Roma, Mosca, Milano, S. Pietroburgo:

opportunità e prospettive di una reciproca cooperazione

Martedì 27, ore 11

Relatori:

Livio Barnabò

Francesco Merloni

Vladimir Belinsky

Roberto Formigoni

Arnaldo Forlani

Moderatore:

Sergio Zavoli

 

Zavoli: Ci spiace innanzitutto dire che Zagladin non c’è, ma è largamente giustificato dagli avvenimenti di cui siamo tutti a conoscenza.

Non sarà una tavola rotonda di quelle di routine, nel senso che qui più che un confronto dialettico ricercheremo il valore dell’esperienza personale. A tema oggi saranno i grandi problemi del confronto, della convivenza e degli sviluppi di questo coesistere tra quello che fino a poco tempo fa è stato il mondo dell’Est con l’Ovest.

Livio Barnabò, sociologo, amministratore delegato di "Progetto Europa".

Barnabò: La difficoltà di dare respiro e prospettiva alle ipotesi di collaborazione e di integrazione tra le due Europe deriva dal fatto che, nel giro di due anni, dal 1989 ad oggi, una doppia incertezza si è sostituita ad una doppia speranza. Due anni fa in Europa occidentale si viveva la prospettiva del 1992 come un orizzonte positivo e risolutivo; nell’Est la perestroika e la glasnost, unitamente al grande fatto simbolico della caduta del muro di Berlino, sembravano indicare una strada difficile ma certa di rinascita. In sostanza si poteva pensare (e sperare) che il futuro dell’Europa potesse essere pensato e costruito nel dialogo tra due grandi soggetti nuovi: la Comunità da un lato e la nuova leadership sovietica dall’altro. Oggi all’Ovest il processo di unificazione del mercato europeo sta creando una situazione interna fortemente competitiva con un conseguente aumento della conflittualità tra i soggetti economici; all’Est la crisi economica viene, almeno nel breve periodo, esaltata dalle iniziative di riforma creando forti incertezze sui suoi possibili esiti.

Nell’Ovest come nell’Est, la situazione di incertezza mette in evidenza la debole legittimazione dei sistemi di governo, cui corrisponde una forte crescita della domanda di riconoscimento e di indipendenza delle società locali. Il rapporto tra centro politico e comunità locali è paradossalmente andato in crisi nel momento in cui il centro si è fatto promotore di una fase di riforme (l’Atto Unico per la CEE; la perestroika per l’URSS) e in entrambi i casi la crisi è stata preceduta da un momento di intensa adesione al progetto riformatore. La crisi trae origine da una mancata coincidenza tra offerta politica e attese della società: il centro offre una riforma degli assetti economici che lascia sostanzialmente immutato l’assetto politico; la società chiede il riconoscimento delle mutate condizioni sociali e culturali e un ripensamento dell’assetto politico istituzionale che la veda protagonista. In entrambi i casi la crisi trova ammortizzatori a tempo: nella forza dell’economia e nell’abitudine al gioco democratico ad Ovest; nella forza del governo centrale nella politica estera nell’URSS; nella fase di scoperta della nuova libertà negli altri paesi dell’Est più vicini all’occidente.

Per l’Europa occidentale questa situazione di incertezza comporta una possibilità di involuzione a breve. Tre rischi sono infatti evidenti: quello del passaggio da una visione epocale ad un tatticismo giocato sul breve periodo. Segni evidenti si trovano nelle strategie di azienda, ma anche nell’appiattimento della politica comunitaria, come nelle incertezze che si riscontrano nell’attività di governo in molti stati europei; quello di un rallentamento della crescita della dimensione comunitaria e di un rinserramento politico nell’ambito nazionale; quello, infine di un rafforzamento di posizioni conservatrici. A questo termine non va dato un senso assolutamente negativo: significa solo che potrebbero prevalere logiche di aggiustamento dell’esistente, senza lo sforzo di dare forma ad un nuovo progetto di Europa comprendente, in forme da definirsi, anche l’Est e senza cogliere il potenziale di modernizzazione che è oggi presente nella società.

Se questo accadrà il confronto tra le due Europe non avverrà a livello macro e globale, ma a livello micro e secondo una logica di forte segmentazione territoriale. Potrebbe determinarsi una situazione di rapporto Est-Ovest su un doppio binario: sui grandi temi dell’intervento e dell’integrazione strutturale il rapporto sarebbe tra USA e URSS; per l’Europa il rapporto si articolerebe in una logica di multilateralismo dove i soggetti primari (comunità regionali, imprese, singoli governi nazionali) darebbero (e già danno) vita ad una molteplicità di operazioni non coordinate. L’esito di questa situazione consiste nel fatto che, con molta probabilità, non avremo una realtà europea che si confronta con le realtà dell’EST, ma l’azione di singoli soggetti che saranno portati sempre di più a confrontarsi con due sistemi di riferimento nuovi: l’Europa unita da un lato; l’Est dall’altro.

