Scuola dell’obbligo oltre l’uniformità

Giovedì 27, ore 11

Relatori:

Mario Dupuis

Gianfranco Dioguardi

Rosa Russo Jervolino

Moderatore:

Francesco Silvano

Mario Dupuis, docente di scuola secondaria superiore, dal 1987 segue i problemi della scuola per il Movimento Popolare. Nel 1988 è stato tra i fondatori dell’Associazione DIESSE che cura la formazione e l’aggiornamento degli insegnanti.

Ha seguito in questi anni la battaglia per la libertà della scuola, promuovendo, insieme a personalità del mondo della scuola e della cultura, la legge di iniziativa popolare sull’autonomia e parità scolastica.

Dal 1989 fa parte del Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione ed in esso è Presidente del comitato sulle politiche comunitarie.

Ha scritto numerosi saggi e articoli sulle tematiche della scuola e della formazione dei giovani.

E’ membro del Comitato esecutivo dell’Organizzazione internazionale per la libertà di insegnamento (OIDEL), organismo non governativo accreditato presso l’ONU e l’UNESCO.

Dal marzo ‘92 è presidente del Consorzio Scuola-Lavoro che raccoglie, nel contesto della Compagnia delle Opere, tutte le esperienze di formazione professionale.

Dupuis: Lo scorso febbraio, nella sua rubrica sull’Espresso, Vittorio Zucconi dava notizia di numerosi studi usciti in quel periodo in America sulla preparazione scolastica dei bambini. Tali studi confermano che mai si sono visti tanti bambini che sanno leggere, scrivere, disegnare, e usare il computer meglio di quelli di oggi, ma mai ci sono stati tanti bambini infelici e afflitti da malattie psicosomatiche, dalle gastriti all’asma, potenziali candidati al suicidio nell’adolescenza. Con la scusa di dare loro la migliore preparazione possibile, il successo dei figli diviene l’unica rassicurazione possibile per chi sospetta di non essere un buon genitore. E’ significativo che il 76% dei ragazzi sotto i dieci anni abbia risposto, ad uno studio della Società Americana di Psichiatria, che il massimo desiderio era stare a casa con i genitori. Anche in Italia i bambini di questo fine secolo si avviano ad essere la generazione più ultra-scolarizzata della storia dell’umanità, eppure il disagio giovanile cresce; ma sta crescendo anche, nel nostro Paese, il numero dei genitori che non accettano più che i propri figli siano cavie di sperimentazioni didattiche e che debbano essere sottoposti a ritmi e a tempi scolastici sempre più intensi. Mentre negli altri Paesi europei si sta compiendo uno sforzo per privilegiare la qualità e non solo la quantità dell’istruzione, riducendo all’essenziale programmi e orari obbligatori e lasciando alle singole scuole la discrezionalità e la responsabilità di creare un progetto formativo attorno a questa base comune, in Italia sembra si sia privilegiata fino ad ora la strada di programmi e orari centralmente determinati, dove nessuno spazio è lasciato alla decisione educativa di genitori e insegnanti.

La Riforma della Scuola Elementare ha introdotto obbligatoriamente in modo prescrittivo la linea pedagogica di una pluralità di docenti, un aumento fino a 30 ore dell’orario scolastico, come conseguenza dei Nuovi Programmi (la media europea nella scuola elementare è di 25 ore settimanali). C’è, inoltre, l’esigenza diffusa di rendere obbligatori anche i primi due anni della Scuola Secondaria Superiore, anch’essa profondamente rinnovata, mentre la scuola media inferiore, riformata nel 1963, quando è stata resa unica e obbligatoria, sembrerebbe non essere interessata ai tormenti riformatori, a verifiche e aggiustamenti. E’ una scuola questa, di cui non si parla, tutto il dibattito è centrato sulle Elementari e sulle Superiori.

Invece, occorre partire proprio da questa Scuola Media, perché il modo in cui è stata resa unica e obbligatoria ha determinato nella cultura un passaggio fondamentale, che sottende e che ha sotteso le politiche scolastiche di questi decenni.

