con una annotazione personale. Facendo il giornalista si affrontano tanti temi, e li si può affrontare ovviamente sia coinvolgendosi che rimanendo degli spettatori abbastanza asettici. Nei mesi e negli anni e tutte le volte che mi sono occupato del tema della droga, mi sono accorto che questo non era assolutamente possibile. Dico questo anche per un debito di gratitudine nei confronti delle persone che sono con me dietro questo tavolo. Chiunque abbia avuto a che fare con questo problema, si sarà accorto che è impossibile parlarne rimanendo estranei, soprattutto perché quasi sempre, o comunque nella maggioranza dei casi, il tossicodipendente è una persona che si è trovata o si trova tuttora in quella situazione che un sacerdote mio amico chiamava "la vertigine sul baratro del proprio nulla". È una vertigine da cui si può uscire in due modi: o con la disperazione o con una domanda sincera e autentica quando si intravede una possibilità di risposta. Davanti ad una persona che vive questa situazione è impossibile barare. Coinvolgersi, essere sinceri, essere quello che si è, fino in fondo, davanti a queste persone è una necessità. Se per me, giornalista, lo è stato in alcune ore, o lo è in alcune ore della mia vita, del mio lavoro, capisco che per queste persone come don Mazzi e don Benzi è una posizione normale della vita; diversamente non potrebbero fare, non potrebbero realizzare quello che fanno. Volevo quindi finire questo mio intervento con un "grazie" per le loro esperienze e la testimonianza che sono per tutti noi e che abbiamo cercato in tutti questi anni, e continuiamo a cercare, di raccontare con il nostro lavoro.

Sacerdote dell’Opera Don Calabria, don Antonio Mazzi ha ideato nel 1981 il Progetto Exodus per il recupero dei tossicodipendenti. Attualmente l’attività di prevenzione e di riabilitazione è estesa ai diversi campi della grave marginalità sociale.

Mazzi: Parlare di droga per noi è sempre doloroso, è come se dovessimo parlare di qualche figlio che ci scappa dal seno o che muore prematuramente.

Pensando alla parabola della pecorella smarrita ho fatto delle riflessioni sull’Avvenire, dicendo che c’è un pastore che perde una pecorella ma ne tiene 99; ci sono invece alcuni pastori che perdono 99 pecore e ne tengono una. Capita a noi; c’è qualche pastore che al mattino si alza e non ne trova neanche una. Sapete cosa vuol dire neanche una? Compresi gli operatori! Immaginavo il buon pastore che torna indietro dopo che è andato a recuperare la pecora smarrita e la pecora che gli racconta: "Il lupo mi rincorreva, fortuna che sei arrivato tu!" e il pastore, poverino, che la coccolava e la riportava dentro, la riportava nell’ovile. Arrivato nell’ovile gli altri suoi amici hanno detto: "Adesso chiuderai bene l’ovile, non lascerai la porta aperta, non sarai mica matto a lasciare i buchi nell’ovile, fai il giro che non scappi via un’altra pecora". Allora lui ha messo giù la pecora e ha cominciato a guardare dove erano i buchi, poi ad un certo momento si è domandato: "Ma è giusto che io chiuda i buchi, è giusto che tenga dentro una pecora perché non ci sono i buchi per fuggire, perché non può scappare, perché è prigioniera? una pecora sta con me perché mi vuole bene o perché è incatenata?". Questo è il dilemma nel quale ci troviamo noi educatori di comunità. In Italia ci sono due tipi di comunità: quelle che costringono i ragazzi a star dentro e quelle che tentano in qualche maniera di tenerli dentro perché lo vogliono, contro i genitori, contro l’opinione pubblica, contro le unità sanitarie locali, contro tutti. La mia domanda è proprio qui, a voi giovani che discutete su Antigone. Certo, è bello discutere su Antigone, là, di notte, con le luci, con Branciaroli, ma quando dovete decidere se accettare o no lo spinello, se non siete preparati a dire un "sì" o un "no" giusto, da quel momento comincia la vostra disfatta; da quel momento avete una libertà parziale per non avere avuto il coraggio di accettare una libertà totale, perché la vera libertà è quella che costa, è quella che non ti fa dormire, è quella che ti fa soffrire, è quella che capisce cosa perdi, ma che ti fa capire anche cosa guadagni.

