Mercoledì 24 agosto, ore 11

IL GRIDO DELL'ARTE DI UN MONDO SENZA SIMBOLI

Partecipano:

Massimo Cacciari

docente di Estetica presso l'Università di Venezia

William Congdon

pittore

Franz Meyer

critico d'arte, già docente di Storia dell'Arte contemporanea nelle Università di Basilea, Berna, Zurigo.

Conduce l'incontro:

Rodolfo Marzotto.

L'arte religiosa permette all'uomo di fare una delle esperienze fondamentali della sua esistenza: la "scoperta" del senso della vita. Il sacro si presenta nell'arte contemporanea in tutta la sua purezza e, quindi, evidenzia la sua drammaticità.

M. Cacciari:

Gli amici che sono intervenuti hanno già abbondantemente spiegato quanto una interpretazione in chiave semplicemente analitica, come si trattasse di un gioco dell'intelligenza, dell'arte contemporanea sia perlomeno limitata a riduttiva. Io ritengo invece che il sacro (su questo termine bisognerebbe aprire una infinita parentesi, perché con il termine sacro noi possiamo intendere cose non diverse, ma letteralmente opposte a seconda della lingua in cui diciamo il nome sacro) comunque lo si intende, sia irriconoscibile nell'arte contemporanea: è una affermazione falsa, erronea, di una persona che ignora il senso dell'arte contemporanea; ancora più falsa è l'affermazione secondo cui questo sacro si è mascherato in senso profano. Io sostengo la tesi esattamente opposta, cioè che il sacro si è tolto ogni maschera nell'arte contemporanea e forse non è mai risuonato così puro e così, quindi, tremendo. La prima cosa da cui bisogna però sgomberare ogni equivoco è un altro termine su cui devo soffermarmi, che è quello di simbolo. t evidente che il grido dell'arte contemporanea è senza simboli, se noi parliamo di simboli nel senso usuale, comune che è un senso classicistico, che non ha niente a che vedere col classico. E un senso che presuppone figure determinate, che presuppone l'arte come arte figurativa, diremo noi molto volgarmente, la presuppone come naturale, presuppone che simbolo significhi la fusione tra figure determinate, cioè l'addivenire di figure determinate ad una unità, ad una identità. Dicevano i grandi protagonisti dell'estetica classica: "Zeus è il fulmine". Abbiamo la figura di Zeus e la figura del fulmine e queste due figure, ognuna precisamente denotabile, potevano essere fuse nel simbolo, che era la fusione di entità figurative denotate. Questa è l'estetica classicistica, che è totalmente estranea al vero classico, alla grande tradizione teologica cristiana, all'arte contemporanea che ha del simbolo un'idea molto più originaria, molto più radicale, profonda di quella che evidentemente aveva in testa colui che ha titolato l'incontro di oggi. Qual è questa idea? Che nel simbolo si connettono gli opposti. Come sa tutta la filosofia tragica dei greci, come tra i contemporanei hanno saputo solo alcuni (Hólderlin, ad esempio) che hanno riattinto a questa idea originaria del simbolo come ciò che connette. E esattamente l'opposto di una filosofia dell'identità, di una filosofia della fusione, è una guerra civile interna all'anima, non una guerra contro il barbaro l'estraneo, l'esterno. Quindi nel simbolo voi dovete sentire tutta questa violenza, non soltanto l'armonia, ma l'arma. Nel connettere del simbolo, dovete sentire e vedere la mano che afferra qualcosa e ne fa parte, se ne appropria e l'annette e questa cosa rifugge