Con la Scuola Media unica e obbligatoria è come se lo Stato tendesse ad affermare che esiste una scuola buona per tutti, anziché una Scuola in cui tutti stanno bene. Il principio di uguaglianza diventa inevitabilmente il principio dell’uniformità, dogma deciso dallo Stato, e la responsabilità educativa del docente è posta in secondo piano. E’ sempre più diffuso sentire affermare che, se i ragazzi non studiano o non hanno metodo di studio, la colpa è delle famiglie e dell’ambiente esterno, perché la scuola offerta loro è la stessa che viene offerta a chi riesce. Nel rapporto docente-alunni si inserisce un po’ alla volta un elemento intoccabile, che fa da schermo fra i protagonisti del dialogo educativo: i programmi. Una scuola dove tutti stiano bene, invece, non è frutto di programmi indovinati e non può essere garantita a priori dalla Stato; è innanzitutto problema di chi la fa: non dipende dal rispetto della procedura ma dall’effettivo incontro educativo che i docenti e il servizio scolastico nel suo complesso sanno creare con i ragazzi che vengono loro affidati.

Per fare una scuola dove tutti stiano bene, l’insegnante non può essere esecutore di un programma, ma creatore dinamico di esperienze formative che conducano al raggiungimento degli obbiettivi fissati. E’ sintomatico che alla crisi di identità del soggetto la risposta non sia favorire la riqualificazione e una rimotivazione, bensì impostare programmi e piani di studio che chiedono al docente di trasferire informazioni, abilità e strumenti e di comunicare sé il meno possibile. Quando lo Stato verifica una scuola che ha deciso di essere uguale per tutti, la verifica è formale, perché procedure e programmi sono decisi a priori. Al contrario il verificare, invece, una scuola in cui a partire dalle situazioni reali di bisogno educativo, ognuno è stato condotto a dare il meglio di sé, ad incontrare la realtà e a capire come sviluppare i propri talenti, non può essere affidato a procedure, perché è in gioco la qualità di un processo educativo.

Un rapporto Censis di qualche anno fa portava significativamente ad esempio proprio la scuola media, per denunciare questo errore di prospettiva: "La Scuola Media è l’esempio più eclatante di una cultura istituzionale che confonde la tutela con l’uniformità; l’uniformità viene sancita con la Legge e la Legge viene fatta osservare attraverso la procedura, non già attraverso il controllo e la valutazione dei processi". Mentre l’uguaglianza è affidata ad una capacità di generare dialogo educativo per portare l’alunno a conseguire certi risultati, l’uniformità è affidata ai programmi, riguardo ai quali dalla riforma della scuola media, è cresciuta una tale enfatizzazione che li ha resi sempre più enciclopedici. Ogni giorno i ragazzi sono sollecitati da una quantità esuberante di nozioni, ma poi sono lasciati soli a fare sintesi di tutto. Il sapere perde la connotazione di una ipotesi unitaria e viene frantumato in mille educazioni parziali, la cui somma, più aumentano gli addendi, più allontana dal risultato che si attenderebbe. Non esiste sperimentazione che, anziché rivisitare piani di studio in termini di qualità, non finisca con l’essere un’aggiunta di materie nuove, considerando l’educazione come semplice rendimento del maggiore numero di abilità.

I risultati del sistema, in termini di efficacia, sono noti. Su cento ragazzi che si iscrivono alla Scuola Media sei non conseguono la licenza, ma a questi sei bisogna aggiungere coloro che ci arrivano in presenza di ripetenze, di abbandoni e rientri o con stretta sufficienza, senza ricevere una prospettiva per il futuro. Non è questo l’obbligo d’istruzione che noi desideriamo e pensiamo che non sia questo l’obbligo di istruzione che desiderano le famiglie e che desidera, mi auguro, il Ministro della Pubblica Istruzione. Abbiamo scelto di partire dalla Scuola Media per indicare la spia di un disagio, proprio perché non è un settore interessato a riforme. L’abbiamo scelto proprio per questo: il problema, infatti, non si risolve anzitutto per legge.

