mercoledì 29 agosto, ore 11 00

THOMAS BECKET: MORALITA’ E SANTITA’

Incontro con:

Inos Biffi

Docente di Storia della Teologia Medioevale e Moderna presso. la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale

Vittorio Mathieu

Docente di Filosofia Morale presso l’università di Torino

Antonio Sicari

Docente di Teologia Dogmatica nello Studio Teologico Carmelitano di Brescia

Modera:

Luigi Negri

L. Negri:

Questa tavola rotonda intende offrire una serie di prospettive per leggere in profondità questa vicenda di confronto e di scontro fra la libertà religiosa e la realtà politica che sono implicate nella vicenda di S. Tommaso Becket. Ci aiuteranno in questo lavoro di lettura, d’interpretazione, di comprensione della vicenda di S. Tommaso Becket, tre personalità di grande rilievo ed il primo a parlare sarà Monsignor Biffi che ci proporrà una lettura di carattere storico critico e teologico, dell'itinerario di San Tommaso Becket.

I. Biffi:

Tommaso Becket, o la santità in attesa, o il miracolo assoluto della Grazia. Ogni santo nasce quando muore, sorge allora per lui il "Dies Natalis", ed è Natale quando avviene l'ultima e definitiva comunione con Cristo, il consenso alla sua morte. Allora veramente la Grazia vince la natura consumandola in un fuoco che è morte e resurrezione; allora non tanto la ragione raggiunge il suo vertice, quanto la ragione di Dio, la sua giustizia, assumono e trasformano la ragione dell’uomo. La santità, che è sempre un martirio perché è sequela dietro il crocifisso, è la ragione di Dio, di fronte alla quale la ragione umana rimane perplessa ed allibita, incerta e dolente. Ci sono nell’epistolario di Becket pagine, o meglio brani, che potremmo dire di spiritualità che si concentrano nella contemplazione del crocifisso e del suo sangue da cui nasce la Chiesa sposa. Esse significano ed esprimono, come vedremo, l’emergere della ragione cristiana nel suo faticoso e travagliato ingresso nella ragione di Tommaso Becket. Ma registriamo le tappe principali di questa esistenza che ha suscitato perplessità, opposizioni e consensi in vita e in morte, apparendo come la figura forse più tragica e più enigmatica del Medioevo. Nacque a Londra da genitori normanni, il 21 dicembre, (giorno dedicato a S. Tommaso apostolo), del 1120. Nella sua memoria, secondo i biografi, affiorerà il ricordo della madre dalla quale, egli diceva, imparò a temere il Signore ed ad invocare teneramente la beata Vergine come guida delle sue vie e patrona della sua vita. E a riporre in Lei, dopo Cristo, tutta la sua fiducia. La leggenda, che spesso è un esegeta molto fine della storia, attribuisce alla madre un sogno dove le è dato di vedere avvolgere Tommaso in un palio interminabile. Il palio era l’insegna dell’Arcivescovo. Il suo ricordo avrebbe attraversato i secoli e i paesi, e oggi è qui ad attrarre ed impressionare uno stuolo di giovani che, pure, sembrano non finire. Dopo gli studi a Merton e a Londra, frequentò Parigi dove insegnavano maestri celebri (tra i quali Abelardo), e dove, alla scuola dei teologi, si imparava la dottrina delle due spade, simboli dei due poteri, quello ecclesiastico e quello civile. Il secondo, ultimamente derivato dal primo e ad esso sottomesso. Dopo Parigi, quando sarà già alla corte dell’Arcivescovo di Canterbury Teobaldo, frequenterà prima Bologna e poi Auxerre per imparare il diritto, indispensabile per saper governare. Tommaso, comunque, non sarà un uomo di studio, uno speculativo, ma un abile e tenace uomo d’azione. Sui ventitré anni entrò alla corte dell’Arcivescovo di Canterbury, vi divenne arcidiacono (una carica importante), per essere poi eletto, su indicazione del Primate, Cancelliere d’Enrico II, da poco consacrato re d’Inghilterra. Siamo alla fine del 1154.Malignamente Gilberto Foliot - Vescovo di Londra - che con Ruggero, - Arcivescovo di York - sarà il più ostinato e perfido nemico di Tommaso, dichiarò che il prezzo della dignità di Cancelliere, era ammontato a molte migliaia di marchi, insinuando che l’episcopato stesso non era provenuto per via pulita. Ma come esercitò Tommaso il potere di Cancelliere? Parve a tutti che si deliziasse nella magnificenza, riservando una sua predilezione e un suo rifugio