In una bellissima paraboletta, Il diavolo ed il suo amico, si dice che una volta il diavolo andò a passeggio con un amico. Videro un uomo davanti a loro che si chinava e raccoglieva qualcosa dalla strada. 'Cosa ha trovato quell’uomo?' chiese l’amico. 'Un pezzo di verità' disse il diavolo. 'E non ti dispiace?' dice l’amico. 'No' disse il diavolo 'gli permetterò di farne un credo religioso'". Perché con un pezzo di libertà si fa un credo religioso, ma non si conquista la fede. La fede la si conquista sposando tutta la libertà, e molte volte voi giovani, noi adulti, entriamo nella droga perché preferiamo mezza libertà. Allora permettetemi, ragazzi, che il primo messaggio che vi dò oggi sia questo: ognuno di voi nella vita deve dire un "sì" o un "no" importante; che riguardi la droga o l’amore, la violenza o il fariseismo o la fede, non importa. Ci sono alcuni "sì" o "no" nella vita che si ha il coraggio di dire se si è pronti a sposare la libertà intera e sapere che la libertà costa, che la libertà non è figlia della festa, ma della croce. Dopo arriverà la festa, ma prima passa dalla croce.

Secondo. Per evitare la banalità di andare per le scorciatoie parlando della droga, io direi che, trasversalmente, ci sono alcuni temi che vanno letti insieme:

a) Non si fa prevenzione, non si fa recupero, non si fa terapia se non si convincono i ragazzi, ma anche noi, che siamo figli di un progetto globale; non siamo figli di frammenti di storia, di pezzi di egoismo, siamo figli di un progetto che è stato scritto da Dio, al quale noi apparteniamo e senza il nostro contributo quel progetto non si realizza;

b) l’adulto deve testimoniare al giovane che esiste un progetto;

c) i genitori devono essere capaci non di possedere i figli, ma di indicargli come vivere un progetto che è già scritto nella storia.

Soltanto così, adulti e giovani insieme, riusciremo a prevenire, ad educare, a reinserire nella società i tossicodipendenti e i giovani.

Delle cose della comunità che dobbiamo riscoprire io ve ne cito tre, molto semplici. Una sembra addirittura banale: la riscoperta della parola. La parola nostra è una parola farisaica, camuffata, una parola prigioniera di manie, di ideologia. Ognuno di noi ha una parola raffinata, sofisticata, che comunque è una parola mascherata. Se noi scoprissimo la parola all’interno della comunicazione familiare, sociale, credo che questa sarebbe una grandissima terapia, una grandissima prevenzione e sarebbe una grandissima strategia, anche perché la parola suppone un altro movimento che è il silenzio. Siamo orfani di due grandi momenti: del momento della parola vera e del momento del silenzio. Nessuna parola nasce se non ha la radice del silenzio e nessun silenzio è vero se non scoppia in una parola vera.

Un secondo momento è la scoperta della gratuità. Questo mondo va verso la morte, perché tutto quello che facciamo ha il costo del denaro. Se non scopriamo insieme la gratuità, se non riusciamo a liberarci da questa schiavitù, che tutte le cose devono avere un costo e quindi devono essere quantificate dal punto di vista del denaro, noi siamo posti nel maligno. Abbiamo fatto il grave errore di togliere la parola a dei nostri fratelli e se c’è qualcuno che ha bisogno di parole in questo momento è proprio il tossicodipendente, il carcerato, l’ammalato di AIDS. Ma chi di noi ha il coraggio di andare a parlare con questa gente? Eppure dobbiamo tornare a parlare con questa gente, non per convertirla, solo parlare e dire: "ti voglio bene, so che ci sei, sto volentieri una sera con te, capisco che io porto a casa qualche cosa quando io torno da te, sono più ricco quando vengo da te che quando vado a trovare i mei amici".

Un terzo elemento è l’attenzione alle povertà. In questo momento un gruppo di ex tossicodipendenti è in Romania. Stanno facendo la terapia comunitaria vivendo a contatto con degli invalidi fisici molto gravi che non hanno da mangiare né da dormire, mangiano la cacca che fanno, non hanno acqua. Stanno facendo questa esperienza di comunità là per incontrarsi con il povero e condividerlo 24 ore su 24; anche un tossicodipendente può salvarsi nel momento che comprende che è tanto povero ma non a tal punto da non essere ricco per un bambino rumeno. Chi si accorge che è ricco, anche se è tossicodipendente, che ha qualcosa che può dare, da quel momento inizia la sua vera terapia, rinasce, perché capisce che dentro di sé non tutto è distrutto.

Chiudo con questa nota. Tre giorni fa eravamo tutti incollati alla televisione per la paura che i carri armati dei golpisti cominciassero a far morire i cento o duecentomila che c’erano nella piazza a Mosca. Siamo tutti preoccupati per quelle morti, ma forse non siamo altrettanto preoccupati in questo momento di quello che sta succedendo, supponiamo, in America, dove un libro che insegna come ci si può suicidare è diventato il bestseller dei libri americani. Allora mi domando: ci preoccupa di più una società che ammazza i propri figli con i carri armati o ci preoccupa di più una società che ammazza i propri figli insegnando come ci si suicida? Io credo che dobbiamo cominciare a riflettere su questo altro tipo di società, la società dell’Ovest.