nell'essere annessa: questo è il simbolo greco, il simbolo tragico, il simbolo di Eraclito, il simbolo della grande filosofia tragica. Tra i contemporanei, Ghoete vede sicuramente questo abisso del simbolo classico, ma ne rifugge, non vuole guastare la sua immagine olimpica. Io ritengo che l'arte contemporanea sia davvero simbolica, perché ci ha liberato, ha spazzato via il campo, purificato l'aria della connessione assolutamente falsa del una certa cultura laica moderna quattrocinquecentesca aveva imposto, connettendo l'idea del simbolo all'idea di figurazione, di semplice armonia, eliminando l'aspetto polemico che vi è nell'armonia. Così io intendo il simbolo e così, ritengo, lo intenda tutta la grande arte del '900: una congiunzione di opposti. Questi opposti sono inseparabili: nel simbolo noi abbiamo due immagini, nel senso etimologico del termine, che non hanno nulla di figurativo. Possono essere benissimo immagini mentali opposte che, al limite, fanno guerra una con l'altra e che pure, nella loro opposizione, sono indisgiungibili. Questa è l'armonia di opposti. In che senso sono disgiungibili? Questo l'ha spiegato Hólderlin in pagine memorabili di commento alla tragedia greca. Se due immagini si contraddicono radicalmente, assolutamente, sono opposte, allora saranno inseparabili, perché ognuna delle due non potrà concepirsi se non per la sua opposizione all'altra: questo è H simbolo. Al simbolo giungiamo quando immaginiamo una opposizione, altro che l'armonia irenica pacificante che ancora abbiamo in mente. In ogni istante, in ogni momento della mia esistenza io non posso immaginarmi se non attraverso quella opposizione, io cioè, come dice Hólderlin sono il distinto, il separato dall'altro, l'opposto dell'altro, e in questo senso indisgiungibile da lui. Questo è il senso del simbolo che secondo me aiuta a capire alcuni dei significati più evidenti dell'arte contemporanea. Questo timbro tragico del simbolo vale per la tradizione cristiana oppure no? Questo è l'assillo del lavoro teorico. Quella assoluta separazione che crea l'indisgiungibílità delle due figure che si oppongono vale all'interno del crocefisso o del Gesù di Congdon? Ci aiuta a capirlo? E il nostro crocefisso, il nostro Gesù comprensibile all'interno di questa dimensione oppure lo dobbiamo intendere nel senso, direi facile, dell'armonia? C'è un versetto di Marco che occorrerebbe leggere con calma: dice "Credo", non dice, "cerco di credere", "credevo", "crederò". Qui e ora credo, non dice "fammi credere di più", ma "fammi credere meglio", afferma che crede e che è incredulo, che è pistos e apistos. Ecco un esempio straordinario di simbolo, esattamente come quello che dobbiamo ascoltare nel grido di Gesù, dello Jesus patibilis di Congdon che è uno dei nomi del Crocifisso. Dovremmo quindi cambiare il nostro titolo dicendo: il grido dell'arte, il grido del simbolo dell'arte in un mondo che ignora, questo è il significato del simbolo. Il grido del simbolo dell'arte, della forza simbolica che l'arte contemporanea ancora testimonia, in un mondo che invece pensa che la fede sia certezza che ci mette al riparo, in un mondo che ignora il significato radicale della libertà del Figlio e l'asservire continuamente a tutti gli enti possibili e immaginabili. Questo mondo ha in mente solo i simboli, quando li ha in mente, della pacificazione ireinica, sentimentale armonia.