E’ un’inversione di tendenza generale, che deve avvenire, è la ripresa del fatto educativo che deve essere permessa! Quando giudichiamo un progetto di legge o dei programmi, non ci interessa che essi siano coerenti con la nostra ipotesi educativa, ma che lascino libertà per poterla esercitare. Se avessimo, ed è un paradosso, un Ministro dell’Istruzione di CL, non gli chiederemmo programmi coerenti con la nostra linea educativa, ma gli chiederemmo di lasciarci liberi di poterla esercitare, dando contemporaneamente la libertà a tutti. Noi siamo contrari non a tutto ciò che è contro di noi, bensì a tutto ciò che omologa; siamo contrari all’innovazione posta a scapito delle altre, siamo contrari al fatto che lo Stato possa dire a dei genitori: "il vostro metodo educativo è fuori legge, superato, non siete genitori moderni". Non siamo tra quelli che dicono sì o no a una riforma in base al fatto che in essa sia stato ritagliato o meno lo spazio che va bene a noi; diciamo sì o no in base al fatto che sia permessa una libertà educativa, e che il rapporto docente-alunno non venga mortificato dentro un unico precostituito. Non chiediamo libertà nella scuola o libertà della scuola, ma semplicemente libertà per tutta la scuola italiana. Vogliamo che essa sia riportata nel suo alveo naturale che non è rappresentato dall’amministrazione o dalla gestione burocratica, ma dalla società, dalle alleanze che liberamente si creano tra genitori, studenti e insegnanti.

Quali sono allora in questo contesto, le nostra proposte politiche? La prima considerazione riguarda il prolungamento dell’obbligo scolastico. Noi sosteniamo tale prolungamento solo se vince questa cultura che mette al centro la persona e non un progetto ministeriale, pur fatto con tutte le buone intenzioni. Se lo Stato permetterà la tutela di queste diversità, allora avrà diritto di chiedere a tutti i cittadini di parteciparvi. Il prolungamente dell’obbligo scolastico, più che sancito per legge, ci piacerebbe fosse il frutto della capacità di potenziare i segmenti formativi che possono rispondere alle diverse esigenze della popolazione scolastica. Quando lo Stato fissa un nuovo obbiettivo non può non chiamare e valorizzare per il suo raggiungimento tutte le energie della società che possono collaborare a raggiungerlo. Una seconda linea di proposta politica è iniziare veramente un processo di autonomia per la scuola. Questo non è anzitutto problema di legge specifico da fare approvare al Parlamento; piuttosto tutti i provvedimenti legislativi e amministrativi dovrebbero contenere i bacilli di tale novità, in modo che chi è già capace di usarla perché è capace di proposta educativa, lo possa fare e chi non lo è impararlo col tempo. C’è un modo di varare programmi e progetti che aiuta questa crescita di libertà, un altro che la impedisce. L’unità è frutto del pluralismo, non del suo appiattimento. Val la pena sempre ricordare che una delle prime battaglie di Gioventù Studentesca fu proprio contro le Associazioni uniche di Istituto, in un momento in cui, tra tutte queste associazioni, essa poteva avere la maggioranza assoluta. Anche sui Programmi ci attendiamo ciò che avviene in Europa, dove lo Stato fissa le materie fondamentali e i minimi orari, lasciando che attorno a questo ogni scuola e ogni docente elabori un progetto di Istituto. Ma dove questa effettiva libertà di insegnamento è adottata, in Europa, esiste anche la libertà effettiva delle famiglie di scegliere la scuola in base al progetto che essa offre e non in base alla via o al rione in cui si abita o al proprio reddito. Una terza considerazione riguarda la ripresa del rapporto con le famiglie. Se i genitori disertano gli Organi Collegiali, per come sono stati ridotti, può essere un segno di intelligenza. Alcuni però, cominciano ad organizzarsi spontaneamente per la difesa dei principi educativi fondamentali. Infine: la formazione non è una spesa corrente, ma un investimento. Chiediamo nuove modalità e nuovi criteri per le spese del Ministero della Pubbblica Istruzione, perché sia valorizzata la Scuola e non l’apparato. Se il Ministro farà queste battaglie per la libertà, ci troverà sempre al suo fianco.