Nato nel 1925, don Oreste Benzi è sacerdote dal 1949.

Nel 1968 con un gruppo di giovani e con alcuni sacerdoti costituisce l’Associazione Papa Giovanni XXIII che ha come scopo l’attenzione agli "ultimi", adolescenti, handicappati e tossicodipendenti. Risale al 1972 l’apertura della prima casa-famiglia per l’accoglienza di "persone che nella vita non saprebbero cavarsela da sole".

Benzi: Una delle scoperte che più mi colpisce è questa: dal 70 all’80% dei giovani che fanno uso di sostanze pesanti, eroina, cocaina etc., sono lavoratori. Ho chiesto: "Perché?". Un giovane mi ha risposto: "Perché dietro la macchina la mia vita era già finita. Io non avevo futuro". E perché gli studenti sono meno? La risposta è sempre di questi giovani lavoratori: "Ma loro hanno ancora la possibilità di un qualcosa in più!". Perché o si è compartecipi di un progetto unico e universale o ci si sente usati: i lavoratori si sentono usati. Di chi la colpa? Voi che siete studenti o universitari o insegnanti avete in questo senso una possibilità enorme, un nuovo tipo di società. Qual è la società? È quella del Corpo Mistico di Cristo; ognuno di noi è membro del corpo di Cristo e il corpo di Cristo è la Chiesa che è la pienezza di Lui, in cui non c’è uno diverso dall’altro, ma si è insieme per portare avanti una vita insieme. Io non trovo la fantasia di creare uno stile di vita dove non c’è più il lavoratore e lo studente, l’operaio, siamo stati uccisi da queste categorie. Abbiate la fantasia dello Spirito Santo, sta a voi. Cosa dice Minucio Felice nell’Ottavio, 250 anni dopo Cristo? Rimproveravano i cristiani perché erano così sciocchi che quando si vedevano si facevano festa senza neanche conoscersi. Ottavio risponde: "Per noi incontrarsi è vederci, noi ci conosciamo ancora prima di incontrarci". Date gloria a Dio, siate sempre così, in una speranza infinita. Non vivete per voi. Vedo tanti giovani studenti, universitari che hanno una fretta di sistemarsi e poi entrano nel numero dei più, il cimitero. Ma Dio è il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, Dio non è il Dio dei morti è il Dio dei vivi.

"Dietro la macchina": quanto mi ha colpito questa parola. Io tengo le relazioni dei ragazzi; ad un certo punto gli chiediamo di scrivere la loro storia; e le conservo tutte nel grande libro della vita; sono stupende.

Per me il punto drammatico è qui: manca una correlazione fra le membra che costituiscono la vita che è il Corpo Mistico di Cristo. Tu sei il corpo di Cristo, lo vuoi capire? Leggete Paolo, prima lettera ai Corinti – cap. X e XI.

Il dramma è qui. Chi resiste a sentirsi utilizzato? C’è la ribellione; mi dicono: la vita non mi interessava più, non ho più speranza, non ha più possibilità, la mia vita dietro la macchina è segnata. Giovani studenti, universitari, professori, smettetela di fare gli insegnanti, fate i magistri; facciamo le scuole insieme, lavoratori e studenti. Voi direte: "Tu sei matto!". Forse sono uscito dal manicomio. Mi capite che cosa voglio dire? Il manicomio è da un’altra parte. Perché tutto è ordine, tutto è stabilito, tutto è fatto così! S. Francesco d’Assisi spezza quell’ordine, esce fuori, nudo, e si sono scandalizzati quelli del suo tempo, ha dovuto rompere l’ordine per stabilire un altro ordine, l’ordine dell’amore, della vita, della creazione.

