giovedì 30 agosto, ore 11.00

L’IRRAZIONALE: UNA SERVITU’ VOLONTARIA

Incontro con

Vadim Borisov

Critico Letterario

Carlo Sini

Ordinario di Filosofia Teoretica presso l’Università Statale di Milano

Modera.

Nevio Genghini

N. Genghini:

Benvenuti al nostro incontro. Che cosa significa il tema dell’irrazionale qui al Meeting e in particolare cosa significa che l’irrazionale è una servitù volontaria? Noi sappiamo, chiunque abbia un minimo di conoscenza di queste cose sa che la cultura occidentale ha tentato a lungo, con innumerevoli sforzi di fissare la meta, di fissare lo scopo del cammino della storia. Il grande sforzo della cultura occidentale è stato crollate quello di identificare il fine della storia. Sono appena trascorse, sono appena quelle filosofie narrative della storia che pretendevano di fissare l'esito ultimo del cammino degli uomini, di dire spesso con arroganza e spesso con implacabile indifferenza al singolo che la sua domanda è inerme davanti a questo grande corso, che i veri agenti della storia sono gli agenti collettivi e non le decisioni personali delle persone. Ma oggi questa grande pretesa è fallita: è sotto gli occhi di tutti che la pretesa di orientare la storia secondo un fine arbitrariamente scelto, è fallita. Ha generato dei mostri, ha generato sofferenze inimmaginabili e poi si è dissolta come neve al sole davanti a che cosa? davanti all’opposizione, alla resistenza della domanda dell’individuo, del singolo. Ma la caduta di questa pretesa mette la cultura in una situazione imbarazzante: piuttosto che riesaminare i motivi che le hanno impedito di identificare il giusto ordine dei valori, il giusto fine della storia, piuttosto che abbandonarsi ad una sincera e leale autocritica, la cultura oggi preferisce come introiettare, come incorporare la propria delusione; la storia non si può guidare verso un fine autenticamente umano, e diventa scettica, indifferente, nichilista, diventa irrazionale. L’irrazionale è questo bisogno di possedere una felicità, ma una felicità immaginaria, che non ha più l'energia, non ha più la forza di affrontare la realtà e di mutarla. Ebbene, questa è un poco la prospettiva dentro la quale oggi si inseriscono gli interventi dei due eminenti ospiti di questa tavola rotonda. E adesso mi permetto di presentarveli nell’ordine di successione dei loro interventi. Dapprima alla mia sinistra voglio presentarvi Vadim Borisov, uno dei più eminenti e uno dei più intelligenti rappresentanti di quella grande cultura russa che oggi, dopo un tempo di lunghissima clandestinità, può finalmente tornare ad esprimere la sua ricchezza. Alla mia destra invece siede il professor Carlo Sini, ordinario di filosofia teoretica presso l’Università Statale di Milano. Qui chiudo la mia introduzione e cedo la parola a Borisov.