Silvano: Rifiuto del formale, richiesta di novità, attenzione alla persona, libertà per la scuola e nella scuola, nuovi rapporti con le famiglie, spazi educativi di grande respiro: in questo contesto vale la pena riflettere sul fatto che, oggi più che mai, conoscenza e scienza sono diventate parte integrante del lavoro. La scuola italiana, fortemente burocratizzata, può diventare una leva di cambiamento nella cultura dell’orientamento al lavoro? E nell’interazione tra la scuola e l’impresa, fatta salva la specificità propria del differenziato tessuto produttivo a connotazione regionale se non addirittura provinciale, è attuabile, almeno a livello di educazione, una capacità di percepire le tipologie fondamentali del cambiamento che sta avvenendo nell’interpretare l’ingresso nel mondo del lavoro?

Gianfranco Dioguardi, ingegnere, ha svolto attività imprenditoriale in società operanti nel settore dell’edilizia, dell’engineering e dell’innovazione tecnologica e nel campo della formazione professionale.

E’ stato presidente in diversi Consigli di Amministrazione, direttivi o Scientifici di imprese, riviste, organizzazioni culturali, istituzioni pubbliche o private. Attualmente è Amministratore Delegato della Fratelli Dioguardi d’Amministrazione di Tecnopolis - C.S.A.T.A. - Centro Studi e Applicazioni in Tecnologie Avanzate di Bari.

Il 2 giugno 1989 gli è stata conferita la nomina, da parte del Presidente della Repubblica, di Cavaliere al merito del Lavoro. Nello stesso anno è diventato ordinario di Economia Industriale e Organizzazione Aziendale presso la Facoltà di Ingegneria del Politecnico di Bari con attività scientifica e didattica svolta in Italia e all’estero. Ha pubblicato articoli, saggi, monografie e alcuni libri. Ha interessi culturali nel campo della saggistica storica, organizzativa ed economica nel cui ambito ha pubblicato diversi lavori e libri tra i quali Un avventuriero nella Napoli del Settecento (Sellerio, 1983), per il quale ha ricevuto il premio Nazionale "Città di Cirò Marina 1984" riservato ai saggi di storici di interesse nazionale e il Premio Europa Internazionale di Cultura Contemporanea.

Dioguardi: La scuola, la quale storicamente è stata per pochi, tende sempre più a trasformarsi in Scuola dell’obbligo per tutti. Ma in Italia sostanzialmente, specie nelle aree emarginate, continua a rimanere scuola di pochi, perché pochi benestanti usufruiscono in pieno della scuola dell’obbligo, non quelle proposte e promosse dallo Stato, ma quelle private.

La scommessa sulla vera eguaglianza, le cui conclusioni sono l’obbligo di istruzione, la sua durata, il coordinamento interno, rappresenta una scommessa nei confronti del mondo giovanile: occorre progettare, superando sterili dibattiti ideologici provincialismi e spinte corporative affinché ci sia una vera risposta al bisogno educativo che caratterizza ogni persona. E occorre garantire l’esercizio dell’obbligo, perché molto spesso esso non può essere portato avanti da coloro che istituzionalmente sono chiamati a farlo. Temo che un’estensione della scuola dell’obbligo possa costituire un’ulteriore fuga in avanti che tenda a risolvere i problemi formalmente, per lasciarli poi, di fatto, del tutto irrisolti.