Questa diversità di approccio al problema dell’Est che privilegia la moltiplicazione delle iniziative rispetto al grande piano organizzato con logiche di centralismo è forse il modo originale che l’Europa occidentale ha di affrontare il problema dell’Est. Il confronto con l’Est preso come realtà globale è probabilmente poco produttivo, come già i fatti più recenti hanno dimostrato (il problema della Slovenia non si risolve nel dialogo tra Comunità e Belgrado, ma nell’integrazione progressiva della Slovenia nell’area che va dal Friuli all’Austria, all’Ungheria; il dialogo con le repubbliche baltiche non passa per Mosca; l’annessione della Germania dell’Est non è stata gestita dalla CEE, e così via). La moltiplicazione dei canali e delle esperienze può dare l’impressione di confusione e di assenza di disegno, ma in realtà presenta tre vantaggi: "smonta" il problema dell’Est (forse in quanto tale inaffrontabile) in una somma di problemi limitati (ed affrontabili); fraziona di conseguenza anche il rischio, per cui la non riuscita di una serie di operazioni non pregiudica il movimento complessivo; premia la diversità culturale dell’Est come dell’Ovest, dal momento che in operazioni specifiche è più facile trovare immediate sintonie che in operazioni a troppi soggetti su tematiche troppo complesse.

Questa deregolamentazione dei rapporti tra le due Europe può essere (e sarà) un’esperienza vitale, ma può essere anche un’esperienza nella quale il vitalismo unito a visione a breve e ad interessi segmentati possono generare un clima di competizione esasperata nella quale potrebbero emergere più gli elementi di frattura che quelli di integrazione. Già oggi l’assenza di linee di indirizzo chiare a livello europeo finiscono per premiare i comportamenti dei pochi soggetti che hanno una propria strategia: alcune imprese sostenute dai governi nazionali stanno comprando ad Est le imprese più appetibili o si pongono in situazioni di monopolio di marchio su alcuni mercati; la Germania sembra tentare la creazione di fatto di un’area integrata centro-europea che va dalla Polonia alla Slovenia, passando per la Cecoslovacchia e l’Ungheria e troverà un rafforzamento nell’entrata dell’Austria nella Comunità; alcune lobby politiche funzionano da canali di procacciamento di affari sfruttando i contatti stabiliti per via politica. Il gioco segmentato e a breve respiro potrebbe non essere il modo in cui le "migliori intenzioni" finiranno per prevalere, con la conseguenza che l’integrazione potrebbe essere preceduta da un periodo di reciproco sfruttamento: con l’Ovest che cerca mercati a tempo e manodopera a basso costo; e l’Est che cerca beni di consumo, senza però ristrutturare la propria economia.

La forma di integrazione orizzontale, che sembra propria della cultura europea, va perciò integrata da una capacità di indirizzo che spetta ai soggetti che traggono la loro legittimazione dalla capacità di esprimere la dimensione gratuita dell’azione politica, economica e sociale: i governi, le Chiese, l’associazionismo. L’integrazione tra le due Europe è una occasione per ripensare anche la funzione ed il modo di operare dei soggetti di espressione collettiva. La legittimazione e il suo legame con il gratuito, cui siamo disabituati, vale per ciascuno di essi in modo diverso. Per i governi (quelli nazionali e quello comunitario) ciò significa: ridimensionare gli aspetti gestionali a favore di quelli di indirizzo, di quelli normativi e di controllo; indirizzo significa a sua volta non tanto somma di obiettivi, ma padronanza sicura della visione a medio-lungo termine; indirizzo significa anche concretare la visione in alcuni (pochi) progetti che siano fortemente esemplificativi della logica di integrazione, che fungano da volano non solo economico, ma culturale e il cui valore sia indipendente dal bilancio delle operazioni.

Per le Chiese l’Est è oggi il terreno di un ulteriore mutamento del senso della presenza: se in molte situazioni le chiese locali sono state il soggetto che più ha saputo esprimere capacità di resistenza, di difesa di un mondo di valori non solo religiosi, oggi questa funzione non è più così esaustiva e, nell’Est come nell’Ovest, esse vengono chiamate ad un compito fondamentale per la cultura dell’integrazione, che è quello dell’affinamento delle coscienze e della scoperta della spiritualità come fattore di giudizio della nuova fase di modernizzazione che l’Europa è in grado di intraprendere.