Permettetemi dei brevi quadri. Attento fratello mio, ricordatelo sempre che tu conosci soltanto chi ami e basta, il resto lo vedi, ma non conosci. Io lo vedo nelle nostre comunità di condivisione, sia nelle case-famiglia che nelle comunità terapeutiche. In una comunità ho detto: "Il primo operatore della comunità è la Stefi, una bimba plurihandicappata gravissima, e l’ultima iscritta è la Mumba, una bimba di sette anni che muore con l’AIDS". Sono i grandi maestri che fanno ritornare la voglia di vivere. Allargate le coscienze, tutti voi siete responsabili di un progetto universale, diceva don Antonio, che ci ha dato Dio, ma in quel progetto non vi sono da una parte gli studenti, da una parte gli avvocati, le caste. Guai a chi si avvicina alle caste: le caste degli ingegneri, degli avvocati, dei netturbini. Rompete queste cose! Non c’è più né greco né barbaro, siete uno solo in Cristo. Questa è la terapia: "Fammi sentire che io non ti porto i bidoni dell’immondizia" dice il netturbino "e non sono uno scaricatore delle tue porcherie, ma fammi sentire che io sono nella tua casa, nella tua famiglia". Questo per me è il sogno, la proiezione futura. La Chiesa ha una resposabilità che è unica e viene giudicata dalla storia, perché ha tutto la Chiesa, c’è tutto. Ha una responsabilità di fronte alla storia.

Secondo quadro: il 70% dei tossicodipendenti mentre si bucano, negli sprazzi di libertà, sono credenti in Dio. Un’altra statistica. I ragazzi a 11 anni hanno tutti l’idea di Dio Spirito, purissima. A 11 anni cominciano tutti ad allontanarsi dalla pratica religiosa. Perché? La risposta è di Gianfranco, cinque anni di eroina: "Io ho sempre creduto in Dio, anzi litigavo con Lui, lo ritengo resposabile di tutto, però gli sono sempre più attaccato, ma dieci anni dopo la cresima devo trovare un altro modo di congiungermi con Dio e nessuno me lo ha insegnato. Tutto quello che mi proponevano non mi interessava. Ho buttato via tutto, ma non ho buttato via Dio".

Il drogato è uno che crede di non avere qualcosa per essere qualcuno, ma in realtà, in profondità, il drogato è colui che non ha trovato qualcuno per poter avere il coraggio di vivere ancora. L’altra sera Vincenzo, cinque anni di eroina, uscito, che ha fatto una battaglia grande perché non gli volevano dare un bambino in affidamento in quanto ex tossicodipendente, mi ha detto: "Don Oreste, se non ci fosse Dio, tutti i motivi che portano per uscire dalla droga ce se ne fotte alla grande perché non siamo degli stupidi".

Terzo quadro: società senza padri. Noi andiamo verso una maternalizzazione della società. Il distacco dalla madre sui 4/5 anni non avviene più. Perché i ragazzi vanno a fare i picciotti nella ‘ndrangheta, nella mafia, ad ammazzare per poche centinaia di migliaia di lire? Nell’età dell’adolescenza si formano le regole vita: ma come fai a formarti le regole di vita se tu non hai punti di riferimento sicuri? È impossibile. Chi sono i ragazzi rovinati sul piano psichico? Sono quelli che o gli lasci far tutto o non gli lasci far niente. Questa società lascia far tutto. Che cosa è la morale oggi? È l’igiene. Ecco dove siamo ridotti! I giovani non credono più a niente, non sanno più che cosa è bene e cosa è male. Cos’è la libertà? La libertà è soltanto la capacità di scegliere il bene, al di fuori di questo c’è la schiavitù. La Madonna non poteva peccare, ma era la massimamente libera. Dio non può peccare, è la libertà assoluta; Cristo non poteva peccare. Non mi venite a dire che la libertà è la capacità di fare il bene e il male, come se la libertà fosse la capacità di lasciarsi mettere in galera, ma sappiate vedere nel peccato il messaggio di positivo che c’è, perché non riduciate l’uomo al suo peccato, ma perché lo riduciate a un uomo che cercava, ma non ha trovato: è per questo che Cristo lo rincorre e lascia aperto il buco. Ci prende anche gusto, sai, don Antonio, a corrergli dietro, perché si sente padre anche lui.

Ultima cosa: noi abbiamo comunità terapeutiche: sono stupende. Io benedico tutti i giorni il Signore quando mi alzo per quelli che chiamiamo "operatori", ma il nome non dice niente. Sono tutti giovani che danno la vita con la vita degli altri; altro è il servizio, nobile quanto vuoi, bello, però non convertirete mai nessuno con il servizio, si celebrerà la fede di Dio solo con la condivisione. Nella condivisione io devo convertirmi, nel servizio devo soltanto prestarmi.

