Nuovo ordine mondiale: nuovo mito

Giovedì 29, ore 11

Relatori:

Hanna Siniora

Meron Benvenisti

Massimo D’Alema

Roberto Formigoni

 

Hanna Siniora, palestinese, cattolico di rito latino, editore.

Siniora: Vorrei assicurare tutti voi: i Palestinesi e i loro leaders (e vi è un unico leader possibile per i Palestinesi, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina), vogliono e cercano la pace nella giustizia. Dopo gli incontri fra rappresentanti palestinesi e americani, stiamo cercando di trovare un terreno comune per poter raggiungere l’organizzazione di una conferenza che abbia possibilità di successo. Per i Palestinesi vi sono alcune specifiche condizioni da osservare, e cioè che essi vengano trattati non come una minoranza né come i Palestinesi dei territori occupati da Israele in Cisgiordania, ma come un popolo che ha il diritto di scegliere la propria delegazione. Non possiamo presentarci a una conferenza come persone che accettano delle imposizioni e parlare con i rappresentanti di Israele che decideranno chi fra i Palestinesi può venire in quanto nostro rappresentante. Inoltre, vorremmo che vi fosse una definizione dei temi-base della conferenza. Noi sappiamo che il mondo intero, inclusi gli Stati Uniti ed il governo italiano, considera, come punto-base per la soluzione, la risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza che proibisce l’occupazione delle terre con la forza. Essa comprende tutti i territori e tutte le terre occupate nel ‘64, inclusa la parte araba di Gerusalemme. Questo deve essere uno dei temi-base per la conferenza. Inoltre vogliamo che il futuro di Gerusalemme venga discusso ed esaminato fin dall’inizio della Conferenza di pace. Noi consideriamo Gerusalemme come qualcosa che non appartiene soltanto ai Palestinesi: Gerusalemme è il centro delle tre principali religioni monoteiste, è assolutamente importante per la cristianità come per l’Islam ed è un centro importantissimo anche per gli Ebrei. Di conseguenza, quando verrà deciso il futuro di Gerusalemme, si dovrà prendere in considerazione il fatto che le tre religioni e, allo stesso tempo, anche i due popoli che vivono in Gerusalemme, devono poter ottenere la protezione e la garanzia dei loro diritti. È poi estremamente importante che quando ci siederemo intorno a un tavolo per poter negoziare in buona fede, il governo israeliano smetta con la sua politica degli insediamenti nelle terre che dovrebbero essere dello stato sovrano dei Palestinesi, perché in tal modo non farà altro che rendere più difficile una soluzione definita.

L’Europa ha giocato un ruolo da pioniere e il Primo Ministro Andreotti, fin dal 1980, ha premuto per una soluzione basata sulla Dichiarazione di Venezia che riconosce il diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese e della partecipazione dell’Olp, in quanto suo rappresentante.

Da parte israeliana abbiamo constatato una posizione estremamente rigida. Essi si sono rifiutati di discutere il futuro di Gerusalemme negando non soltanto i diritti dei Palestinesi, ma anche il suo significato religioso internazionale. L’Europa e gli Stati Uniti, ma soprattutto il popolo israeliano e il suo governo, dovrebbero lavorare per aiutare i Palestinesi a raggiungere la libertà e l’indipendenza affinché si creino delle istituzioni democratiche per prevenire nuove guerre e portare pace e stabilità nel Medio Oriente.

Meron Benvenisti, israeliano, già vicesindaco di Gerusalemme.

Benvenisti: Il Medio Oriente, dopo la guerra del Golfo, non rappresenta un nuovo ordine mondiale, ma piuttosto il vecchio sistema sbagliato di tribù che brandiscono bandiere, tribù che sono gli stati, e che giocano fra loro, ma senza avere già in mente una soluzione. Dobbiamo una volta per tutte capire qual è la natura del conflitto arabo-israeliano. Dopo settant’anni di tale conflitto e dopo quarantatre dalla creazione dello stato israeliano e dal rifiuto dei Palestinesi di creare il proprio stato, ci troviamo di fronte a due diversi conflitti: uno è un conflitto fra stati, cioè fra Israele e i paesi arabi, e l’altro è un conflitto che chiamerei intercomunitario, cioè fra le collettività, fra Ebrei e Palestinesi.