W. Congdon:

Il mio lungo cammino attraverso la figura umana per giungere alla Croce, parte dallo studio della scultura nel disegno con Georges Demetrius degli Stati Uniti, dall'anno '35 al '40. Demetrius strutturò in me l'occhio nuovo, capace di inchiodare ogni cosa che vedo con l'autorità del corpo umano, che è paradigma e modello per ogni forma esistente. Scavate pure nei miei quadri e vedrete come l'autorità della forma è, in fondo, quella della struttura della figura umana. Dopo il mio Battesimo, nella chiesa cattolica di Assisi nel '59, la figura ritorna esplicita, nella forma e contenuto della Croce. È forse inevitabile che l'incontro con Cristo sia la scoperta sul dramma della Croce: questo incontro mi ha portato al Crocifisso tramite un ritorno alla figura. Da allora la figura non era mai più da vedere e da dipingere disgiunta dalla Croce, ed era in una tale identità con essa da diventare la stessa Croce, e la Croce il Corpo stesso di Cristo. Mi interessava non la figura in sé, ma la figura come Croce, in ciò che la Croce fa del Corpo di Cristo, cioè la trasfigurazione che Cristo fece di sé stesso dentro la Croce, la Sua resurrezione è la nostra redenzione. Questo ritorno all'esplicito della figura avviene dentro una dinamica di consumazione, destinato a cancellarla di nuovo: nel grido di Cristo tutto è consumato e nel grido dell'arte, di quella precisa arte nella quale io come pittore nacqui a New York nel'48, si consuma ogni simbolo, ormai non c'è più traccia della Croce sciolta in Cristo come la cera davanti al fuoco. Lo sparire della Croce come simbolo o forma riconoscibile, come segno, lascia libero il corpo di Cristo di sciogliersi via via fino a quel nulla che è il tutto, la risurrezione. Spogliate i miei crocifissi di ogni simbolo (mi domando se posso ancora chiamarli crocifissi): ho eliminato le braccia, i piedi e ogni particolare anatomico, ho eliminato la stessa Croce di Gesù, dipingo il corpo, testa, gambe, torace come una sola massa scura di morte ma interiormente luminosa dell'alba della nuova vita. Le braccia spariscono essendo solo serve di faccende utilitarie, hanno la funzione descrittiva di definire la Croce, ma sono esterne all'intima sofferenza di Gesù e così anche i piedi. Non elimino le gambe perché non esiste homo erectus senza le gambe. L'uomo può vivere senza le braccia, ma senza le gambe non può. Il grido dell'arte in un mondo senza simboli, è un grido che consuma ogni simbolo, ogni forma, "tutto è consumato" grida Gesù; la stessa croce assieme al corpo si fondono nella cieca massa di testa, torace, gambe. Tutto è consumato, tutto è assunto nell'attesa che la scintilla dell'alba della vita nuova, nascosta da quella scura massa di sepolcro, si incendi. Spesso negli anni '70 dicevo che tutto è vero come la croce è vera, la croce divenuta paradigma di ogni cosa in due sensi: la figura umana è paradigma per ogni forma che esiste, e vedere tutto come croce o ridurre tutto quel che vedo e ciò che dipingo alla croce e all’estrema conseguenza della croce, il punto dove la croce si inserì come profezia dello spogliamento. È stato l'avvenimento della stazione di Calcutta a confermare il crocefisso come profezia e maestro per la mia pittura e perciò per la mia vita. Nel vaporoso, agghiacciante vuoto della stazione in cui la struttura svanisce nello svanire dei corpi umani, sparsi per terra, non posso che vedere l'ultimo nervo nudo di Cristo sulla Croce. Vedo la riduzione del crocefisso come profezia per lo spogliamento di ogni simbolismo in tutta la mia pittura, compresi i quadri, apparentemente vuoti, degli ultimi sette anni (la bassa milanese). Questo spogliamento è avvenuto nella mia pittura come dono profetico, come segno di quello stesso spogliamento che deve avvenire nella mia vita, nel mio rapporto con me stesso. Emergono allora due momenti profetici per la mia pittura e per la mia vita: 1) l'avvenimento di Piazza San Marco a Venezia che ho dipinto dal '48 al '60, e 2) l'avvenimento della stazione di Calcutta che ho dipinto per tutto l'autunno del '74. Fra questi due avvenimenti spazia l'arco di tutta la pittura e della vita. Dalla Piazza S. Marco nasce il crocifisso in terra di simboli, mentre all'altro estremo dell'arco, la stazione di Calcutta, nasce la consumazione del crocifisso, spogliato ormai al nudo nervo della risurrezione. Qui risiede allora l'ultimo significato della mia, direi quasi, ossessione per la bellezza redentiva della grande piazza di Venezia la quale spesso, è stata come mia moglie e mia madre.