Chiediamoci quali sono oggi i valori diffusi nelle periferie emarginate della nostre piccole e medie città, nelle grandi metropoli. Questa assenza di valori tende a diffondersi in progressione geometrica, condizionando l’ambiente. C’è una sorta di abitudine in coloro che vivono lì a un deterioramento dei costumi, quindi anche ad un deterioramento dei valori, fatto questo di natura quasi irreversibile. In tale quadro operano le imprese produttive. Esse tendono a costruirsi un proprio ambiente interno caratterizzato da livelli di efficacia e di efficienza per conseguire i propri obiettivi in termini economici, di performance, di mercato. Ma gli individui che si sono aggregati in tale ambito e che si sono dati un progetto, un programma, degli obiettivi da perseguire congiuntamente, possono essere, positivamente o negativamente, condizionati anche dall’ambiente esterno. Cultura, formazione, educazione, come diceva Darwin, servono a costruire sugli individui che operano nell’impresa le motivazioni, le incentivazioni e la propensione ad operare con efficienza ed efficacia. Questi individui, quando escono dall’impresa, cosa fanno? Con chi interagiscono? Come operano nell’ambito del quotidiano, fuori dall’impresa? Interagiscono con l’ambiente esterno e, con esso e su di esso, possono, alla lunga, essere condizionati. Ecco la necessità di costruire, da parte dell’impresa, nuove alleanze: necessità indissolubile, senza la quale l’impresa sarà destinata a soggiacere ai condizionamenti negativi che dall’esterno interverranno sull’interno. Chi voglia mantenere il proprio ambiente interno positivo deve, per forza di cose, farsi carico anche dell’ambiente esterno affinché viva la stessa positività. Dunque, occorrono alleanze per riproporre ai giovani valori antichi e nuovi, per innovare, avendo sacro il rispetto della tradizione.

Invoco una nuova alleanza tra impresa e scuola, nel rispetto delle reciproche autonomie; una nuova alleanza fra pubblico e privato; una alleanza fra formazione ed educazione. A Bari, in un quartiere emarginato abbiamo costituito come impresa una scuola dell’obbligo: l’impresa metteva a disposizione della scuola strumenti motivazionali per attirare i giovani, senza assolutamente entrare nel merito di un processo formativo ed educativo, di competenza solo della struttura scolastica, quindi dello Stato. Questo meccanismo di sponsorizzazione, o di adozione, fatto dall’impresa verso la scuola, mi auguro possa avere effetto imitativo e possa diventare uno strumento costruito con vere e proprie strategie di marketing, affinché si possa, anche attraverso un uso più attento ed educativo della pubblicità, interagire con i giovani.

Occorre, quindi, avvalersi di nuove alleanze, e di nuove tecnologie, come la pubblicità e l’informatica, affinché si possa costruire l’abitudine ad un modo di essere che ritenga ancora prioritaria l’esistenza vissuta attraverso antichi valori. L’essere insieme, non soltanto in termini di alleanza, ma di comunione, è fondamentale.

Ritengo che la compagnia possa, in termini di spinte imitative, ricostruire valori di moralità ed anche di cultura, alla ricerca di nuovi ruoli dell’impresa e scuola. Due frasi di don Giussani, lette sul Sabato, mi hanno colpito: "Seguite l’esempio dei primi testimoni e dei primi discepoli, si supereranno tutti gli ostacolo e si attraverseranno tutte le frontiere. La comunicazione inizia là dove si vive; tutto il nostro Movimento è iniziato da una cattedra di scuola, di fronte a dei ragazzi seduti nei banchi".

Ecco, è necessaria una nuova figura di missionario, un missionario urbano. "E’ dalla nostra compagnia che nasce sia un vero concetto del problema morale, sia un’impostazione adeguata del problema culturale, cioè del come concepire e giudicare le cose. Senza il primo siamo in balia della menzogna, senza la seconda siamo in balia di chi ha nelle mani gli strumenti del potere e cerca di farci credere, pensare ed immaginare quello che vuole e che più conviene. Un atto è morale, quando rispecchia e rispetta la sua appartenenza al disegno totale". Ecco: cerchiamo, attraverso le nuove alleanze, di far rivivere tale concezione di un disegno totale che sia anche disegno di civiltà.