Il conflitto fra gli stati è un conflitto normale di interessi, quasi non ideologico, che potrebbe raggiungere un suo componimento; ne sono un esempio il processo di pace fra Isreale e l’Egitto e la firma di un accordo di pace fra i due Paesi. Si è potuti arrivare a questo perché il conflitto fra Israele ed Egitto non conteneva nessun elemento ideologico, né metteva in questione degli elementi di fondo. Il conflitto fra Israele e Palestina è invece un conflitto totalmente diverso, perché mette in gioco dei valori assoluti. Vi sono due comunità nazionali che vivono nella stessa terra madre e che lottano, si scontrano non in una guerra convenzionale fra eserciti, che può giungere in ultima analisi a un accordo di pace, ma piuttosto in un continuo scontrarsi fra popoli. Ciò non si limita al livello politico, ma riguarda l’esistenza di intere popolazioni. Non è soltanto un conflitto politico che riguarda la terra, è un conflitto che comincia già al momento stesso in cui nasciamo e che termina soltanto nel cimitero. E l’esempio di tutto questo è proprio Gerusalemme. Gerusalemme è unicamente un simbolo, i problemi materiali possono essere risolti molto facilmente; i problemi che non possono essere risolti sono piuttosto quelli che derivano dallo scontro fra interessi simbolici. E questi non hanno niente a che fare con il campo religioso; non è una lotta fra l’Islam, il Cristianesimo o il Giudaismo: il problema in Gerusalemme, oggi, è lo scontro fra i nazionalismi e riguarda temi come la sovranità che è un concetto secolare. Sono due conflitti veramente diversi, che vengono invece uniti dagli Americani; ben presto vedremo se la dinamica del negoziato fra Israele e la Siria si rallenterà o addirittura se il processo verrà impedito dal conflitto fra Israele e Palestinesi. Il fatto che questi due conflitti siano stati messi insieme dimostra che non abbiamo imparato niente.

Se un conflitto è un conflitto fra stati, questo può essere risolto attraverso una conferenza di pace; mentre, invece, un conflitto fra comunità può essere risolto unicamente dalle comunità che vivono su queste terre e non può assolutamente essere incapsulato nel gergo diplomatico: è un conflitto che riguarda i timori più fondamentali, più basilari e mette in gioco il modo di sentire di due popoli che considerano minacciata la loro identità. La speranza di una soluzione per il conflitto israelo-palestinese, unicamente basata sul fatto di sederci attorno a un tavolo in una capitale al di fuori di questi Paesi, è del tutto infondata. Infatti, anche mentre io sono qui seduto di fronte a voi, mentre vi sto parlando e mentre Hanna Siniora vi sta parlando, in questo stesso momento, noi non parliamo come se parlassimo fra di noi, perché partiamo dall’assunto che io devo presentare la mia causa, egli deve presentare la sua causa e voi siete i giudici. E non è così che si potrà mai risolvere una questione che ha a che fare con il mio modo di sentire il mio diritto assoluto e il modo in cui Siniora sente il suo stesso diritto assoluto: chi può giudicare questi diritti assoluti? Temiamo, anzi, che forze esterne ci imporranno una soluzione attraverso questo tipo di dibattiti e anche questo non va nel processo di pace. Non parliamo uno all’altro, ci parliamo unicamente perché il signor Baker viene e cerchiamo di ottenere ciascuno una buona votazione. Di conseguenza, l’intero processo è futile. Io non voglio dire con questo che la Conferenza sia una chance da trascurare, né che mai Isreaeliani e Palestinesi troveranno la pace. Credo che dobbiamo aspettare che un tale processo maturi e dia frutti. Non siamo ancora a questo stadio. È vero che i Palestinesi sono oppressi dagli Israeliani, ma è anche altrettanto vero che gli Israeliani non saranno mai in grado di godere di questa loro vittoria: ambedue allora ci troviamo in una situazione veramente miserevole, disperata. Soltanto quando ci si capirà gli uni gli altri, quando ambedue capiremo che il destino stesso ci ha portato in questa situazione e che dobbiamo imparare a vivere fianco a fianco per sempre, nella stessa terra e che il solo vero problema è la qualità della coesistenza, soltanto allora cominceremo a cambiare; ma sarà un processo molto lento, tanto lento quanto quello dell’annessione da parte di Israele. Se non impareremo a vivere insieme, finiremo per morire insieme. Io sono convinto che i Palestinesi non possono distruggere Israele, malgrado questa continua, latente paura che ogni ebreo ha di essere annichilito, completamente annientato dal mondo arabo. Non vi è neanche nessun reale pericolo che i Palestinesi possano venir distrutti. Di conseguenza, la sola vera questione da affrontare attualmente non è la formula che verrà utilizzata per designare tale o tal altro membro della delegazione, né quale sarà la nostra risposta al signor Baker. La questione è sapere come giungeremo a capire che dobbiamo imparare a vivere insieme in questa terra: questo è il punto fondamentale di fronte al quale ci troviamo e dalla cui soluzione dipende tutto. Dunque, nessun nuovo ordine mondiale ma il vecchio ordine, così com’è, dovrebbe essere rettificato, volta per volta, dalle parti che sono immediatamente interessate.