V. Borisov

Cari amici, innanzi tutto permettetemi di dirvi la gioia che provo già da alcuni giorni, da quando sono venuto in contatto con l’atmosfera cristiana viva e piena di gioia dell’incontro del vostro straordinario movimento. Quando sono venuto a questo incontro avevo un'idea piuttosto vaga del suo autentico spirito, e così su proposta degli organizzatori, avevo preparato un intervento su un tema filosofico abbastanza accademico: il razionalismo e l’irrazionalismo nelle tradizioni filosofiche occidentali e orientali. Ma quando mi sono trovato tra di voi, avendo assistito alle vostre messe, e avendo conosciuto e parlato con molti membri del vostro movimento, mi sono convinto, con l’esperienza personale, quanto calorosa e fraterna simpatia e quanto interesse si abbia nel vostro ambiente per la giovane Russia cristiana e quanto in comune abbiamo nelle concezioni dei problemi spirituali fondamentali del mondo contemporaneo. Allora ho capito che oggi, in questa sala, sentendomi alle spalle la mia Russia sfigurata, devastata, che è passata attraverso la morte e che però sta risorgendo, io dovevo parlare in altro modo. Vi parlerò quindi della genesi di una nuova realtà spirituale che sta avvenendo oggi sotto i nostri occhi e cui la mia stessa presenza e il mio intervento qui davanti a voi, che era impensabile soltanto tre anni fa, ne è proprio una testimonianza. Alcuni giorni fa ho avuto modo di parlare con un rappresentante del vostro movimento, Rocco Buttiglione, e ci siamo detti che è indispensabile riconoscere sia in Russia che in occidente le comuni radici cristiane della cultura europea, e bisogna riconoscere l’importanza dell’esperienza russa per questa nuova coscienza. Dopo questa conversazione e dopo molte altre di questo tipo, ho conservato la sensazione che questa nuova realtà spirituale che convenzionalmente chiamerò Nuova Europa, già si sia realizzata almeno nel cuore e nelle menti d’alcune persone. E oggi, usando le parole di uno dei più grandi teologi russi del XIX secolo, il metro polita Filarete di Mosca, ripeto: i nostri steccati ecclesiali non arrivano fino al cielo. Tuttavia, nella coscienza dell'uomo della strada sia in occidente che in Russia, in questi decenni e decenni d’isolamento e di separazione, si è andata accumulando una serie di miti, di pregiudizi e di stereotipi o come volete chiamarli ben radicati che ancora oggi impediscono in modo reale e concreto questa unità crescente nella visione del mondo fra noi e voi. Innanzitutto si tratta del mito di una pretesa e secolare ostilità della Russia verso l’Europa, di una totale chiusura del pensiero russo, rappresentata dal cosiddetto slavofilismo e dai suoi seguaci alla cultura occidentale ... che la rinascita cristiana nella Russia contemporanea costituisca una minaccia per l’occidente. Naturalmente gli studiosi più seri e i pensatori occidentali conoscono il valore di questi miti, ma purtroppo la coscienza comune non si basa sulle loro ricerche ma sui mass-media. E per questo ritengo utile soffermarsi un momento su questo argomento. La Russia mai, nonostante come venga descritta, e stata separata da un’impenetrabile muraglia cinese dallo sviluppo spirituale dell’Europa occidentale. Sulla scena della storia europea la Russia è comparsa come un mondo aperto che si era creato sui vivaci itinerari degli scambi commerciali. Certamente il giogo tartaro per un secolo e mezzo ha interrotto questi legami e ha dissanguato la cultura russa, e tuttavia la Russia, con i suoi immensi spazi, è riuscita a paralizzare la potenza militare tartara e in questo modo ha salvato l’Europa occidentale da un possibile attacco. (Certamente non ho tempo oggi di trascorrere tutta questa storia e citare gli esempi, e tuttavia trovandomi sull’antica terra d’Italia vorrei farvi alcuni esempi dei rapporti particolari Italia-Russia che forse non conoscete. Il più cospicuo teologo russo e scrittore del medioevo russo fu Michele Trivolis, oppure, come lo chiamavano in Russia, Maxim Grec, Massimo il Greco, che era un immigrato italiano allievo di Girolamo Savonarola. Il genio architettonico italiano ha fecondato le opere più belle dell'architettura russa: la cattedrale della Dormizione nel Cremlino di Mosca, è stata costruita sotto la direzione dell’italiano Aristotele Fioravanti. Sull’aspetto architettonico di Pietroburgo, alla quale fra l’altro alcuni giorni fa è stato restituito il suo nome originale e che viene spesso chiamata la Venezia del nord, hanno lasciato un'impronta indelebile l’opera d’architetti usciti dalla scuola del grande italiano Andrea Palladio. Ivan il terribile, il sanguinario tiranno russo che fra l’altro ricorda forse più da vicino Enrico VIII che non un despota orientale, si interessava molto alle idee di Machiavelli. A partire dal XVIII secolo nella poesia russa è suonata molto forte la lira, la nota italiana come Petrarca, Torquato Tasso, Ariosto, per non parlare del grandissimo Dante la cui Divina Commedia è stata tradotta più volte sia interamente che a frammenti in russo. Tutti i grandi poeti russi hanno studiato appositamente la lingua italiana per avere la possibilità di cogliere