Rosa Russo Jervolino, Ministro della Pubblica Istruzione.

Jervolino: Io credo che tutti riconosciamo l’enorme cammino che la scuola ha compiuto in questi anni. Non mi vergogno a dire che mia nonna, come me moglie di un contadino nell’entroterra vesuviano, madre di 12 figli, non sapeva né leggere, né scrivere; né mi vergogno a dire che ho provato grande commozione quando, dopo la nomina a Ministro, ho dovuto dare la Delega ai sottosegretari e mi sono ricordata del periodo del quale la Delega per la lotta contro l’analfabetismo primario di ritorno era una delle più importanti.

La Scuola ha camminato tantissimo; il fermarsi un momento, soprattutto all’inizio di una nuova legislatura, per riflettere sui valori di fondo sui quali si vuole continuare a farla camminare, non significa farle il processo, ma dimostrare amore per essa. Il discorso sull’obbligo scolastico si collega direttamente al Diritto allo studio, come aspetto fondamentale dei diritti della persona umana (l’art. 2 della Costituzione) per la realizzazione di tutte le proprie potenzialità. Ne consegue che l’organizzazione scolastica deve avere degli ampi gradi di flessibilità, non può essere una gabbia rigida, visto che ognuno ha diversa vocazione e diversi talenti. Parlare di obbligo scolastico significa assumere un obbligo da parte della struttura di interesse pubblico che non coincide con quelle gestite direttamente dallo Stato o dagli Enti periferici, bensì anche le strutture organizzate e gestite da privati, che si pongono come finalità degli obbiettivi che interessano tutta la collettività.

Questo concetto di Ente privato che svolge una funzione pubblica, piano piano, sta entrando anche nella nostra struttura giuridica. Pensate ad esempio, alla legge-quadro sul Volontariato, ai diritti che sono stati riconosciuti rispettandone la natura privata, l’autonomia e la libertà e valorizzandone il contributo che essi possono dare al raggiungimento di obbiettivi di interesse comune e di solidarietà. Quando parlo di diritto allo studio, all’obbligo scolastico, al ruolo della scuola, intendo avere sempre presente con chiarezza la gerarchia dei valori costituzionali, che pone non in capo alla scuola ma in capo alla famiglia (art. 30 della Costituzione) il diritto dovere di mantenere educare e istruire i nostri figli e quindi quando si parla di ruolo della famiglia nella scuola ed accanto alla scuola deve essere chiaro che noi non facciamo una concessione alle famiglie, ma noi rispettiamo soltanto una scelta estremamente precisa della Carta Costituzionale e quando noi affermiamo questa scelta dobbiamo anche avere ben presente che essa comporta anche alcune ricadute concrete. Certamente la prima è quella di poter scegliere liberamente l’istituzione scolastica ritenuta più idonea per il processo educativo dei propri figli. Anche su questo tema siamo in un momento estremamente delicato, perché, relativamente al rapporto scuola pubblica-scuola libera, ci sono stati momenti di forti conflittualità e letture restrittive della Carta Costituzionale che, dimenticando per esempio l’art. 30, si sono appellate semplicemente in modo riduttivo all’art. 33 della Costituzione e ad una sottolineatura enfatica del principio "senza oneri per lo Stato", mentre una lettura corretta degli atti preparatori della Costituzione, così come emergono anche dalla Commissione dei 75, rende chiaro come quel "senza oneri per lo Stato" significa "senza oneri ulteriori" per lo Stato ed è certo che la scuola libera non carica oneri sullo Stato, molto spesso anzi lo sgrava da notevoli pesi economici. Cercando costantemente e pazientemente un confronto fra i vari mondi culturali e politici, fra le varie organizzazioni che operano nell’ambito scolastico e fra i genitori, è possibile trovare momenti di convergenza. Il Presidente del Consiglio, nel discorso programmatico alle Camere, ha parlato di pari dignità della scuola pubblica e della scuola libera: mi sembra che questo costituisca già una via alcuni anni fa impensabile. Credo vada perseguita e valorizzata con pazienza anche la strada della legislazione regionale: il Friuli Venezia Giulia e il Trentino Alto Adige non fanno distinzione fra scuola pubblica e scuola libera, realizzando così in modo effettivo e concreto il diritto di scelta dei genitori. Un’osservazione delle esperienze europee in tal senso potrà far compiere un ulteriore cammino a questa idea-forza, presentandola nella sua realtà di idea di tutti i Paesi liberi, moderni e pluralistici, e spogliandola di quella venatura di clericalismo che, da parte di alcune forze laiciste, veniva sempre attribuita a qualsiasi discorso di tutela del riconoscimento della scuola libera. Parlare di centralità della famiglia è parlare di diritti e doveri dei genitori, ciò significa non soltanto poter scegliere liberamente il tipo di scuola, ma anche entrare all’interno dei suoi moduli organizzativi, sia essa una scuola dello Stato, sia essa libera.