Massimo D’Alema, vicesegretario del PDS.

D’Alema: Voi mi consentirete, prima di venire alle questioni che sono state sollevate e che sono al centro di questo dibattito, di dare qui una brevissima risposta alle polemiche, per la verità sconcertanti, che hanno accompagnato l’invito a partecipare a questo dibattito, invito che noi abbiamo non solo accolto ma considerato un fatto gradito. Non ho e non abbiamo risposto in questi giorni né a polemiche né ad intimazioni; addirittura vi è stato chi ha detto di considerare l’accettazione di questo invito segno di involuzione: il fatto di essere qui sarebbe una battuta d’arresto del rinnovamento del nostro partito, cosa che considero davvero strana, come se, in qualche modo, ci fosse qui il rischio di un qualche contagio stalinista!(1)

Queste polemiche sono inaccettabili e non solo per la ragione ovvia che ci sentiamo e siamo un partito di persone libere, un partito che, nel suo rinnovamento e nel suo impegno a costruire una nuova identità della sinistra, è vitalmente interessato al dialogo, ma anche perché le polemiche nascono da un difetto provinciale della politica italiana, dal fatto, cioè, che non si concepisce la possibilità di un confronto che sia fatto di idee, di valori e di proposte. E tutto deve essere interpretato nei termini di un patto di potere. Ecco, se è questo che si teme da certi ambienti della cultura e della politica laica e socialista, io vorrei rassicurare: non ho nulla da offrire e nulla da chiedere dal punto di vista del potere e certamente noi siamo interessati a che questa discussione non avvenga all’insegna dello strumentalismo e del trasformismo. Come forse, lasciatemelo dire, altri, invece, nel passato, hanno fatto, discutendo con voi un po’ sotto questo segno. Ci interessa il confronto delle idee, la ricerca di punti di vista e di valori che possono essere comuni e ci interessa tanto più di fronte agli sconvolgimenti del mondo e alle grandi responsabilità che essi propongono. Sarebbe davvero curioso se la caduta degli steccati e delle grandi contrapposizioni ideologiche della guerra fredda facesse venire meno le idee e lasciasse in piedi gli steccati; bisogna far cadere gli steccati e possibilmente far circolare le idee. E noi abbiamo sperimentato, nei mesi scorsi, qualcosa che, forse, non sarebbe stato pensabile: il fatto che forze diverse per matrice culturale e politica, qual è quella che noi rappresentiamo e qual è quella che è rappresentata dal Movimento Popolare, si siano trovate insieme in una battaglia culturalmente molto difficile, come è stata la battaglia contro la guerra. Difficile, non facile; non era vero quello che scrivevano i giornali, che essere contro la guerra significava cavalcare una facile demagogia pacifista. In quei giorni la demagogia era interventista e guerrafondaia, l’opinione pubblica era spinta in quella direzione – tanto è vero che, poi, la maggioranza dell’opinione pubblica, così dicono i sondaggi, nuova legge e nuovo valore della politica italiana, si schierò a favore della guerra. Per questo dico una battaglia difficile, culturalmente controcorrente e non nel nome di un pacifismo astratto o, come allora si disse, per quanto riguardava noi, di un residuo di cultura terzinternazionalista, antiimperialista, antiamericana. Non siamo antiamericani, siamo convinti, eravamo e restiamo convinti che la guerra non avrebbe risolto i problemi di fondo, eravamo anche convinti che la guerra avrebbe fatto morire molte persone. Ora non so se questo sia un pacifismo astratto o tolstojano, tuttavia è qualcosa che non ci lascia indifferenti. Riteniamo che si debba combattere per evitare che muoiano migliaia di persone, quando è possibile risolvere i problemi senza ricorrere alla guerra. Oltre a grandi distruzioni, abbiamo corso e corriamo il rischio che, in modo ancora più profondo, si scavi un varco di incomprensione fra mondi diversi, che si incoraggi l’estremismo e la disperazione.