F. Meyer:

Ci siamo posti qui la questione del messaggio religioso nell'arte contemporanea. Se non guardiamo soltanto agli ultimi decenni, ma anche ad anni più remoti, fino a quelli della generazione dei primi pionieri di questo secolo, ci vengono in mente artisti e grup pi d'opere che indubbiamente trasmettono un tale messaggio. Basti pensare a Georges Rouault, il cui "Miserere" si è potuto vedere un anno fa proprio qui al Meeting, Marc Chagall con le sue acqueforti su temi biblici, nonché le tele e vetrate che le seguirono, Alexej Jawlensky con i "Volti del Salvatore" e le "Meditazioni", Max Beckmann, autore di coinvolgenti rappresentazioni della Passione, Henri Matisse e la Chapelle du Rosaire , Mark Rothko con la cappella ecumenica a Houston, Barnett Newman e le sue "Stations of the Cross" oppure, più vicini a noi, Joseph Beuys con le sculture della croce dei suoi esordi artistici e la cristologia integrata nella sua concezione fondamenta le della storia, oppure Georg Baselitz con quadri del 1984, raffiguranti il Crocifisso, la "vera icona" del volto di Gesù e le figure dei messi che narrano l'evento della salvezza. La presenza di un messaggio religioso viene suggerita sia dall'iconografia, sia dal contesto architettonico in cui le opere si inseriscono, o anche dal titolo imposto loro dall'autore. Laddove iconografia o schema architettonico si richiamano alla simbologia tradizionale, la seconda questione che oggi vogliamo affrontare diventa superflua, trattandosi in questo caso del rinnovarsi e della continuazione di una tradizione che fornisce così la prova della propria vitalità. Gli esempi citati, il cui elenco evidentemente potrebbe essere molto più vasto, risultano tuttavia privi di rapporti reciproci. In ogni singolo caso il carattere religioso scaturisce da premesse diverse, dipendenti sia dall'artista che dall'opera. Questi casi non si lasciano inquadrare in alcun movimento, all'interno del quale emergerebbe una determinata religiosità nuova. Esaminiamo dunque, per il momento, un indizio che non sia più né iconografico, né religioso-istituzionale. A questo punto ci si pone la questione, se l'arte di oggi risponda in certi casi alle aspettative, domande e difficoltà che possono essere definite "religiose" in quanto toccano il fondamento portante della nostra esistenza. La mente corre qui in primo luogo, ad un fenomeno risalente al XIX secolo e relativo all'effetto simbolico dell'arte. Nell'arte conosciamo bene quali simboli, alcuni segni, figure e schemi: l'aureola del Santo, la rappresentazione del Peccato Originale, le tre Grazie, lo Zodiaco. Anche gli edifici possono rappresentare significati immediati: il Tempio, la Cattedrale, il Palazzo. Solo più tardi questa valenza simbolica viene attribuita anche all'immagine in quanto tale; ciò avviene sulla scia della nuova concezione simbolica di preromantici e romantici, ispirata alla tradizione neoplatonica. Kant e Schiller da un lato e Goethe, Herder e Schelling dall'altro, riconoscevano come 'simbolo' esclusivamente la fusione intuitivamente afferrabile dello spirituale con il sensibile, di forma ed idea, e questo sia nei singoli segni iconografici, sia nell'opera d'arte nel suo complesso. Mi è impossibile ripercorrere in questa sede tutte le tappe di questo processo evolutivo. Un secolo dopo, comunque, appaiono determinate creazioni iconografiche a cui spetta un rango simbolico spirituale che ne fa l'esperienza di una visione globale del mondo, come ad esempio la "Montagne S.te-Victoire" o i "Grandi Bagnanti" di Cézanne, la "Notte stellata", oppure i "Girasoli" di Van Gogh. Naturalmente la forza visionaria e la nobiltà dell'immagine di un Leonardo o di un Grunewald non sono inferiori a queste; l'autonomia dell'arte figurativa moderna conferisce tuttavia alle opere