ad un lato oscuro della sua vita. Quasi si potrebbe parlare di una doppia vita del Cancelliere, ma in senso positivo. Tommaso non pare abbia mai perduto la misura, anche se durante l’esilio non mancarono critiche sferzanti sul suo operato. Becket - questa era l’accusa raccolta da Giovanni di Salisbury, chierico e biografo di Becket, - allora manovrava il re secondo il proprio arbitrio e fu causa di molti mali. Al Cancelliere attribuì la responsabilità d'aver esatto tasse ed aver compiuto vessazioni contro le Chiese. Più brutale l'accusa di Gilberto di Folliot. Tommaso - scrive - non solo fu il consigliere, ma fu il cuore ed il consiglio del re, scelto tra mille, sotto il quale non era facile, anzi impossibile a chiunque, ottenere qualcosa. Per parte sua, Tommaso affermerà di aver offerto in coscienza i propri servizi, con devozione e fedeltà. Riconoscerà indubbiamente che la "grazia familiaris" concessagli dal re, era stata così grande da avere sotto di sé tutti i luoghi del suo dominio. Ogni cosa, però, dolorosamente, anzi provvidenzialmente, si ruppe con l’elezione episcopale di Becket con la quale Enrico - sono parole dello stesso Tommaso - cercò di sublimarlo nella dignità ecclesiastica. Tommaso scrisse del re: "Ora mi perseguita con odio inesorabile"; da parte sua il re parlò: "di quel Tommaso di Canterbury, mio avversario". Un odio inesorabile, un’avversione che, forse, tradivano, come in negativo, un vincolo che non si era mai spezzato. Ed era dolorosissimo. Tommaso fu ordinato Vescovo nella Cattedrale di Canterbury il 3 giugno 1162, poco appresso riceverà quel palio che la madre aveva visto in sogno e rinunzierà alla carica di Cancelliere. Questo fu per il re il segno inequivocabile che si era illuso sulla domesticità e connivenza del Cancelliere Arcivescovo. Divenuto Arcivescovo, Tommaso si spogliò del vecchio uomo, indossò il cilicio e l'abito monastico, crocifiggendo la propria carne con i suoi vizi e le sue concupiscenze. Becket divenne subito cosciente del divario tra la sua vita precedente e la dignità cui era stato innalzato e si sforzò di recuperare. Si sforzò, il che non significa che riuscì subito a convertire quel suo temperamento dove l’amore al potere, alla magnificenza - che era anche magnanimità e generosità -, la focosità e l’insofferenza erano materia che supplicava la trasformazione della Grazia; ma egli non mancò di collaborarvi poiché la santità è tutta un miracolo della Grazia. Si dedicò, con la discrezione che contrassegnò la sua vita interiore, al servizio quotidiano verso i poveri; si diede alla Lectio e alla preghiera. A raccoglierlo dalle distrazioni furono soprattutto le orazioni e le meditazioni del predecessore, così riflessivo e così santo, eppure per un lato così simile nella passione per la libertà della Chiesa e nella dolorosa vicissitudine dell'esilio: S. Anselmo d’Aosta. Tommaso sentiva il suo fascino come per contrasto e per una viva coscienza di indegnità. "Tutto fu turbato con l’elezione di Becket ad Arcivescovo di Canterbury", osservò il Vescovo di Londra Foliot che troppo ovviamente si sentiva preparato per quella sede assegnata, ai suoi occhi, ad un indegno. Con la quasi totalità dei suoi confratelli inizierà contro Tommaso una campagna di persecuzione. I difetti che rilevava in Becket potevano essere veri, ma né lui, né i vescovi sapevano cogliere l’intenzione e il significato della reazione di Becket al re. Becket appariva causa di turbamento del regno, i suoi erano considerati eccessi di un pastore della Chiesa; a giudizio di Becket, invece, si trattava di salva guardare la Sancta Ecclesiae Libertas, che invece le costituzioni di Clarendon - promulgate dal re nel 1164 - di fatto conculcavano. Con lucida fermezza, egli ricorderà a Enrico II che Cristo ha fondato la Chiesa e col proprio sangue ne ha acquistata la libertà. È l’immagine di Chiesa che sostanzierà la contemplazione e la decisione di Tommaso durante i quasi sette anni dell'esilio fino alla morte; un esilio avvilente e non compreso dai suoi. L'inclinazione di Tommaso allo splendore, la disponibilità di risorse (fino alla fuga da Northampton, il 13 ottobre 1164) si troveranno umiliate all'estremo. L’esperienza dell'esilio fu il