Noi siamo vitalmente interessati alla comprensione con questi popoli. Queste sono state le ragioni politiche della scelta contro una guerra che non avrebbe risolto i problemi. L’altra via, quella della politica, era più difficile: significava l’embargo, l’isolamento internazionale, la capacità di un’iniziativa coraggiosa che togliesse dalle mani di Saddam Hussein l’unica bandiera che egli avesse, quello di difensore della causa e della dignità del mondo arabo. La politica significa una capacità dell’Occidente e dell’Europa di aprire col mondo arabo e con il Sud del mondo una collaborazione seria che affronti il problema delle risorse, del costo delle materie prime, della qualità dello sviluppo; che dia sostegno ai processi di democrazia e non ai regimi, comunque essi siano nella logica della realpolitik, al dialogo fra culture, unica via per costruire davvero un nuovo ordine mondiale che non sia un ordine di polizia, che non sia soltanto una forza militare che, di tanto in tanto, vada a mettere ordine soprattutto quando sono minacciati gli interessi dell’Occidente. Questa strada è più difficile perché mette in discussione i modelli culturali e di sviluppo del mondo occidentale e non in senso astratto e ideologico. Chi sceglie questa strada, infatti, non può unirsi alla pura e semplice apologia del capitalismo trionfante, ma deve sapere vedere, proprio nel momento in cui vince la democrazia e vince la libertà, i grandi problemi e le responsabilità nuove che pesano sulle spalle del mondo occidentale.

Allora, se questa è una politica per costruire la pace, cosa diversa dal pacifismo di principio che rispetto, ma che non è la mia cultura e non posso vestirmene in modo trasformistico, io penso che intorno a questo possano unirsi culture e forze diverse. E penso che la questione palestinese e israeliana sia davvero un banco di prova oggi essenziale.

È sicuramente vero che ciò che lacera il Medio Oriente è l’intreccio fra due conflitti, uno fra Israele e gli Stati arabi, l’altro fra la comunità e il governo israeliano e il popolo palestinese. È anche vero, però, che qui sta, forse, l’errore più tragico compiuto dai governanti di Israele e cioè l’idea che il conflitto fosse quello con gli Stati arabi e che la questione palestinese potesse essere semplicemente rimossa e cancellata. È l’idea che il processo di pace potesse passare attraverso tanti Camp David, come processo di pace con gli Stati arabi, isolando il popolo palestinese e comprimendone i diritti. In realtà, il cuore del problema sta nella questione palestinese e il cuore del processo di pace dovrebbe stare nel dialogo fra Israeliani e Palestinesi. La Conferenza internazionale è necessaria perché deve creare una cornice di garanzia internazionale, per la sicurezza di Israele e per il diritto dei Palestinesi. È essenziale, perché non deve essere più consentito a nessuno stato arabo di strumentalizzare i diritti e le sofferenze dei Palestinesi nel modo più cinico, come ha fatto Saddam Hussein. Quindi, nel quadro della Conferenza internazionale il punto cruciale è "quel" dialogo.