Chi sottolinea lo stato di asfissia degli Organi di governo democratici della scuola ha ragione. Vedere criticamente la realtà è indubbiamente positivo, però dobbiamo anche avere la capacità di non bruciare alcune esperienze ricche di potenzialità, almeno finché queste non siano state giocate fino in fondo. Le famiglie sono entrate nella scuola, per la prima volta, nel febbraio 1975. Questo fatto di grandissima portata non soltanto dal punto di vista della politica scolastica, ma anche dal punto di vista della politica culturale del Paese, è stato un fatto innovativo. Lo è stato per noi famiglie, abituate più ad essere attente ai problemi dei figli, piuttosto che a farci carico dei problemi di una comunità educante. E’ stato un momento fortemente innovativo che si è impattato con un corpo docente abituato a considerare esclusivamente propria la responsabilità scolastica e che deve avere il tempo di inserirsi all’interno di una logica di dialogo con le famiglie. A volte noi politici abbiamo caricato gli organi di governo democratici della scuola di responsabilità che essi non potevano assolvere. Se, a livello legislativo, non siamo stati capaci di fare alcune scelte, quelle relative al prolungamento dell’obbligo scolastico, quelle relative a una effettiva realizzazione di autonomia scolastica o alla Riforma della Scuola secondaria superiore, quelle, infine, relative a un modo più vivo e più flessibile di vivere anche la Scuola media inferiore, tutto questo è colpa del legislatore, non degli organi democratici della scuola. E’ mia ferma intenzione rilanciare fortemente la logica della collaborazione fra scuola e famiglia e rilanciare fortemente, non solo sul piano legislativo, ma anche nelle realtà concrete, la logica della partecipazione e del lavoro comune. Un nuovo modo di intendere l’obbligo scolastico significa anche una scuola che vede gli stessi ragazzi come soggetti attivi e responsabili, non copertura di azioni altrui, ma attori che prendono l’iniziativa, che si aggregano liberamente.

Nel momento in cui possiamo dire che l’analfabetismo non è più una delle grandi piaghe sociali del nostro Paese, non possiamo però dimenticare che in tutta Italia, e soprattutto nell’Italia meridionale, abbiamo problemi di non assolvimento dell’obbligo scolastico e di mortalità scolastica. Cosa significa il non assolvimento dell’obbligo scolastico? Esso non vuol dire soltanto privare il ragazzo di quella dimensione culturale e professionale che gli darà poi la possibilità di essere un soggetto attivo all’interno della comunità, ma significa che questo ragazzo non ha dietro di sé una famiglia che si occupa di lui o ha una famiglia la quale vive in condizioni tanto difficili da non potersi occupare dei ragazzi, i quali vengono poi in vario modo sfruttati da altri.