crogiolo e la prova della sua conversione e del suo amore non retorico alla Chiesa. Egli si dichiarerà spogliato e bandito, residente nell'angolo di un eremo, latitante tra pietre e monaci. Più di una volta egli giudicherà ostili i legati di Roma e insensibile alle sue pene e alla sua causa il Papa stesso e quella Chiesa romana che egli associava alla sua Chiesa di Canterbury, alla Chiesa universale, nella lotta per la libertà. Papa Alessandro disse che era "costume della Chiesa romana sopportare perlopiù qualche incomodo, osservando una lenta prudenza, piuttosto che procedere nelle diverse questioni con stile precipitato". E spiegò alla fine le ragioni del suo comportamento, ossia l’attesa di un ravvedimento del re. Tommaso, vedendo lucidamente, a questo ravvedimento non aveva mai creduto: conosceva troppo bene il re. A giudizio di Thomas Becket questi toglieva assolutamente la libertà alla Chiesa. Certo, l’Arcivescovo ne avrebbe accettate le costituzioni, ma solo a condizione che fosse salvo l’onore di Dio e la libertà della Chiesa, fosse salva la dignità della propria persona, fossero salvi i beni ecclesiastici e salva in tutto la giustizia nei confronti di sé e dei suoi. Per non aver mai rinunziato a queste condizioni, segni di una Chiesa libera, non esitò a versare il suo sangue invitando il clero d’Inghilterra a resistere - sono sue lucidissime parole contro coloro che cercano di togliere l’anima della Chiesa che è la libertà, senza la quale la Chiesa non vive e non ha vigore, contro quelli che mirano di possedere, quasi fosse un’eredità, il Santuario di Dio. Certamente la formulazione dei termini o la prospettiva delle rivendicazioni hanno struttura e data medioevali, ma la ragione intuita e vincente è più profonda, e Tommaso la visse subito. E non solo la visse, ma vi acconsenti con la disponibilità ad associarsi alla passione sponsale di Cristo per la libertà della sua Chiesa. "La crescita della Chiesa - annotava Becket - è avvenuta abitualmente nella tribolazione e nell’effusione del sangue, e così si è moltiplicata". "E’ proprio della Chiesa vincere mentre è offesa, acquistare intelligenza quando è giudicata, riuscire ad ottenere quando è abbandonata". Con inatteso magistero scrisse al clero d’Inghilterra: `Cristo è morto per noi lasciandoci un esempio, perché avesse a seguire le sue vestigia. Moriamo dunque anche noi con Lui, mettendo a repentaglio le nostre vite per liberare dal giogo della servitù e dall'oppressione di chi tribola la Chiesa da Lui fondata, la cui libertà ha comperato a prezzo del suo sangue". Nonostante incontri e tentativi di riconciliazione, i contrasti col re non terminarono e nel suo cuore Tommaso aveva già dato il suo consenso all’offerta della vita. Enrico II, a parole, aveva assicurato di rendergli la Chiesa di Canterbury "nella pienezza in cui l'ebbe quando fu eletto Arcivescovo." Proprio scrivendo ad Enrico Il, a qualche mese dalla morte, Tommaso dirà: "per la Chiesa, se Dio ci sarà propizio, esporremo ai suoi persecutori il nostro capo, disposti per Cristo non solo a morire, ma a ricevere mille morti e tutti i tormenti se, nella sua Grazia, si sarà degnato di infonderci la forza della sopportazione". Quell’immagine del capo che tornava nelle parole di Tommaso, pare un presentimento di quello che sarebbe avvenuto la sera del 29 dicembre 1170. "Vedendo i carnefici con le spade sguainate - scrive Giovanni di Salisbury - nell'atteggiamento di uno che prega, inchinò il capo e proferì queste estreme parole: "Affido me stesso e la causa della Chiesa a Dio". Se tutti i martiri sono martiri della Chiesa, Tommaso lo fu in modo singolare. La scoperta della Chiesa lo converti, la fedeltà ad essa lo portò a morire per lei con un’offerta che nessuno si aspettava. Quel martirio rivelò il vero Tommaso Becket le cui colpe, fragilità, incomprensioni, avevano fino ad allora celato. Aveva visto giusto il biografo: quel Tommaso che fu una volta Arcivescovo di Canterbury; ormai non è più solo Primate di una città, ma del mondo intero." La vera vita di Tommaso comincia dalla fine, dalla morte che è a Natale, e appaiono per lui singolarmente vere le parole del Manzoni: "gran segreto è la vita e nel comprende che l’ora estrema".