D’altra parte continuo a pensare che in quella parte del mondo, se ci sono due popoli che possono intendersi sono, forse più di altri, Israeliani e Palestinesi. Sono due popoli divisi da uno scontro tragico, ma anche uniti da un destino drammatico, sono due popoli che hanno conosciuto la diaspora e non c’è dubbio che, da tutti i punti di vista, nel mondo arabo i Palestinesi rappresentino la parte culturalmente più avanzata, più viva, più cosmopolita, più moderna, più aperta alle idee della democrazia. Non si riesce a comprendere come mai tra due popoli che hanno questi tratti comuni non si riesca ad avviare un processo di intesa. In questo c’è una grande responsabilità dei gruppi dirigenti d’Israele, nell’idea di poter rimuovere la questione palestinese e il diritto dei Palestinesi. Ha ragione Hanna Siniora: oggi i nodi sono questi, non può pensare Shamir di scrivere lui i nomi di quelli che devono rappresentare gli "altri" al tavolo del dialogo. È diritto dei Palestinesi decidere da chi vogliono essere rappresentati, nelle forme possibili per un popolo oppresso, diviso. La Comunità internazionale deve operare per superare un impedimento che è inaccettabile sotto il profilo della logica, del diritto, della dignità di questo popolo. Come pure è vitale l’altra questione: se la posta in gioco è anche quella della possibilità per il popolo palestinese di avere una patria, se la posta in gioco è quella del ritiro di Israele dai territori occupati, come vogliono il diritto internazionale e le famose risoluzioni dell’Onu, certamente non si può pensare di discuterne mentre centinaia di migliaia di persone vengono insediate dal governo israeliano in questi territori, con l’obiettivo dichiarato di rendere stabile quella occupazione.

Voglio sottolineare anche il valore positivo che ha avuto l’iniziativa per l’avvio di un processo di pace presa dal governo americano, e anche il valore positivo di una pressione esercitata sul governo israeliano dagli Americani; tuttavia io vedo in questo processo due grandi assenti: uno è la Comunità internazionale. Ripenso ai giorni della guerra del Golfo. Ci avevano detto che, se si faceva la guerra, da quel giorno in poi l’Onu avrebbe comandato nel mondo. Era il banco di prova per affermare il governo mondiale. Non è stato così. Che fine hanno fatto le Nazioni Unite? In realtà la politica di potenza non dà forza agli organismi della cooperazione internazionale. L’altra presenza debole oggi è quella dell’Europa. Hanna Siniora ha avuto parole di riconoscimento giuste, vere; l’Europa ha avuto una funzione positiva, importante, ma certamente oggi, nel momento cruciale in cui bisogna spingere perché si avvii il dialogo della pace, l’Europa non è all’altezza del compito che potrebbe e dovrebbe svolgere. Anche da qui può venire una spinta e una sollecitazione. La questione del Medio Oriente, la sicurezza di Israele, i diritti del popolo palestinese, sono una grande questione che non divide la politica italiana, né il popolo italiano. Credo si possa dire che su questi problemi così importanti per il nostro paese, le grandi forze democratiche, la Democrazia Cristiana, il Partito Socialista, noi, abbiano in momenti essenziali trovato un linguaggio comune e compiuto scelte comuni. Considero questo un patrimonio positivo: il popolo italiano e le grandi forze democratiche del nostro Paese hanno lavorato e si sono impegnate per la solidarietà, per il riconoscimento dei diritti dei Palestinesi e, nello stesso tempo, perché questo avvenisse nel quadro di una garanzia per la sicurezza e per i diritti di Israele. Questa è stata la politica dell’Italia. Proprio partendo da questo patrimonio positivo io mi sento di rivolgere un invito affinché, anche da questo nostro dibattito, si muova una sollecitazione: che in questo momento così delicato l’Italia torni a svolgere, nella Comunità europea, nei rapporti con gli Stati Uniti, nei rapporti con Israele, una funzione importante di spinta e di sollecitazione per sbloccare il processo di pace e per metterlo nella direzione giusta. La pace è possibile se si rinuncia alla pretesa di calpestare i diritti e la dignità del popolo palestinese. Oggi questo deve essere chiesto con fermezza dall’Europa, dall’Italia, dalla Comunità internazionale, a Israele e ai suoi governanti.