Tale problema, pertanto, è legato anche alla mancanza di una legge quadro di riforma dei servizi sociali. Va quindi sviluppata l’azione di prevenzione, ma va anche sanzionata fortemente, sul piano penale, la posizione di chi sfrutta il lavoro minorile o di chi induce i ragazzi a non andare a scuola per coinvolgerli in attività criminose. Quando, nel 1991, sono venute alla luce due inchieste estremamente preoccupanti, una del Consiglio Superiore della Magistratura, promossa da una donna che attualmente è Segretario generale della Presidenza del Consiglio e l’altra, addirittura, della Commissione Antimafia che segnalava il forte coinvolgimento di minori, anche quattordicenni, in attività criminose, si sono presentate due possibili scelte, la prima era abbassare la soglia della punibilità penale da 14 anni a 12 anni o a 9 anni, la seconda invece era usare nei confronti di esso la logica dell’attenzione e della prevenzione e aumentare invece le sanzioni su chi lo sfruttava.

Su questa logica è nata una legge estremamente bella, la 216 del 1991, che ha, però un difettto, comune purtroppo a molte leggi che operano in campo minorile: avere un finanziamento minimo di 25 miliardi nel 1991, 50 miliardi nel 1992.

Credo che in molti ricordiamo una frase di S. Giovanni Bosco: "Costruite una scuola in più, perché questo significherà costruire cinque carceri in meno".

Sono perfettamente d’accordo con la logica dell’autonomia e della flessibilità; quando parlo di obbligo scolastico intendo un diritto allo studio che coinvolga tutti i cittadini, compresi i portatori di handicaps. A Rimini, con Don Benzi, avete fatto delle esperienze di avanguardia, le quali, all’interno della legge-quadro 104 del 1992, hanno avuto anche una sistemazione sul piano giuridico. Quanto maggiore sarà la possibilità di flessibilità e di inventiva concreta, attraverso la collaborazione fra le famiglie e la scuola, tanto più alto sarà non l’inserimento del portatore di handicap, ma la sua integrazione, cioè la possibilità concreta di fruire di tutte le occasioni e di fare completamente il percorso educativo degli altri ragazzi.

Quando io parlo di Diritto allo studo e di obbligo scolastico per tutti, intendo, per esempio, il Diritto allo studio per i ragazzi di tutte le razze, di tutte le lingue, di tutte le culture, problema questo affrontato con la legge 139 nel 1991, problema che ha bisogno di essere realizzato attraverso forme di autonomia. La presenza di bambini di tante razze, di tante culture, sul territorio nazionale italiano, è un fatto estremamente prezioso, perché dà la possibilità attraverso un vissuto comune, non appena di superare i pregiudizi ma di essere educati strutturalmente ad una mentalità di effettiva uguaglianza degli uomini, ad una logica di solidarietà, superando quella di tipo conflittuale propria del processo educativo negli anni Cinquanta.

Maria Montessori, in una conferenza tenuta nel ‘42 in Svizzera, diceva che ai politici e ai diplomatici può competere al massimo di fare trattati internazionali e di impedire le guerre, ma che la cultura della pace e della solidarietà può essere costruita soltanto dalla educazione, ambito in cui la scuola ha un suo ruolo particolarissimo.

Nel momento in cui sono passata dal Dipartimento degli Affari Sociali al Ministero della Pubblica Istruzione, distacco, questo, abbastanza doloroso da un mondo che era stato per anni il mio, ho pensato ad un passaggio bellissimo di Giovanni Paolo II nella Familiaris Consortio, in quel capitolo relativo ai minori, laddove si parla dei ragazzi come di anticipo di storia futura. Ebbene, la Scuola deve avere questa capacità di reinventarsi, affinché la storia futura dell’umanità e del nostro Paese sia migliore, sia più a livello di uomini.

Tutto questo, certamente, non lo si può fare né per legge né per decreto, non lo può fare né il Parlamento né il Governo. Tutto questo lo potete fare voi, lo possono fare quanti operano nella scuola, le famiglie, i ragazzi, se veramente convinti che rilanciare nelle coscienza personale e collettiva i valori della Costituzione renda più civile e più umano il nostro Paese. Io sono sicura che, in questo senso, anche da Rimini partirà un incentivo ed un aiuto forte.