L. Negri:

Grazie a Monsignor Biffi per questa lucidissima presentazione dell’itinerario di San Tommaso, martire per la libertà della Chiesa. La difesa di questa libertà pone sistematicamente, continuamente, dei problemi alla coscienza e alla riflessione, soprattutto alla coscienza e alla riflessione europea. Le prospettive della questione posta dallo scontro tra Tommaso Becket e Enrico Il costituiranno il contenuto dell'apporto del professor Mathieu a cui ora do la parola.

V. Mathieu

Ha detto giustamente il nostro moderatore che le ripercussioni del martirio di Becket si fanno sentire ancora oggi. Sembra un paradosso e per cercare di spiegare questo paradosso dirò le cose che sto per dire. La difesa della libertà della Chiesa condotta da Becket è anche difesa della nostra libertà. Questo appare strano perché c'è una grande distanza di situazioni e di tempo, di interessi in gioco c’è anche un grande dislivello tra una difesa di interessi anche materiali e una difesa di ideali. Questi interessi erano molto diversi allora da quello che possono essere oggi, eppure ci sono delle strane analogie. Dovete pensare a quella che era l’Inghilterra di allora: un paese poverissimo, contadino. Giovanni senza Terra fu costretto dai baroni di allora a concedere loro libertà celebri con la Magna Charta, che si può considerare un po’ un segno di questa indigenza del re. In queste condizioni la libertà della Chiesa significava anche libertà di disporre di una forte quota dei beni economici inglesi investiti in terreni. Poter nominare un abate, i vescovi e arcivescovi d’Inghilterra era, se vogliamo fare un paragone, qualcosa di analogo alla nomina di un amministratore della FIAT, della MONTEDISON, dell’IRI, e così via. Difendere le nomine dall'intromissione laica del re, significava difendere non soltanto i beni della Chiesa, ma difendere l'uso che se ne poteva fare. Uso per l’assistenza, per l’istruzione e anche - e questo dipendeva dal beneplacito degli ecclesiastici - per uno sfarzo personale. E non è strano che la maggioranza dei vescovi preferisse sottomettersi all’egemonia disciplinare estrinseca del re, pur di conservare questi vantaggi antimondani. E non è strano tuttavia che un uomo di mondo come Thomas Becket, una volta nominato dallo stesso re Arcivescovo di Canterbury -quindi Primate d'Inghilterra - abbia capito la situazione e rovesciato le speranze del suo sovrano, fino a pagare con la morte questo che fu chiamato tradimento. Non è un caso che questa vicenda si ripeta due volte a pochissima distanza. Anselmo d'Aosta, ricordato nell’Intervento precedente, rischiò, arrivò vicinissimo a fare la fine di Thomas Becket. E poi la cosa si prolungò fino a quando un altro Enrico, Enrico VIII, la risolse drasticamente. Qui, in questa fase del conflitto, le cose vennero in chiaro: grazie alla profeticità di un altro Tommaso - Tommaso Moro - ci si rende conto che quello che era in gioco non era semplicemente un patrimonio di beni materiali ma la verità. E Tommaso Moro questa volta capi che non si trattava di una questione disciplinare, di una questione semplicemente ecclesiastica, si trattava di difendere la verità. La verità che è di tutti. Certamente la Chiesa deve farsene difensore in modo eminente, ma anche a nome degli altri, anche a nome di chi non è cattolico. Questo perché la soluzione post-riforma, che in qualche modo ci fa capire le tentate e fallite soluzioni pre-riforma, era quella di porre sotto il dominio temporale della casa d’Inghilterra non soltanto l'aspetto disciplinare della Chiesa, ma addirittura l’aspetto dogmatico. E questo con la fiducia che mai i re d’Inghilterra si sarebbero interessati di questioni teologiche. Evidentemente non era questo che a loro interessava ma, frattanto, per far questo, quel titolo di "defensor fidae" - che era stato dato per la difesa di una fede di cui era depositaria la Chiesa, non la casa d’Inghilterra - sarebbe stato poi rivendicato nel senso di un deposito della stessa verità di fede nelle mani di un monarca. Tommaso Moro, agostiniano, conosceva benissimo questo fatto: che la verità è una sola, che la verità depositata nella - anche se per altri scopi, in altra forma