Non mi dite: "Quello è un delinquente, quello è un omosessuale, quello è un ladro!". In ogni uomo c’è una fame di Dio! Io la trovo sempre. Sono andato a L’altro mondo questo inverno (spero di andare in altre discoteche), sono entrato nella pista, sono andato da quello che presentava e ho chiesto: "Da quanto non ti confessi più?". Lui: "Dieci anni". Dico: "C’è lavoro qui!". E ho continuato anche con gli altri della discoteca. Mi avvicinavo con la faccia di un fratello che ama un fratello: poi al bar mi sono messo a parlare con loro: c’era un coppia di Pesaro che aveva un bisogno di Dio... a me sembrava di essere un po’ meglio che alla messa, perché parlavo a mio agio e traducevo le parole in maniera che si capiva. Ho chiesto il microfono a Nassi, un mio amico: "Dai, dammi il microfono che vado a parlare a tutti". Hanno confabulato fra di loro e mi hanno detto: "No, perché ti fischiano!". Da una parte desideravo, ma dall’altra avevo anche fifa (cos’è il coraggio? Non è non aver paura, il coraggio è vincere la paura, la misura del coraggio è la misura della paura che si ha). Ad un certo punto mi hanno dato il microfono (io quando mi trovo in difficoltà mi affido alla Madonna), sono andato sulla pista sopraelevata, non so cosa dicevo, ho dato libertà allo Spirito Santo. Ad un certo momento, vedendo che tutti i giovani si avvicinavano e smettevano di parlare, hanno abbassato la musica e l’hanno tolta. Poi ho terminato andando in mezzo a loro, ho detto: "La vita è una cosa bellissima, non ve l’han data i vostri genitori, ve l’hanno trasmessa, non l’avete creata voi, ve l’ha data Dio. La vita è una cosa bella, facciamo un applauso al Signore". Hanno applaudito al Signore. Ho detto, e ve lo lascio come messaggio: "Che vi pigliasse tutto il bene del mondo, ma che vi tormentasse Cristo e vi dicesse: ‘Dai, smettila di star fermo, chiuso dentro nel tuo guscio, scendi dal monte, vai! Non senti il pianto dei tuoi fratelli?’". Andando via mi sono venuti dietro, per loro è stata una vera apparizione dell’altro mondo. Mi sono venuti dietro, applaudivano, forse perché ero stato un numero speciale; io penso perché forse gli avevo ricordato il Signore. Uno è venuto e mi ha detto: "Padre, grazie che sei venuto. Come bisognerebbe che i padri venissero più spesso tra di noi". Poi ha aggiunto: "Non lasciateci soli!".

Brandirali: Ricordo che quando al mio movimento di maoisti Servire il popolo verso la fine del ‘75 abbiamo detto: "Tutti a casa, ragazzi, qui non si capisce più niente, ognuno ragioni con la sua testa", sei mesi dopo, sotto casa mia, in vari circolini che conoscevo, tutte quelle che erano le osterie underground della sinistra, eran diventati luoghi di spaccio di droga, ed è stata un’esplosione.

Finito l’ultimo filo di speranza in una dimensione di giustizia, di partecipazione, di sentirsi parte di popolo, di una comunità che cresce, che vibra, la solitudine è diventata qualcosa di spaventoso. Ci siamo arrabbiati quando abbiamo visto la guerra in quel modo; non abbiamo potuto aderire a questa idea di nuovo ordine mondiale, perché dentro nel cuore di questo nuovo ordine mondiale regna il principio fondamentale del disordine che è la concezione selettiva della società. Di fronte a questo impero della selezione una novità è presente, io la vedo, la sento, la vibro, non posso non riconoscere tutti i segni che continuamente incontro. Una novità è presente, non è solamente che i ragazzi nel farli uscire dalla droga hanno scoperto la parola "comunità", è che la parola "comunità" è viva in una dimensione ben più larga che il luogo speciale. C’è un movimento che vive di "scuole di comunità", che esprime continuamente la riscoperta di un ordine diverso, un ordine di appartenenza e nello stesso tempo di continuo incontro e apertura e in questa novità presente, è una storia di migliaia di fatti, di ragazzi che sono stati avvicinati, che hanno incontrato degli amici, che sono stati portati in un luogo dove si sono entusiasmati e che hanno superato un momento drammatico, e sono migliaia di fatti, piccoli fatti, che ovviamente non potranno essere ricondotti a un nome di comunità terapeutica, di metodo terapeutico, ma un’estesa possibilità, altra, di trama che si ricompone, di amicizia che trova un punto di richiamo e quindi una ragione di condivisione, di fuoriuscita dalla solitudine bruciante e inquietante.

Dico questo per dire che è tutto un movimento che partecipa di questa vicenda e che risponde, che è una novità che è attiva, operosa e che nel dramma umano interviene, sta facendo. Ci sentiamo non semplicemente davanti a personaggi eccezionali. Diciamolo profondamente: dentro la nostra compagnia, l’amicizia è un gesto che si esprime ogni giorno, che ritorna in ogni istante, è una possibilità che è la novità.