Per l’associazionismo c’è uno spazio di azione che deriva da due constatazioni semplici: innanzitutto la logica stretta di mercato è in questo momento insufficiente e potenzialmente disintegrativa se non viene accompagnata da una serie di interventi e di presenze attive che consentano un trasferimento reale di opportunità verso l’Est al di fuori del calcolo economico; in secondo luogo l’associazionismo è anche un canale dove lo scambio può prescindere dall’area dell’intervento economico, con una maggiore possibilità di mettere mutuamente in contatto realtà culturali e di alimentare un processo di reciproca contaminazione che porterebbe anche l’occidente a comprendere, apprezzare, fare proprie alcune risorse che l’Est ha elaborato.

Infine questo modello europeo del rapporto tra Est e Ovest, fatto di una moltiplicazione di occasioni, di soggetti, di azioni è una garanzia che, in via generale, si possano evitare recipoche radicalizzazioni e che il processo possa continuamente aggiustarsi imparando dal proprio stesso procedere. Questa è la strada che può farci uscire dall’incertezza che oggi proviamo. L’integrazione delle due Europe è un’avventura che ci consente di "ripartire da zero", perché ci costringe a ripensare in modo radicale le nostre economie, la nostra cultura, costringendo l’Europa a uscire da una sorta di sonno delle intenzioni che sembra averla appesantita troppo a lungo.

Francesco Merloni, imprenditore, parlamentare.

Merloni: I cinque anni di perestrojka hanno significato per l’Unione Sovietica un irrinunciabile passo verso la libertà, ma poco è stato fatto per soddisfare le necessità primarie della gente. La storia sovietica è stata condizionata dai fallimenti in economia. La nazione più ricca del mondo, dotata di impressionanti risorse naturali, di intelligenze sociali, di potenzialità industriali mai è riuscita a soddisfare le esigenze più elementari della propria popolazione. Una situazione che si è andata deteriorando negli ultimi tempi quando anche i cardini dell’economia russa, la raccolta dei cereali, l’estrazione del petrolio, del gas, del carbone, hanno accusato drammatiche cadute fino a portare la decrescita del prodotto interno lordo al -18% annuo. È stato proprio puntando sul malcontento, frutto di questa drammatica situazione economica, oltre che sul nazionalismo, che i golpisti hanno emesso il loro comunicato del 19 agosto. Ma le aspirazioni di libertà e di democrazia hanno contato più degli scaffali vuoti. Oggi, fallito il golpe, ogni previsione appare dubbia, incerta; l’impero sovietico si sta sgretolando, ma nelle scelte il problema centrale resta quello di una via economica equilibrata. Sono due temi fondamentalmente connessi tra loro: senza un equilibrio politico sarà difficile sviluppare una tale economia, senza prospettive economiche difficilmente ci sarà tranquillità politica. Mentre una nuova cultura, quella della democrazia, rappresenta ormai una realtà per il popolo russo, la strada che lo separa dall’economia di mercato è invece ancora lunga e complessa.

Lo scenario non è oggi dei più agevoli. In Russia infatti c’è libertà di espressione, di esternazione, ma non libertà d’iniziativa né in agricoltura, dove a tre secoli di distanza dalle teorie di Caterina II non si è ancora realizzata una vera privatizzazione dei fondi, né nei servizi, in primo luogo trasporti e commercio.

L’altra necessità che appare più urgente per lo sviluppo economico russo è quella di un preciso programma industriale che abbia nel decentramento produttivo uno dei suoi punti cardine. Di fatto, a tutt’oggi, l’unica vera direttiva espressa dal governo nel campo industriale è quella che chiede il passaggio da una struttura basata sulla produzione bellica ad una che abbia nelle applicazioni civili il suo punto di forza. Troppo vago e soprattutto troppo poco. Gli assetti occidentali ci dimostrano infatti che la cosiddetta riconversione bellica è spesso un’illusione. In realtà occorre ricostruire tutto da capo. È necessario invece in Unione Sovietica decentrare e sviluppare soprattutto la produzione dei semilavorati e dei componenti che oggi rappresentano il vero tallone d’Achille del sistema industriale russo. Ciò servirà anche per rompere l’autarchia delle grandi imprese che rappresentano dei piccoli imperi all’interno del sistema industriale russo(1).

Un ulteriore elemento di tecnica economica su cui è urgente incidere è quello della liberalizzazione dei prezzi. È auspicabile che ci si avvicini almeno ai costi industriali dei prodotti. Oggi non c’è corrispondenza tra costi e ricavi. Il prezzo del prodotto finito è fissato dal sistema di pianificazione sovietico. Se i costi produttivi sono superiori è lo Stato a pagare la differenza. Tale politica non solo ha aggravato l’economia centrale, ma ha reso nulla la legge dell’87 secondo cui le aziende dovevano autofinanziarsi in base unicamente ai propri prezzi. Così come sono stati annullati gli effetti della legislazione sulle joint-ventures. Sotto il governo di Gorbaciov ne sono state costituite 2.800 di cui 176 con contraenti italiani. Complessivamente ne sono oggi operative non più del 10% di cui nessuna nel settore industriale. Il motivo di tale insuccesso è dovuto all’obbligo imposto dal governo sovietico di ripagare attraverso l’export dei prodotti finiti tutti i finanziamenti necessari alla costituzione della società.