è la verità di tutti. E allora si Chiesa è la stessa rese conto perfettamente che mettere non semplicemente la struttura organizzativa, ma la verità dogmatica nelle mani di un monarca temporale, significava perderla. Ora, da un lato, sembra che la storia abbia dato ragione alla casa d’Inghilterra. Quando mai i re d’Inghilterra si sono preoccupati di una verità teologica, quando mai hanno usurpato quello che era il deposito della fede? Si dice che Enrico VIII litigò col Papa per una questione di divorzio, tutt'altro: litigò col Papa perché non ammetteva il divorzio e appunto per questo doveva dichiarare nulla quella dispensa papale che gli aveva permesso di sposare la moglie di suo fratello. Soltanto - ecco qui il punto - che proprio per questo doveva, tentò e riuscì, in certo modo, di sovrapporre la sua autorità all’autorità del Papa su una questione di interpretazione del diritto canonico, non già del diritto civile. Ecco come sorse la questione, ecco come sorse l’indipendenza della Chiesa d’Inghilterra dalle altre. E questa indipendenza risolse apparentemente i problemi; la Chiesa d’Inghilterra rimase ricca, il re divenne poi ricco per altre ragioni e non soltanto per le spoliazioni compiute da Enrico VIII, ci fu il regno felice di Elisabetta e la grande libertà in lese e mai i re d’Inghilterra si sarebbero permessi, specialmente dopo la gloriosa rivoluzione del 1688, di interferire in questioni ecclesiastiche. Ebbene non fu così, perché al potere temporale monarchico, a poco a poco, prima sul continente, poi dopo in Inghilterra, si oppose un nuovo potere profetico. Un potere profetico laico che non era più indifferente alla verità religiosa, non era più indifferente a nessuna verità. I movimenti calvinistici in senso diretto o indiretto che si manifestarono sia sul continente che nelle isole - pensate alla Scozia, pensate ai puritani - non furono affatto indifferenti alla verità, ma si ritennero depositari della libertà. Entrarono quindi necessariamente in conflitto da un lato contro il deposito della fede della Chiesa cattolica, ma dall’altro anche contro quel potere apparentemente laico in senso banale, cioè disinteressato alle questioni della verità e della fede, cioè il potere liberale inglese che poi si tenterà di instaurare, dopo la rivoluzione francese, sul continente. Ebbene, questo potere apparentemente indifferente, "libera Chiesa in libero Stato", in realtà è un potere minato dall’interno, dalle sue origini che possiamo chiamare calvinistico-roussauiane e finalmente robespierriane e finalmente giacobine. Cosa accade dunque attraverso questa storia di una libertà non più difesa contro il potere politico? Accade che il potere politico si arroga la proprietà della verità come tale. E allora vediamo direttamente i fenomeni che abbiamo purtroppo vissuto nel nostro secolo, i fenomeni di totalitarismo significano infatti l'arrogarsi della verità da parte del potere perché non c’è più nessuna verità che, in linea di principio, non dipenda dallo Stato, da chi detiene comunque il potere. E quella soluzione che allora sembrò felice, cioè di una monarchia liberale e indifferente alle questioni teoriche, fallì. E qui si rivela la grandezza della difesa prima di Anselmo d’Aosta, poi di Thomas Becket, poi di Tommaso Moro. Tommaso Moro fu ancora più rivelativo di Tommaso Becket e di Anselmo d'Aosta. Rivelativo di un pericolo intrinseco al fatto stesso che il potere politico, per ragioni banali, se volete, di denaro o di matrimonio - come per Enrico VIII - o comunque per ragioni mondane, tuttavia rivendicasse una verità che non era sua e che non era neanche della Chiesa, di cui la Chiesa era depositaria ma non proprietaria. Questa fu la difesa di questi martiri. Che dunque sono martiri non solo della Chiesa ma sono martiri della verità, della impossibilità di sottomettere la verità ai poteri mondani. E per questo sono martiri di tutti e non solo dei cattolici. E questa è la ragione penso per cui è così importante risalire a quei lontani episodi apparentemente fatti sorgere da una situazione tutta diversa da quella di oggi e che invece abbiamo vissuto per lo meno ieri e che speriamo di non rivivere domani.