Formigoni: Il Meeting vuole e cerca, attraverso questo dibattito, di segnalare all’opinione pubblica italiana ed internazionale alcuni interrogativi sul cosiddetto nuovo ordine mondiale, sulla conferenza di pace che dovrebbe tentare di costruirlo nel Vicino Oriente; interrogativi che nascono soprattutto dal fatto che nelle settimane che dovevano preparare l’operazione "tempesta nel deserto", ci è stato ripetuto con grande insistenza che bisognava anzitutto sconfiggere l’Iraq e che poi si sarebbe tenuto conto di tutto il resto, intendendo per tutto il resto le tragedie che da decenni si sviluppavano in quella regione del mondo e si citava esplicitamente il problema del popolo palestinese, il suo diritto, il problema del popolo libanese, il conflitto arabo-israeliano. Affermazioni e impegni, questi, solennemente e meritoriamente ripresi dal presidente americano Bush pochi giorni dopo la conclusione del conflitto, in un discorso estremamente condivisibile e significativo; per parte nostra non mancammo di apprezzarlo allora e ci auguriamo sia ancora valido oggi. È passato però del tempo e a noi pare che lo scenario sia mutato e che alcuni elementi che allora erano, a parole, in primissimo piano, siano diventati, soltanto elementi di scenario.

Sono state dette molte cose tutte condivisibili da coloro che mi hanno preceduto. Hanna Siniora ricordava il diritto elementare a scegliere i propri rappresentanti, eppure questo diritto elementare è messo in discussione. Io credo che dovrebbe essere un punto d’orgoglio dei nostri governi e delle nostre culture riaffermare questo diritto fondamentale e che non si possa accettare che il governo israeliano continui non solo a permettere ma a favorire l’insediamento di decine di migliaia di ebrei-sovietici, persone che certamente hanno diritto ad una loro patria e ad un lavoro, ma che non possono vedere riconosciuto questo diritto a spese dei Palestinesi. Ho nettissime le impressioni e le esperienze di un mio recente viaggio in Israele tra il mese di maggio e giugno: venivano espropriati della casa e del lavoro cittadini che, in quelle terre, abitavano da tempo. Parlando con parecchi di questi profughi dell’Unione Sovietica mi sono sentito dire con nettezza che il desiderio di parecchi di loro non era quello di rimanere in Israele. Avevano abbandonato l’Unione Sovietica puntando chi agli Stati Uniti, chi al Canada, chi all’Australia chi ai Paesi europei e si lamentavano del fatto che il governo israeliano presentasse loro dei documenti in cui firmare l’impegno a rimanere in terra israeliana, nei territori occupati almeno cinque anni. "Certo li abbiamo firmati quei documenti – dicevano – ma avremmo firmato qualunque cosa pur di poter uscire da una condizione di cattività che durava da quaranta o cinquant’anni; il nostro desiderio, però, non è di fermarci qui, è di andare altrove". È questo il problema palestinese.