nell’originale la bellezza del verso italiano. E quando Dostoevski scriveva dell’amore dei russi colti per le sacre pietre d’Europa e diceva fra l’altro che queste sacre pietre erano forse più care ai russi che agli europei stessi, aveva in mente soprattutto le sacre pietre d’Italia. Gogol ha vissuto a lungo e scritto a Roma. A Roma è stata dipinta l’opera forse più importante della nuova pittura religiosa russa, un'enorme tela di Alexsandr Ivanov (?) intitolata "L’apparizione di Cristo al popolo" dove si sente chiaramente l’influenza dei maestri italiani. Questi fatti potrebbero essere moltiplicati senza fine, ma ai miei scopi limitati questo è abbastanza Prima della rivoluzione, nei legami con l’Europa non ci sono mai stati ostacoli; per ricevere un passa porto per l’estero era sufficiente mandare un portiere a un ufficio di polizia. I rivoluzionari russi che combattevano contro il governo dispotico zarista viaggiavano in Europa quando volevano e come volevano persino dal confino. E soltanto quando la Russia si è presa il compito di realizzare in casa sua quelle conclusioni del pensiero sociale-economico di cui l’Europa d'avanguardia di allora andava fiera come di una conquista estrema, e io qui intendo naturalmente il marxismo, solo allora questo legame è stato interrotto per alcuni decenni e solo allora la Russia è caduta in reale isolamento. Ma questo barbaro isolamento, periodo in cui tutto il paese era diventato un lager e i suoi abitanti non avevano il diritto nemmeno di scriversi, grazie a Dio, è terminato. E oggi alla luce dell’esperienza passata è importante verificare una volta di più per quale motivo i pensatori russi scrivevano dell’occidente, perché lo criticavano e se veramente alla base di queste critiche c’era una vera ostilità. Mi limiterò a trattare il solo slavofilismo sia perché riguarda uno di quei miti di cui ho parlato prima e poi soprattutto perché, avendo partecipato all’antologia "Da sotto i massi", dove ho parlato del problema dell’autocoscienza nazionale dal punto di vista cristiano, alcuni mi ritengono un seguace di questa corrente di pensiero. Per questo la mia esposizione sull’autentico significato della critica slavofila all’occidente sarà in parte anche espressione delle mie opinioni personali. A dispetto di un cliché molto diffuso che identifica lo slavofilismo con l’antioccidentalismo e con il nazionalismo grande russo, io ritengo che invece proprio lo slavofilismo, che ha dato un impulso creativo a tutta la scuola ontologica della filosofia russa, con la sua asserzione dell’originalità spirituale della Russia, sia stata una corrente autenticamente europea in Russia, e tipologicamente prossima al movimento filosofico-religioso nell'Europa occidentale del XIX secolo. Non a caso una delle future guide dello slavofilismo, Kirievski, nel 1829 battezzò "l’Europeo" la sua rivista. L’ansia che provavano gli slavofili quando guardavano i processi spirituali e materiali che si stavano svolgendo nell’Europa occidentale era un’ansia anzitutto religiosa. Ciò che metteva in ansia era che nel paese dei santi miracoli, come aveva chiamato l’occidente Comiacov, l’anima umana veniva meno; che il fermento cristiano sul quale era sorta tutta la grande cultura cristiana dell’occidente aveva come perso la forza creatrice. Si riteneva che nell’ateismo, nel razionalismo, nell’individualismo, l’occidente tradisse i propri stessi principi. Mentre diventava una sua caratteristica principale, quella stessa analisi ne distruggeva le radici, quel coltello semovente della ragione, quell’astratto sillogismo, quell’intelletto autonomo che non riconosce nulla a parte se stesso e la propria esperienza. Essi ritenevano, e, di fatto, era così, che la Russia ancora integra religiosamente, fosse tenuta ad afferrare il testimone di questa staffetta mondiale della cultura cristiana, dalle mani ormai indebolite dell’Europa occidentale, e in tal modo salvare l’Europa stessa. Non la critica dell’occidente in quanto tale, ma la critica di quelle tendenze del pensiero occidentale che cercavano di sostituire l’edificazione organica di una cultura integrale con un progetto razionalistico che risolvesse una volta per tutte tutti i problemi della struttura sociale dell’umanità e tutti i misteri della realtà che lo circondava. Questo è il filone principale della riflessione slavofila sull’occidente. Naturalmente i giudizi degli slavofili, nonostante la loro esattezza e la loro preoccupazione religiosa verso il destino dell’Europa, avevano molti limiti storici e molti eccessi polemici che diventano molto evidenti visti oggi a cent’anni di distanza. E soprattutto non avevano avuto la lungimiranza di accorgersi che gli stessi pericoli dello sviluppo spirituale che li preoccupavano in Europa, principi conoscitivi: la "ratio" e il "logos" e non due culture: la Russia e l’occidente. Riconoscendo sul piano ecclesiale il cattolicesimo, su quello religioso io riconosco i fondamenti stessi della cultura europea, perché la cultura europea, in quasi tutte le sue massime espressioni, e stata legata nel modo più stretto con il cattolicesimo. Dell’occidente io nego non la