L. Negri:

Grazie al professor Mathieu per questo incisivo insegnamento. La difesa della libertà della Chiesa contiene la difesa della libertà della verità, e quindi della libertà della persona di fronte a qualsiasi struttura di potere che si voglia attribuire un diritto sulla verità che non gli compete. E questo è il luogo infiammato della coscienza occidentale e della storia, per cui guardare questi martiri è guardare dei punti di riferimento che sono sostanziali per comprendere il passato e il nostro presente. Ma come si diventa santi? La Chiesa li ha onorati come santi in forza del loro martirio, in forza della loro testimonianza. Ma al di là di questa canonizzazione esiste un problema ascetico e spirituale: come nasce e quale è il cammino educativo alla moralità e alla santità cristiana? Sarà il contributo di padre Antonio Sicari alla nostra tavola rotonda di stamattina.

A Sicari:

In questo mio intervento la figura di Thomas Becket resta in qualche modo sullo sfondo, anche se sempre presente, e la rievochiamo solo brevissimamente rileggendo una sua umilissima confessione: "Per i miei peccati è ridotta in schiavitù la Chiesa d’Inghilterra, io non sono stato preso dalla Chiesa ma dalla reggia. Io non provengo da un chiostro o da un luogo sacro o dalla scuola del Signore; provengo invece dal palazzo di Cesare e da cacciatore superbo e vano sono diventato pastore di pecore: un tempo protettore di istrioni e guardiano di cani, sono diventato pastore di anime; la mia vita precedente era lontana dal recare salvezza alla Chiesa". Approfondiamo allora questi tre termini: moralità, santità, martirio. Il martirio nel caso di Thomas Becket funzionò come una specie di sanatoria, di condono, di recupero intensivo, dato che la sua moralità non riusciva o non era riuscita a raggiungere la statura della santità, così come dissero alcuni. Se è vero che santità è il gesto con cui Dio prende tutto, non il gesto con cui l'uomo dà tutto, e l'uomo umilmente asseconda questo gesto, allora ci chiediamo se invece il martirio di Thomas Becket non fu proprio l’evidenza definitiva di come Dio lo prese, lo attrasse; di come Cristo lo prese, di come la Chiesa lo prese nel suo alveo. Quest'uomo quasi regalato alla Chiesa dall’imperatore e da un suo scaltro progetto e che la Chiesa riceve nel suo grembo - e una volta che lo riceve nel suo grembo la Chiesa diventa capace di farne un santo, un martire - sperimenta tutta la fatica del suo temperamento, del suo carattere, delle sue esperienze, delle sue difficoltà e l’abbiamo sentito umilissimamente dire: "Ecco io non sono stato educato per essere, per rappresentare la Chiesa". Riprendiamo queste parole quasi singolarmente cominciando dalla parola moralità. La parola moralità è una parola ostica nella cultura contemporanea; basta nominare il termine moralità e subito si pensa a qualcosa di polveroso, di vecchio, di stantio, di ipocrita, soprattutto a qualcosa su cui esercitare la cultura del sospetto. D’altra parte si vede che oggi tutti parlano di moralità, del recupero della moralità, della necessità di trovare un'intesa minima sulla moralità, bisogna ridurre le religioni a moralità in modo che si possa riuscire a vivere. Ma quando noi vogliamo vederci chiaro, credo che noi dovremmo seguire il consiglio che dava Von Balthasar dicendo: "Quando le questioni sono intricate bisogna imparare a pensare le parole come dovevano suonare prima del peccato originale e come suonano dopo quella iniziale sventura antropologica". Prima del peccato originale, la moralità pre-esiste nel fondamento dell'essere, in Dio creatore che "dice" la creazione e le assegna una responsabilità, cioè una capacità di risposta. L’evidenza del creatore e il sentimento di creatura funzionano per l’uomo allo stesso modo in cui funziona ora per il bambino il rapporto originale con la madre, quel rapporto che, sempre Balthasar insegna, rivela l'essere come uno, come vero, come buono, come bello. Quindi la morale preesisteva nella natura delle cose che si offrono all'uomo, come si offrono le cose quando il bambino viene al mondo. Si offrono gratuitamente, nel loro ordine, nella loro armonia, nel disegno di cui sono predotate; quindi la morale preesiste