di Cézanne o di Van Gogh un valore del tutto peculiare. Davanti a quadri come quelli citati si può fare una di quelle esperienze fondamentali che svelano al singolo un nuovo senso della propria esistenza - in evidente analogia all'esperienza religiosa. Numerose opere d'arte del XX secolo condividono questo carattere simbolico-spirituale; penso qui in primo luogo ai quadri di Malewitsch, Mondrian, Pollock e Newman. Qualche cosa per lo meno molto simile ci tocca anche di fronte ad opere di artisti appartenenti ai filoni del 'post-minimal'; cito a titolo d'esempio solo due nomi, le cui opere avete potuto conoscere un anno fa al Meeting di Rimini: Turell ed Irvin. È lecito parlare, come ho fatto io, di un'analogia con l'esperienza religiosa? Depone a favore di questa tesi, in primo luogo, l'energia che tali opere emanano come un'aura particolarissima, la loro sublimità, la sacralità, non retorica ed esteriore ma tutta intima in esse racchiuse; un secondo indizio è poi l'esperienza di pienezza, certezza e sicurezza che trasmettono. Alcune di queste immagini si riferiscono a fenomeni propri di questo mondo. Eppure da loro traspare anche un'altra realtà, non afferrabile con gli strumenti della nostra esistenza cosciente. Si tratta di manifestazioni di sconfinamento, espressione di un'esperienza della totalità, da intendere nel senso della psicologia junghiana quale spostamento dall'Io verso il centro del Sé. Nel panorama della storia dell'arte tali opere non occupano a priori un carattere particolare. Lo sfondamento dei confini di ciò che viene dominato razionalmente fa senz'altro parte dei compiti assegnati all'arte nel nostro secolo, così come ne fanno parte l'accusa e l'utopia o l'intento, affrontato dal Cubismo, di gettare un ponte tra quella concettualizzazione tecnologica che investe tutti gli aspetti della vita e la percezione sensibile, nonché quello, ancora più ardito, di creare dei nessi tra la dimensione inimmaginabile della conoscenza razionale della natura e la propria condizione imprescindibile di essere uomo, nonché la rigenerazione di tutte le capacità, man mano atrofizzate nel processo di civilizzazione, di instaurare rapporti con il proprio corpo, con la natura, con la società concreata e - come ho già accennato - con il sovrannaturale. Molte di queste funzioni particolari attribuite all'opera d'arte nel nostro secolo si sovrappongono e coagiscono. Uno dei casi più impressionanti di evocazione del sovrannaturale a me pare essere l'opera pittorica di Barnett Newman. In essa all'innovazione formale corrisponde la conquista di un nuovo significato. Parallelamente alle innovazioni formali dell'All-Over di Pollock, Newman introduce la forma globale da percepire come un tutt'uno, l'autonomia di quanto viene realizzato dalla pittura rispetto al vettore ed alla sua forma predeterminata, ed il carattere di evento di ciò che viene dipinto: la forma totale, percepita in maniera olistica, non può essere fatta derivare da dati preesistenti ma esiste semplicemente quale allargamento ed estensione di una superficie di colore puro. In relazione alla visione del mondo espressa da questa forma di opera d'arte, appare interessante un confronto con la pittura di Mondrian. In quest'ultima, l'ordine nasce quale strutturazione di qualche cosa di dato, nella cornice di un campo lasciato libero. Qui, invece, tutto è volto alla creazione del campo che scaturisce dal colore, dalla sua forza simbolica e dalla profondità del sentire. In entrambi i casi tuttavia, in Mondrian come in Newman (almeno così suppongo), ci troviamo di fronte a delle bozze che consentono all'osservatore di orientarsi in relazione al baratro apparentemente incolmabile tra esistenza individuale e cosmologia moderna. Per la loro funzione tali "immagini del mondo" sono