vita, non la storia, non le grandi conquiste della cultura ma soltanto il razionalismo, un principio che secondo me è anticulturale. Il razionalismo è legato a una posizione meccanicistica e quest’ultima nutre l’industria meccanica e tutto questo meccanizzarsi ulteriore dello stile di vita che si stacca dal quadro cosmico dell’esistenza. E la cultura autentica corre un gravissimo pericolo in tutto il mondo, anche in Russia. Il razionalismo esplode dappertutto e i teneri, vivi fiori della cultura vengono annegati in un mare di fiori di carta, preparati da uomini senz’anima, su macchine senz’anima. Gli slavofili primi come gli ultimi, quelli più tardi, erano convinti tutti quanti che la Russia sarebbe stata in grado di superare la tentazione del razionalismo e dell’utopismo sociale e che avrebbe avuto un ruolo decisivo nel futuro trionfo della cultura cristiana. E bisogna dire che anche in modo paradossale questi presentimenti si sono realizzati. Certamente non nella forma rosea in cui la sognavano, ma in una forma tragica e sanguinosa, piena di sacrificio, ma certamente molto importante sia sul piano storico che spirituale. La cosiddetta rivoluzione socialista è stata la tentazione più tragica, il fiasco più colossale e più terribile in tutta la storia della Russia, che quasi non è arrivata a distruggerla fino alle radici. Sul corpo storico della Russia, come in un campo sperimentale, sono stati messi alla prova tutti i frutti maturi del pensiero utopico sociale europeo e innanzitutto il cosiddetto comunismo scientifico di Marx e dei suoi seguaci. Assolutamente falso che nella incivile Russia il marxismo, che era umano, sarebbe stato travisato perché il terreno non era adatto. E questo viene ripetuto molto spesso sia nei testi occidentali che anche nella nostra nuova stampa della perestrojka. Al contrario, tutto quanto è stato fatto in Russia dal regime comunista è stato fatto rigorosamente sulla base di Marx: è stata distrutta la proprietà privata, di norma con gli stessi proprietari, e su scala mai vista è stata nazionalizzata la produzione, hanno tagliato alle radici l’idiozia della vita della campagna, - questa è un’espressione di Marx su tutto ha dominato il piano statale che era garante dell’adempimento di questa realizzazione; scusate, tutto in base al piano il cui garante era il partito comunista insieme con i suoi organi repressivi. Noi abbiamo provato sulla nostra pelle il comfort di questa pianificazione razionale della sfera sociale che ha trasformato per decenni il nostro paese in un enorme lager dove regnava il lavoro servile. E' più o meno questo il prezzo che ha pagato la Russia e tutti i popoli che la abitano per le teorie d’avanguardia degli ideologi occidentali, dell’Europa occidentale, e dei loro epigoni russi sotto il potere della dittatura comunista. Oggi la Russia, che è passata attraverso la morte e che lentamente torna alla vita, cerca di raccontare al mondo la propria esperienza terribile e ammonitrice; cerca di dire che l’uomo quando viene strappato dalla tradizione, si trasforma inevitabilmente in una bestia e la società che ha costruito secondo un piano razionale diventa una camera di tortura. E la Russia, che si sta risvegliando alla ricerca della guarigione della sua anima storpiata, del suo corpo, ritrova di nuovo a tentoni l’appoggio cristiano. Serve questa esperienza alla nuova Europa che oggi si sta creando? Io penso che sia assolutamente indispensabile al nuovo pensiero europeo che sta tornando alle proprie radici cristiane. Se non terrà conto di questa esperienza russa in tutte le sue ampie dimensioni, lo posso dire con certezza, questa nuova Europa è minacciata da nuove e svariate tentazioni intellettuali e morali e di un utopismo sociale. E Dio non voglia che nessun altro paese europeo debba verificare su se stesso l’inconsistenza e l’esistenzialità di questo esperimento. L’esperienza russa ha dimostrato con spietata chiarezza che distruggendo la linea verticale cristiana nell'animo umano e nella coscienza sociale in quanto tale, tutti gli altri valori che su questi si reggevano, cioè la morale, la legalità, la giustizia sociale, durano ben poco. Come aveva scritto una volta Dostoevski: "Se si dimentica della sua origine cristiana, l’umanitarismo è soltanto un'abitudine, un frutto della civiltà, ma può essere dimenticato facilmente". Il recupero di questa linea verticale cristiana nell’animo umano è l’unica alternativa in grado di salvare il mondo contemporaneo che è sull’orlo dell’abisso e dunque è un compito comune di tutti i cristiani, anche mio e vostro. E di fronte a questo compito si offusca e si risolve da solo il vecchio problema dei rapporti fra la Russia e l'Europa. Alla fine l’amore, come ha scritto un pensatore russo, è la suprema metodologia della conoscenza, e io vedo chiaramente come qui a Rimini essa dia già dei frutti spirituali. E in conclusione io mi permetto di esprimere la certezza che questo processo vivificante di unione fraterna dei cristiani nello spirito dell'amore crescerà e prenderà sempre più forza e alla fine riuscirà a trasfigurare il volto del mondo contemporaneo. Perché Dio è con noi.