nella natura dell'uomo come dover essere. Ma un dover essere che originariamente non è il carcere dell'uomo, non è il peso, la fatica dell’uomo, ma è il divino che è nell’uomo. E’ un dover essere che non contraddice la libertà dell’uomo ma la fonda e la mette dentro, la rende organica alla sempre più grande libertà di Dio. Dopo il peccato originale niente di tutto questo è andato definitivamente perduto, come insegna sempre Von Balthasar nelle sue Nove tesi sull’etica cristiana. I termini che lui usa sono questi: un velamento, un trascinamento deviante, un ottenebramento, una disarticolazione, qualcosa che mostra che l’uomo ha subito una rovina, perché un peccato, detto appunto originale, ha colpito il nesso soggettivo col fondamento dell'essere. Il nesso oggettivo resta, il nesso soggettivo è franato. Con l’avvenimento cristiano si rivela che l’origine di tutto, quindi anche della creazione, è la Grazia. Quindi con l'avvento di Gesù e del suo Santo Spirito, la Grazia ci è stata nuovamente donata, anzi noi siamo stati imparentati con l’autore della Grazia, pertanto ecco che cosa accade: il dover essere ci è stato chiarito di nuovo nella sua intrinseca libertà, nella sua armoniosità provvidenziale col tutto, nello splendore del disegno, nelle concrete possibilità anche fisiche e anche materiali oltre che spirituali: ci è stato dato come una capacità di condurre l’essere là dove Dio lo vuole. Il poter fare - notate, non il dover fare - ci è stato nuovamente donato. E qui ci riallacciamo all’esperienza di Becket. Questo poter fare non è semplicemente un potere nel senso della liceità o nel senso di trovare in sé delle energie, ma un realizzare strutture in cui è possibile fare. Quindi ci è stato dato come compagnia di Cristo alla nostra vita. Compagnia che si spinge fino a donarci il nutrimento eucaristico della sua Santa persona, fino a collocarci dentro l’atto della redenzione. Pensate a come il sacramento della penitenza, ogni volta che noi sperimentiamo la nostra fragilità, la nostra mediocrità, la nostra immoralità, afferra e ci ricolloca là dove la Grazia di Cristo, il prezioso sangue di Cristo ci restituisce il poter fare, il poter vivere, il poter collaborare con la Grazia. Ecco come accade che noi ritorniamo capaci, attraverso la Grazia, di moralità. Pensate proprio a Becket che viene quasi afferrato dalla Chiesa e viene messo nel suo grembo, in una compagnia (e qui le cose diventano discriminanti), che chiede moralità anzitutto nei riguardi di se stessa, nel senso che il mistero Cristo-Chiesa non chiede in primo luogo il rispetto di certe norme morali, ma l’adesione instancabile a sé, al dono: alla presenza che si offre, all’appartenenza che chiede. Notate che l’adesione alle norme è importante, ma è dentro questa compagnia e permanendo inesorabilmente nel suo ambito nonostante la propria fragilità, che anche la coerenza morale verso tutte le norme necessarie verrà concessa anch'essa come Grazia. Vale ancora la tesi di Von Balthasar: "tutto l’agire cristiano nella realtà dei figli di Dio è un poter fare, non un dover fare". La moralità è percepire in una maniera che strugge il cuore e la mente (e uno non è più capace di uscire da questo), che senza Cristo non possiamo fare niente. In conclusione, la moralità cristiana è un poter fare tutto nella presenza amata, nella profonda coscienza di non poter far nulla senza tale presenza. E la struttura sacramentale dell’esistenza cristiana tende poi a veicolare questo giudizio. Cristianamente allora la moralità irrisolvibile è l’apostasia, il venir via da Cristo, dalla sua Chiesa. Moralità, invece, vivere la vita con Cristo, con la sua Chiesa. E la vita è un dovere che è Grazia compiere. Quando allora noi usiamo la parola santità, ci accorgiamo che non c’è molto da aggiungere se non una cosa: che nell’itinerario pedagogico che la Chiesa offre al cristiano, il dover essere dell’uomo e il suo poter fare, sempre per Grazia, in forza della compagnia offerta da Cristo nella Chiesa, sviluppano tutta la loro potenzialità fino a permettere all’uomo di fare tutta la volontà di Dio e a Dio di prendere tutto l’uomo, cioè di rivelare che lo ha già preso fin dall’inizio nel battesimo. Ora brevissimamente