pertanto paragonabili alle cattedrali del Medioevo, che come totalità simbolica stavano in un preciso rapporto con la concezione globale del mondo di allora, cioè quella di un universo inteso come teofania. All'inizio del mio intervento ho citato tra le opere di natura espressamente religiosa un ciclo dell'opera di Newman, intitolato "Stations of the Cross". Anche la pittura di Mondrian con le sue radici teosofiche è partecipe di una tradizione religiosa - con la differenza che in Newman il fatto religioso acquista un significato del tutto particolare, proprio in relazione alla cosmologia dell'artista, tutta tesa verso l'interiorità della totalità psichica. Newman lavora, come sapete, con strisce verticali che 'incidono' la continuità del colore; larghe bande di luce da un lato e scanditure sottili dall'altro che regolano il flusso del colore nell'estensione del campo, permettendo nello stesso tempo all'osservatore di entrare, per così dire, nel quadro, di partecipare ad esso dall'interno e che infine, nel loro rapporto reciproco e con il campo, assumono di per sé un significato simbolico. A partire dal 1949 i titoli che Newman scelse per questi quadri rievocano in alcuni casi eroi antichi, ma soprattutto eventi e figure dell'Antico Testamento quali "il giorno precedente il primo" ed "il primo giorno", riferiti alla Genesi, oppure "Adamo", "Eva", "L'alleanza", "Giosuè" e "Gerico". La posizione delle strisce verticali citate all'interno del campo corrisponde a questa tematica. A sinistra, di fronte al campo aperto, la presenza umana viene visualizzata da una larga banda giuzzante, ad esempio nel "Giosuè" a formato verticale, mentre nella parte destra del quadro, come nel bianco luminoso de "La Voce", strutturato orizzontalmente, una striscia sottile, molto decisa eppure incorporea, essa pure bianca, evoca l'altro, il diverso che l'uomo sente nel campo della propria esistenza quale interlocutore - in questo caso la voce di Dio. Dal 1958 e poi a piccoli gruppi fino al 1966, in seguito ad una profonda crisi esistenziale, Newman creò quattordici quadri di formato verticale, senza colori, che durante la loro gestazione acquistavano per l'artista sempre più il significato di "lemà sabactàni", l'invocazione rivolta al Padre: "Perché mi hai abbandonato?". In essi le strisce verticali nere, più tardi anche bianche, campeggiano su una superficie senza sfondo: inizialmente troviamo sempre una pesante banda nera sul bordo sinistro, ad esprimere la posizione di chi interroga; al centro della parte destra del quadro invece, sotto forma di strisce man mano diverse, prima puro raggio di luce e buio guizzante, poi come fenomeno intimante riverenza e timore, la presenza dell’interlocutore divino. Questi quadri comunicano un'esperienza religiosa di fondo corrispondente senz'altro alla tradizione giudaico-cristiana, ma che rinuncia a qualsiasi simbologia tradizionale. Emerge qui chiaramente anche l'analogia con la teoria citata dell'interezza del sé della psiche, al cui interno sono possibili la conoscenza del mondo e quella di Dio. Ma non abbiamo forse di fronte un messaggio ermetico, dal quale ben difficilmente ci si potrà attendere un effetto reale? Permettetemi di rispondere a questa osservazione con una frase di Nietzsche: "I pensieri che giungono su piedi sordi reggono il mondo". È lecito accennare pure al prestigio di cui oggi godono i quadri un tempo disprezzati di Cézanne o Van Gogh. L'enorme successo di mostre, come ad esempio la retrospettiva dedicata a Van Gogh a Roma, ed i prezzi spettacolari raggiunti dalle loro opere messe all'asta sono certo fatti esteriori, ma dimostrano concretamente l'inaudita credibilità di una visione del mondo materializzata in quelle tele, che racchiude anche l'elemento portante della nostra esistenza.