N. Genghini:

Credo che la vostra reazione alle parole di Borisov sia la miglior testimonianza della nostra gratitudine per il suo intervento, per la grande delicatezza e sensibilità delle sue parole e per quella vibrazione, quell’accento particolare, mediante il quale in modo eloquente Borisov ci ha testimoniato che la grande cultura russa è una cultura vivente, ha un corpo e non è semplicemente consegnata alle grandi pagine dei romanzi di Tolstoi di Dostoevski che noi tutti più o meno abbiamo letto. Ora la parola al professor Carlo Sini.

C. Sini:

Ogni qualità dell’uomo, anche i doni più grandi dell’uomo, anche le capacità più specifiche, più sue, più alte possono essere sia un bene sia un male. Ecco io vorrei partire da questa considerazione. Cioè ogni nostra facoltà reca salvezza, è in sé creazione vitale, ma anche porta con sé un pericolo. E io vorrei esemplificare con tre di queste facoltà tipiche dell’uomo: la libertà, la libera volontà, che ha certamente in sé il pericolo dell’ari l’amore, che ha certamente in sé il pericolo del disordine e della follia delle passioni; e infine la ragione, che ha in sé il problema dell’intellettualismo, del nichilismo, dell’astrazione formale morta. Un antico consiglio suggerisce di armonizzare le qualità dell’uomo: l’amore, la volontà, la libertà, la ragione e il consiglio è certamente buono perché mira al risultato, cioè ad un ethos, ad un’etica complessiva della saggezza, dell’armonia. Però, vedete, a me sembra anche, il consiglio sia praticamente inefficace perché non riesce a tradursi in pratica, si riduce spesso ad un’esortazione retorica, perché ognuno di noi ha in sé una vocazione, una chiamata preminente, sia essa dell'amore, sia essa della volontà, sia essa della ragione. Come frenare per esempio la ragione in un uomo che ne senta il prepotente, l’incoercibile, il nobile richiamo? E così come frenare la vocazione alla libertà, all’amore in vista di quei pericoli che prima richiamavo? Forse che noi potremo opporre queste facoltà l’una all’altra? Ma vedete, l’esperienza insegna che ciò ha scarso successo. Se si tratta di una mortificazione coercitiva, poniamo della ragione, se si tratta di curarne l’eccesso con un’opposizione frontale, noi rischiamo di buttare via anche la creatività che è in questa chiamata, che è in questa vocazione, in questa passione. Oppure noi dovremmo avere una passione più alta. Vedete questo è il problema che oggi molto spesso è dibattuto nell'ambito di ciò che si chiama la bioetica: come limitare la scienza, come frenare la scienza, lasciando però che essa sia scienza? Ora io vi chiedo, e mi chiedo, ma si tratta poi proprio di frenare, è questa la soluzione? Io qui vorrei sostenere con voi che non è questa. Che la via di salvezza non sta in una mortificazione in un freno estrinseco. La via della salvezza è tutt’altra, per non dire l’opposta. Nel caso specifico che interessa me, la ragione può curare il suo pericolo non proponendosi un freno esterno e coercitivo, ma portando sino in fondo se stessa, con un eccesso di ragione - se mi consentite questa espressione - e così badate, io credo che sia anche per l’amore, la libertà. Che significa portare sino in fondo la ragione, così che essa incarnando la rivelazione del mondo dal suo punto di vista sfugga al suo pericolo, sfugga al nichilismo, allo scetticismo, allo strumentalismo, al relativismo; generi saggezza e non stoltezza, vita e non morte, cioè generi quella integralità della vita della ragione che è una delle più alte conquiste dell’uomo? Come curare l’eccesso della ragione e il suo pericolo quasi dicevo prima con un eccesso più grande? Ecco proprio il tema sul quale gli amici di Comunione e Liberazione ci hanno invitato stamattina a riflettere – l’irrazionale: una servitù necessaria - mi sembra emblematico. Un esempio molto utile per chiarire che cosa intendo con questa cura del pericolo della ragione con una fedeltà e un eccesso della ragione. E allora chiediamoci che cos’è l’irrazionale. Nell’affrontare questo tema a mio avviso ci si scontra subito con molte ambiguità, con molti sviamenti, con molti sogni che sono deliri. Molti credono che l’irrazionale nomini l’opposto della ragione e che perciò si tratti in sostanza di scegliere e cioè di militare per l’una o per l’altra, per la ragione o per l’irrazionalismo. E così alcuni scelgono o credono gli scegliere la ragione e disprezzano tutto ciò che secondo loro la nega o le si oppone e gettano il discredito, il ridicolo, la critica scettica, su tutto ciò che secondo loro si oppone alla ragione. E altri invece, all’opposto scelgono, o così credono, l’irrazionale e parteggiano come tifosi, per tutti quei fenomeni, tutte quelle testimonianze, fatti che secondo loro sono al di là della ragione, sfuggono alla logica, sfuggono alla scienza, testimoniano l’incomprensibile. E costoro godono a vedere dappertutto spiriti, fantasmi, segni soprannaturali e guardano di prevalenza al passato, odiano il presente con una faziosità partigiana e con un fanatismo spesso puerile e irresponsabile. Bene, a mio avviso entrambi questi atteggiamenti sbagliano profondamente e non comprendono né la ragione né l’irrazionale. Entrambi sbagliano per difetto, non per eccesso; per coraggio di pensiero. Sbagliano perché non si tratta di questa ottusa opposizione militante. Prendiamo i primi, i razionalisti. La cosa minore che si può dire circa questi razionalisti è che essi hanno un concetto molto ristretto della ragione, essi credono che sia razionale solo ciò che corrisponde al loro concetto di ragione, assolutizzato nella maniera più dogmatica. Gli esempi storici sono infiniti, ne farò soltanto uno. Quando Galilei puntò verso i cieli il cannocchiale, l’obiezione che veniva fatta dalla scienza ufficiale aristotelica, sillogistica, etc, era che il suo modo di studiare i cieli e la natura era irrazionale, non razionale, perché non corrispondeva infatti al concetto di ragione e di scienza che in quel momento era il concetto dominante. E sempre accade questo: si dichiara insensato ciò che non corrisponde al proprio senso, anziché esporsi al problema del senso Ag i ciò che non si conosce, che non si capisce perché altro e diverso da noi. Ora