Un secondo problema riguarda lo Statuto della città di Gerusalemme e dei luoghi santi fuori Gerusalemme. Quando si parla di Gerusalemme, si dovrebbe considerare il carattere sacro, universale ed unico della città; religiosamente Gerusalemme è un valore singolare e primario per ciascuna delle tre religioni monoteiste, è un tutt’unico storico e culturale: i luoghi sacri sono intrecciati tra di loro e non sono separati dal contesto globale della città storica. È evidente, allora, che il problema Gerusalemme non può e non deve essere affrontato esclusivamente e primariamente rispondendo alla questione di chi debba averne la sovranità, come fino ad ora hanno fatto lo stato di Israele e gli Stati arabi; il problema di Gerusalemme è quello di dare alla città uno Statuto internazionale che ne riconosca il carattere unico ed irripetibile così che nessuna parte, né oggi né domani, possa rimetterlo in discussione. Ho esposto personalmente durante il viaggio in Israele ai governanti di quel paese che la decisione israeliana unilaterale di dichiarare Gerusalemme capitale eterna ed indivisa appare contraria ai principi del diritto internazionale. Tale decisione, infatti, trae profitto da un’occupazione militare della città e non si fonda su di un atto giuridico internazionale e d’altra parte essa è stata dichiarata nulla o come non avvenuta da una risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’ONU.

Questi sono forse i due principali problemi, ma altri ancora val la pena considerare: cito la vicenda del Libano, di un popolo sottoposto per sedici anni ad una guerra di massacro e di invasione con oltre duecentomila vittime, con quasi un milione di persone immigrate. Oggi la guerra non c’è più, ma anche il paese, in qualche modo, non c’è più, privato della libertà, della sua sovranità, con un parlamento che ha ratificato la trasformazione in protettorato siriano, dopo essere stato rinfoltito, nei suoi ranghi, da deputati eletti non dalla base popolare, ma indicati dal vertice dal nuovo governo. I cristiani sono stati costretti all’esodo di massa, con le drammatiche vicende a cui abbiamo assistito in questi mesi, immediatamente prima e dopo la guerra del Golfo; ricordiamo le date emblematiche: 13 ottobre, conquista militare totale di Beirut da parte della Siria; 19 maggio, dichiarazione di amicizia permanente tra Siria e Libano.

Stamattina il patriarca Sfeir faceva un’osservazione che ho sentito ripetere ancora oggi: "Perché la Comunità internazionale, così sollecita nel difendere, a suo dire, il diritto di uno stato sovrano a non essere occupato e dichiarato annesso, come capitò al Kuwait nell’agosto scorso, non è stata altrettanto sollecita nel proclamare il diritto di un altro stato sovrano come il Libano a non essere occupato e annesso in termini assolutamente analoghi da parte della Siria?".

Credo che realmente il silenzio totale delle cancellerie di tutti i paesi del mondo nel maggio scorso sia una delle pagine più vergognose della nostra storia contemporanea: moriva un popolo.

Voglio aggiungere, come quarto punto, la situazione di milioni di donne e di uomini che vivono nelle regioni più ricche di materie prime essenziali, ma che soffrono di una condizione di emarginazione di sottosviluppo e di povertà che in alcuni casi rasenta la miseria. Chiediamo dunque che la Conferenza Internazionale tenga conto anche di questa situazione. Inoltre, da essa ci aspettiamo e auspichiamo il riconoscimento pieno del diritto del popolo israeliano a vivere con sicurezza entro i propri confini: nessuno di noi ha mai messo in dubbio tale diritto sacrosanto che, però, non deve ledere quello, altrettanto sacrosanto, di altri popoli. Credo che la testimonianza di Benvenisti, ex vicesindaco di Gerusalemme e non una voce isolata nel contesto del suo paese, bene abbia espresso gli intendimenti e la volontà di una parte consistente, forse la maggioranza, delle genti israeliane attraversate oggi da una volontà di pace e di convivenza pacifica nei confronti dei Palestinesi, uomini di religione e di nazionalità diversa, ma determinati a vivere fianco a fianco, nella pace e nella collaborazione.