una parola sul martirio. Molti immaginano il martirio come un’eventualità veloce in cui il sì che non hai potuto dire a Cristo durante la vita, perché sei stato pigro, mediocre, lo dici d’un colpo e così risolvi tutto. Immaginiamo il martirio nella scientificità con cui oggi è possibile realizzarlo, addirittura senza fare dei martiri. Ricordate per esempio 1984 in cui Orwell descrive una società organizzata per distruggere l’uomo, distruggere la fede, distruggere tutto, senza che l’uomo diventi martire, perché c’è una capacità di infliggere una sofferenza sempre più grande senza mai darti la morte. Pensando ad un martirio del genere, ci accorgeremmo di una cosa molto evidente: a questo punto il dover essere e il poter fare non trovano più quasi nessun sostegno nella natura umana; non solo perché uno è mediocre, un incapace, ma perché non trovano proprio sostegno quasi ontologicamente. Diventerebbe allora impossibile alla natura umana il dover essere e il poter fare, e all’uomo, al cristiano, verrebbe rivolta la domanda: c'è forse qualcosa di impossibile a Dio? Questa domanda chiede la nostra fede e la fede, a questo punto (ecco la moralità), è che la compagnia di Cristo alla tua vita, quella che ha costruito la moralità nel corso normale dell’esistenza, dovrebbe affermarsi, testimoniarsi perfino a livelli mistici. Il martirio, visto proprio nella sua radice metafisica, sarebbe il luogo in cui si vive in compagnia di Cristo; sarebbe documentato da un farsi presente di Cristo. Cristo è, per così dire, tenuto a prendere in mano la sua creatura per cui la vita è diventata impossibile - o meglio il resistere alla sofferenza è diventato impossibile - e così avremo il caso in cui la vita dimostrerebbe di che cosa vive, di che Cristo vive: "vivo non io, vive in me Cristo". Il testo di Assassinio nella Cattedrale è più un’elaborazione di Eliot che rispetto del dato storico, c’è però una parte molto bella che io credo adeguata pienamente a Becket, quella della predica di Natale in cui dice: "un martirio cristiano non è l’effetto della volontà di un uomo di diventare santo, come un uomo volendo e tramando può diventare reggitore di uomini.... Un martire, un santo, è fatto sempre dal disegno di Dio, per il suo amore per gli uomini e per ammonirli, per guidarli, per riportarli nelle sue vie. Un martirio non è mai un disegno di un uomo; perché vero martire è colui che è divenuto strumento di Dio, che ha perduto la sua volontà nella volontà di Dio, anzi non perduta ma trovata, perché ha trovato la libertà nella sottomissione a Dio. Il martire non desidera nulla per se stesso, nemmeno la gloria del martirio. In cielo i santi sono molto in alto, essendosi molto abbassati, vedendo se stessi non come noi li vediamo, ma nella luce della divinità, dalla quale traggono il loro essere. Nel nome del Padre del Figlio e dello Spirito Santo". Santità è pienezza della moralità, è lasciare che Dio ti collochi là dove può prendere tutto. Ecco perché dobbiamo difendere la libertà della Chiesa, una libertà che pretenda di affermarsi in tutto e che non si lasci delimitare, non si lasci decurtare, perché se la Chiesa non può offrire tutti gli spazi, non è possibile che tutti gli spazi vengano educati e che Dio possa prendere tutto di noi. soltanto questo il nostro desiderio, la possibili della santità o del martirio, cioè della testimonianza a Cristo, che Cristo vive, che è la vita della nostra vita e che nulla ci può accadere. Come diceva Paolo: "nulla ci può sottrarre e ci può staccare dall’amore di Cristo".

L. Negri:

Il quadro si è composto con molta chiarezza e molta responsabilità, perché ciascuna esperienza cristiana - e quindi ciascuna persona - è chiamata alla difesa della Chiesa e alla difesa della libertà della persona, ma a una condizione: che accetti di vivere realmente la compagnia che Cristo gli offre. La compagnia di Cristo dentro la vita della Chiesa e la compagnia vocazionale che lo fanno camminare verso il compito adeguato di sé. Ringrazio coloro che hanno partecipato a questa tavola rotonda perché ci hanno dato punti di vista e interpretativi di enorme chiarezza e ringrazio ciascuno di voi per l’intelligenza e la cordialità con cui ha partecipato.