vedete in questo cosiddetto razionalismo la ragione umana non c’entra per nulla. Questo cosiddetto razionalismo è soltanto la facciata e il nome dietro il quale si nascondono la paura del mutamento, la paura del nuovo, della trasformazione che minaccia saperi, che minaccia poteri, gerarchie costituite, in una parola dietro questa formula del razionalismo non sta certo la ragione umana ma sta la paura della vita. Ma vediamo ora gli entusiasti irrazionalisti che di solito nella scelta morale si fanno un vanto di non volerla neppure giustificare, neppure, come dire, motivare. Questo irrazionalismo umorale non comprende due cose fondamentali. La prima è semplicissima ed è che l'irrazionale è un concetto della ragione, come l’ineffabile è un concetto del linguaggio. E’ la ragione in quanto determinata storicamente che ha sempre definito ciò che sarebbe in base a lei razionale e quindi il suo residuo che sarebbe l’irrazionale. Molti si ricorderanno che Emanuele Kant, il grande filosofo profondamente religioso, combattè nel suo tempo una dura battaglia contro la superstizione, quando egli sostenne: "Ma non c’è bisogno di invocare il miracolo per ogni fenomeno della vegetazione o della generazione, non è lì che vanno messi i misteri, non sono questi i fenomeni dell’irrazionale". Così vedete, quell’irrazionale che l’irrazionalista oppone enfaticamente alla ragione, è ancora una maschera della ragione anche se lui non lo sa. Non è che un residuo, un prodotto di scarto della ragione, ed è proprio la massima irrisione questa, che denuncia l’inconsistenza di ogni irrazionalismo fanatico compiaciuto di sé ma incapace del coraggio del vero e libero pensiero. E il secondo fatto che gli irrazionalisti ignorano, non comprendono, deriva da questo primo, non comprendono che proprio schierandosi per l’irrazionale ribadiscono, confermano quella ragione che combattono, perché è come se le riconoscessero che essa è appunto la ragione, che essa è la razionalità, così facendo accettano, implicitamente i suoi criteri; anziché denunciare i limiti di questo modo di intendere la ragione, la prendono per buona. E in questa ingenuità manifestano senza saperlo quello che sono, manifestano questa dogmatica accettazione di quella ragione, di quei criteri, di quelle unità di misura, e di quelle autorità che si credevano di combattere laddove non ne sono che il riflesso. Così quella istanza di rottura del dogmatico razionalistico, che pure c’è in un atteggiamento irrazionalistico, questa istanza di apertura all’esperienza si isterilisce in un’altrettanto dogmatica affermazione dell’incomprensibile, dell’impensabile che prende le sue misure da una falsa ragione e si rinchiude poi in una superstizione sterile. E così noi abbiamo due superstizioni: la superstizione della ragione dei razionalisti e la superstizione dell’antiragione degli irrazionalisti. Io credo che questo pericolo sia massimamente oggi tra noi, che questo sia un pericolo che noi corriamo sicuramente nel nostro tempo, un atteggiamento diffuso di fronte al quale si manifestano le umane e inevitabili servitù e non libertà. E credo che la filosofia abbia il compito e il dovere di denunciare questo pericolo. Posto così il problema allora cos’è l’irrazionale? Io risponderci in questo modo. L’irrazionale è il mistero. Ma badate, il mistero non sta al di là, al di sopra, al di sotto, altrove dalla ragione. Il mistero sta autenticamente nella ragione ed è la stessa ragione. Ma badate, lo stesso dovrei dire dell'amore, della libertà, della libera volontà, cioè di tutte le esperienze, di tutte le cose che sono rivelazioni del mondo, che vengono incontro all'uomo e che lo caratterizzano. E la ragione a sua volta non sta in mezzo tra gli eccessi o sopra o sotto. La ragione sta ovunque ci sia mondo e esperienza del mondo, così come ovunque sta l'amore e la libertà. Io ripeto spesso ai miei studenti: il mistero è l'evento della ragione. In verità il mistero sta in ogni evento, che viene incontro all’uomo e che richiama l’uomo a se stesso, alla sua originaria apertura nei confronti del mondo, del mondo cosmico e storico, naturale e sociale, personale e collettivo, in quanto questo mondo che viene incontro è per noi un cammino infinito di rivelazioni, un’incommensurabile realtà il cui senso è sempre infinitamente dietro, infinitamente avanti ma, ora viene l’aggiunta più importante: anche infinitamente qui. In ogni qui. E sempre qui: solo che noi abbiamo la purezza di pensiero, il coraggio e la forza di accoglierlo. Il senso del mondo quindi sempre si è rivelato all'uomo, l’uomo è questa rivelazione ma badate, dobbiamo aggiungere: rivelandosi e insieme nascondendosi. Il senso del mondo, è questo il mistero, si è sempre rivelato e insieme si è sempre nascosto nella sua stessa rivelazione, e perché si rivelava, e così come si rivelava. L’uomo ha sempre compreso il mondo, il cielo, gli oceani, la terra, gli animali, la vita, la morte, ma insieme a questo di volta in volta, in quanto la sua comprensione è sempre determinata, finita, anche non ha compreso. L’uomo delle caverne non comprende come l’uomo pro-storico, l’uomo delle religioni e delle filosofie storiche non comprende come l'uomo odierno della scienza e della tecnica, e l’uomo odierno della scienza e della tecnica non comprende come tutti questi uomini. Allora il mistero comincia a chiarire i suoi contorni estremamente sollecitanti. Noi siamo comprensione del mondo, ma quella comprensione del mondo è ancora un evento del mondo, appartiene al mondo e il mondo è più grande di ogni nostra comprensione, perché la contiene, perché è un suo evento, è un suo fatto. Ecco perché noi siamo di fronte ad un’infinità inesauribile del senso del mondo. Questo è il mistero: che la ragione è esperienza della verità del mondo, è vita della verità del mondo; la ragione degli uomini protostorici che comprendevano alla loro maniera, la ragione di noi occidentali che comprendiamo alla nostra maniera è certamente esperienza e vita della verità, ma non è mai la verità, questo è il punto. Questo, cari amici, è ciò che compete dire al filosofo. Non è mai la verità compiuta, conclusa, perché la verità non è una cosa di cui si possa avere il possesso. Ciò