Di fronte a queste tematiche esiste un preciso dovere della Comunità Internazionale ad intervenire con chiarezza. Per Comunità internazionale intendo diversi soggetti: l’ONU, anzitutto, se è vero che il suo ruolo è cresciuto dopo la questione del Kuwait; l’Europa, certamente, che non può essere assente o silenziosa, come purtroppo in questi ultimi mesi è stata, quell’Europa che pure coraggiosamente e in maniera preveggente nel 1980 con la Dichiarazione di Venezia prese una chiara posizione e sottolineò e rivendicò il ruolo dell’Italia, anche per la sua posizione privilegiata, sia geograficamente che storicamente e culturalmente.

Questi punti che oggi sottoponiamo all’osservazione di tutti non possono essere dimenticati dalle cancellerie, dai Ministeri degli Esteri, dai Governi. Allora l’incontro di oggi implica anche una dimensione politica inevitabile. Ai tempi della guerra e contro la guerra si realizzò nel nostro paese una vasta convergenza di forze diverse, una convergenza nuova e su basi culturali e politiche nuove. Coloro che polemizzarono contro il vecchio pacifismo non capirono, o fecero finta di non capire, la natura nuova del movimento che si era formato, movimento capace di sopravvivere ai bombardamenti a tappeto di uno schieramento politico ideologico editoriale fortissimo, mai prima realizzato nel nostro paese.

Ma oggi, almeno a parole, questo movimento a favore di una pace giusta dovrebbe essere ancora più largo di quello di ieri, perché, almeno a parole, i diritti dei Palestinesi, dei cristiani non sono contestati e negati da nessuno.

La mia è la proposta di lavorare in questa direzione, di pronunciarci; il muro di Berlino non è caduto una volta ma due volte ed è caduto perché ci sia più libertà, più giustizia, più cooperazione, non per sancire il diritto della forza, bensì la forza del diritto.

Spero quindi che questa seconda caduta definitiva del muro di Berlino, avvenuta in questi giorni, possa anche significare una parallela caduta dei muri che ancora vengono tenuti in piedi nel nostro paese per tentare di impedire il dialogo, il confronto e, perché no, la collaborazione su contenuti precisi, senza falsi scandali, senza strumentali polemiche. Ci si lamenta molto spesso dell’assenteismo, vero o presunto, della gente e poi, quando la gente si muove, la si vorrebbe incanalare su vie prefissate, la si vorrebbe conservare all’interno di gabbie predisposte da coloro che si arrogano il diritto di decidere per tutti. Benvenisti ha rivendicato per la sua terra il diritto di parlarsi da uomo a uomo; sarebbe curioso che questo diritto, valido per una terra attraversata da quei conflitti, non valesse nel nostro paese.

È cominciata l’epoca in cui val la pena di dialogare da uomo a uomo, di parlarsi, di confrontarsi, liberamente consentire o dissentire su punti precisi, ritrovandosi insieme come avvenne a Piazza S. Pietro il 13 gennaio di quest’anno, ad ascoltare e a consentire su un altissimo messaggio di Giovanni Paolo II, al Meeting di Rimini o alla festa dell’Unità o, quel che ancora è più importante e che già sta avvenendo per decine di migliaia di persone, incontrarsi e dissentire e acconsentire nella quotidianità della vita di fabbrica o della vita di ufficio, a scuola o in università.

Gente che si sta riprendendo il diritto di parlarsi da uomo a uomo e di scambiarsi le ragioni di una speranza o di una malinconia: questo è il fatto nuovo che sta avvenendo all’interno della società e che a nessuno dovrebbe dare fastidio.

 

NOTE

(1) Mi permetto una battuta: il Ministro degli Esteri mi ha diffidato. In un’intervista ha detto: "Ma perché D’Alema va a Rimini a discutere con gli ultimi dei Mohicani?". Non so perché sia avverso ai Mohicani, forse per ragioni di capigliatura; comunque, da qui, viene al Ministro degli Esteri una richiesta, un incoraggiamento: i Mohicani chiedono che il governo italiano si impegni in modo più serio per sostenere e spingere in avanti il processo di pace nel Medio Oriente.