che chiamiamo verità è un Dio, è un cammino di rivelazione. Ma voi potreste dirmi giustamente, come se la mette la filosofia con la sua tradizione, come se la mette l’occidente con la sua tradizione filosofica razionalistica? E io a mia volta potrei aggiungere: ci riguarda tutti. E come se la mette il cristiano con la sua rivelazione dell'amore, della libertà, con la sua tradizione, se è vero ciò che abbiamo detto della verità poc’anzi? Io tradurrei il problema così, diventa più concreto ed è stato più volte toccato in questo Meeting: come si può comprendere il pluralismo nel suo senso autentico? Badate, quel pluralismo che nessuno rinnega, almeno qui, per fortuna. Io comincerò con l’indicare due modi, secondo i quali a me sembra che il pluralismo non sia compreso nel suo senso autentico. Il primo modo non autentico è quello che riduce il pluralismo sostanzialmente ad un relativismo, scettico, nichilistico, utilitaristico, pragmatico, ma questo è quello che già si fa, cari amici, è quello che già viviamo, e questo non è nient’altro che l’esibizione di quella mancanza di senso e di fondamento, perché se la ragione è tutte le ragioni, se la verità è tutte le verità ed è indifferente quale ragione o quale verità, non c’è più nessuna ragione e nessuna verità. Ma non autentico, consentitemi di dirlo, è anche quel pluralismo che concede all’altro l’espressione della sua verità, ma tiene per se, nel suo cuore, la certezza indiscussa che però l’altro sbaglia e che è mia la verità. Questo pluralismo non solo non è autentico, ma finisce per rispecchiare quell’altro per essere come l’altro; più nobile ma, in fondo, strumentale come l’altro. Ecco io credo, spero, che qui si comprenda quella fecondità dell'eccesso che io difendevo all’inizio come apertura al mistero, alla comprensione del mistero del mondo. Il suo essere uno, sempre ovunque uno e al tempo stesso plurale, molti modi di senso. Io credo che una feconda esperienza del pluralismo debba consistere in ciò, appunto in un eccesso. Il cristiano per esempio, e faccio questo esempio per farmi capire, nella misura in cui l’esperienza dell'amore gli è peculiare, è fedele al pluralismo con un eccesso del suo amore, non con una rinuncia o con una modificazione o con un'accettazione scettica delle altre maniere di intendere l’amore. Con un eccesso, cioè portando fino in fondo la sua esperienza dell'amore, cioè portando l'amore alla sua incondizionatezza. La sua vocazione così testimonia un amore senza condizioni, il suo, non quello di un altro. E mi pare che l’esempio che qui ha portato don Gelmini sia perfettamente di questo tipo. Il filosofo, deve fare altrettanto, deve portare fino in fondo la sua esperienza della verità, radicarla in un eccesso benefico, facendo della ragione una vita di comprensione senza condizioni, senza neppure le sue, che saranno le prime a essere oggetto di meditazione e di critica. Allora egli potrà testimoniare praticamente, eticamente questo suo modo di abitare il mondo, di vivere con gli altri e la comprensione degli altri ricordando a tutti che c'è comprensione, ma che la comprensione non si riduce mai a questa o quella comprensione, a questo o quel contenuto chiuso in sé, ma che la comprensione è un evento il cui mistero è l’irrazionale stesso della ragione, cioè qualcosa di intrinseco e non di estrinseco e a lei opposto. E allora i contenuti del comprendere della filosofia occidentale, ma anche quelli delle infinite culture che hanno manifestato la capacità umana di comprendere, tutti questi contenuti sono segni, vie, tracce della rivelazione del mondo, esattamente come ogni uomo è il mondo e insieme ogni uomo è la sua fragile contingenza, ogni uomo è la manifestazione incarnata del mondo. E allora vedete in questa comprensione del pluralismo nessuno ha motivo di abbandonare se stesso o di dimenticare la propria tradizione, perché la molteplicità e la differenza è l'essere stesso del mistero del mondo, è il dato originario. Nell'essere stesso del suo mostrarsi, nella molteplicità enigmatica, nella differenza, nell'universo di miliardi di soli, nella storia di migliaia di secoli, nessuno ha motivo di abbandonare se stesso, ma tutti oggi abbiamo motivo di approfondire noi stessi, di approfondire il senso misterioso della nostra differenza, perché solo per questa vita possiamo aprirci alla comprensione del nostro destino e dell’altrui destino, del nostro modo di incarnare per tutti l’esperienza della verità. Il Meeting ha usato una famosissima espressione di Shakespeare come uno dei suoi slogan più belli. Ecco quello che io sto dicendo vorrebbe leggere quello slogan shakesperiano così: badate, non soltanto ci sono più cose nell’universo di quante non ne possa immaginare la filosofia di Orazio, ma ci sono più misteri nell’universo di quanti non ne possa stabilire ogni dogmatica e ogni esperienza umana e questa appunto è l’esperienza del mistero della ragione, quella che il filosofo deve incarnare. Il mistero non si può chiudere in un’espressione finita se non uccidendolo, il che significa uccidere la vita stessa, perché il mistero non è un'esperienza finita, ma è la sostanza di ogni esperienza finita. Il filosofo è colui che deve dire a se stesso e quindi mostrare agli altri che la verità non gli appartiene ma piuttosto lui, come tutti gli uomini appartiene alla verità che appunto è del mondo, che è proprietà del mondo e che sovrasta enigmaticamente ogni umana esperienza della verità. Ma diciamo mondo ma con una parola che gli uomini incomprensibilmente e misteriosamente pronunciano da tempo immemorabile e che il filosofo non deve temere di nominare perché essa non vale per lui, per la sua parola, per la sua vita, con una risposta che neghi il pensiero, ma anzi come un’apertura, un'origine del senso stesso della sua ricerca. Con una parola possiamo allora dire che il filosofo è colui che testimonia con la sua pratica senza condizioni del pensiero, con la sua etica del pensiero, che la ragione e la verità della ragione non appartengono alle ideologie razionalistiche, né alle ideologie dell’irrazionalismo, ma appartengono propriamente all’infinita, non circoscrivibile e sempre vivente presenza e manifestazione di Dio.

N. Genghini:

In conclusione mi permetto di aggiungere due parole, semplicemente perché nel corso delle due esposizioni sono stato colpito da alcune espressioni e da alcune frasi e me le sono appuntate. Esse non hanno il valore di una conclusione perché quest'incontro è stato particolarmente eloquente e non ha bisogno di commenti ulteriori. Borisov ha chiarito uno dei germi dell'irrazionalismo della storia moderna e contemporanea, cioè che il misconoscimento delle comuni radici cristiane dell'Europa conduce il pensiero, conduce la repubblica delle lettere, come dice il nostro grande amico Augusto Del Noce, a fissare in modo arbitrario l’itinerario, perfino geografico, lungo il quale il mistero della verità si svela. C’è un’espressione di un grande filosofo tedesco del secolo scorso Hegel, secondo la quale i popoli slavi non avrebbero mai preso parte all’epifania del vero nella storia, sarebbero stati irrimediabilmente esclusi da questa epifania. Egli naturalmente identificava nel popolo tedesco il popolo che avrebbe ospitato la pienezza dell'epifania del vero. La grande cultura russa che Borisov ci ha ricordato in modo così intenso e appassionato, ci ha invece provato come, mentre l’occidente andava obliando la sua radice, essa è rimasta come una dimora sicura, un riparo sicuro per le radici che l'occidente andava dimenticando. Un’altra cosa che mi ha particolarmente colpito di Borisov, e che immagino ci sia suonata particolarmente cara alla nostre orecchie, è quando egli ha accennato al debito che l’occidente ha contratto col cristianesimo, perché la ragione, cioè l’uomo libero e consapevole di se stesso, che è capace di resistere criticamente alle proprie passioni, che è capace di scrutare con lungimiranza il mondo per vederne i nessi appena accennati, quest'uomo è un parto del cristianesimo. Nulla del grande patrimonio culturale occidentale, nulla della semantica dell'occidente, morale, religiosa, etica, nulla di questo rimane se non in quanto ancorato, agganciato alla radice cristiana, alla radice cristologica. Nulla delle splendide creazioni del diritto, della morale occidentali restano a lungo, cominciano inesorabilmente ad erodersi, se non vengono continuamente alimentate dal corpo dell’esperienza cristiana. E qui vorrei innestare alcuni accenni al bellissimo intervento del professor Sini, questa grande sfida che egli ci ha posto: la ragione cura se stessa, si cura dal precipitare in irrazionalismo proprio andando al fondo di sé per un eccesso di ragione, vale a dire andando al fondo di quel mistero che la costituisce. Questo eccesso di ragione è il significato di questo Meeting. Questo Meeting è dedicato alla ragione e vorrebbe davvero come invitarci ad un eccesso di ragione. In un tempo in cui la religione e il cristianesimo vengono riabilitate come delle utili terapie degli scompensi psicologici dell’uomo, come degli utili medicamenti alle nevrosi dell'uomo nei tempi di pausa della vita, la generazione che ha costruito il Meeting, ha incontrato il cristianesimo proprio come un eccesso di ragione, come una capacità, un’energica capacità di affronto della realtà. Il cristianesimo come un coefficiente di umanità e non come un depauperamento delle potenze, delle facoltà sensibili ed intellettuali dell’essere umano. Ecco sono particolarmente grato ai nostri due amici perché ci hanno fatto vedere la grande liberazione, il grande movimento di liberazione che il cristianesimo è nella storia.