Il fallimento di leggi come questa dimostra che il maggior problema dell’approccio russo al libero mercato è la creazione di una cultura e di una mentalità adeguata. Quella russa per tradizione è una grande cultura umanistica, ma difficilmente essa si è esternata nel campo economico. A ciò va aggiunto che all’arretratezza del sistema sociale imperiale si sono sovrapposti 70 anni di comunismo che costituiscono un terribile retaggio di passività, di invidie sociali, di tendenze popolari all’egualitarismo, che è uno dei punti capitali dei problemi russi, il sospetto nei confronti di chi è disposto ad intraprendere ed a rischiare.

Se la formazione di nuovi consumatori non è certo un problema difficile, difficile è quello di creare manager ed imprenditori. Una creazione che implica necessariamente un cambiamento di mentalità. Oggi sono molti in Russia a puntare su se stessi come operatori e come capitani d’azienda, ma quando proponete loro un accordo, la prima domanda che vi sentirete porre sarà: che cosa mi darà lo Stato, che cosa mi daranno gli investitori stranieri? Far cambiare gli uomini, dunque, ogni altro sforzo rischia infatti senza uomini nuovi di essere vanificato.

È in questo quadro che dobbiamo concretizzare in tempi rapidi l’apporto di sistemi produttivi occidentali alla crescita dell’economia russa. Ben attenti a quel detto inglese che dice: "se vuoi farne un pescatore, non dargli i pesci, ma insegnagli a pescare". Se dunque è necessario fornire in tempi brevi beni essenziali alla Russia, ogni altro sforzo va valutato attentamente. Dunque sì ai finanziamenti ma strettamente legati a finalità ben precise, innanzitutto quella di una formazione manageriale e professionale adeguata come necessario corollario per ogni accordo da costruire; non solo quindi apertura al libero mercato ma trasferimento di sistemi gestionali, organizzativi, operativi in senso stretto. Lo sforzo deve essere finalizzato a convincere i Russi che oggi lo sviluppo lo si realizza più con i cervelli che con le macchine. L’appoggio che dovremo dare allo sviluppo economico russo dovrà essere costituito da un lungo cammino comune fatto di continua assistenza, di positivi suggerimenti. In questo quadro è auspicabile che la Russia si apra ai consulenti aziendali e alle scuole manageriali.

La strada è dunque lunga e complessa, ma la posta in gioco, quella di un equilibrio non solo politico ed economico, ma anche morale e materiale, è davvero troppo importante per tutti noi. L’Europa non potrà considerarsi compiuta senza un coinvolgimento della Russia; nella Comunità economica europea l’Est e la Russia devono dunque rappresentare la nuova frontiera degli anni 2000.

Vladimir Belinsky, astrofisico.

Belinsky: Innanzitutto desidero dire che sono uno scienziato e quindi non sono una persona qualificata per parlare di economia o di rapporti tra est ed ovest da un punto di vista economico. Io desidero parlare di libertà. Io credo che i Russi sappiano prendere i pesci, purtroppo non hanno la libertà di farlo perché il nostro regime ci ha sempre detto: "se prendete 100 pesci, 99 appartengono allo Stato e uno appartiene a voi". E quindi nessuno era di conseguenza interessato a prendere del pesce. Io sono sicuro che quando ci sarà veramente la libertà in Unione Sovietica noi avremo risolto tutti i nostri problemi. Quindi mi chiedo, perché la scienza è importante per noi? In linea di principio noi potremmo sopravvivere senza la scienza. Le api e le formiche non hanno bisogno di avere delle approfondite conoscenze scientifiche per approvvigionarsi di cibo. Quindi il motivo più banale per il quale noi abbiamo bisogno della scienza è un motivo basato sul principio dell’utilità, ovvero abbiamo bisogno della scienza per poter avere una maggiore quantità di cibo e di alimenti. Tuttavia vi è un altro aspetto della questione. È un aspetto che contiene insito in se stesso un grande mistero della vita. Cosa ci spinge, cosa ci porta a costruire dei modelli matematici astratti, perché abbiamo bisogno di conoscere le proprietà intime delle particelle elementari e quali sono i motivi che ci spingono a ricercare i meccanismi e le ragioni che hanno portato i processi cosmologici verificatisi quindici miliardi di anni fa? Perché cerchiamo di costruire dei concetti scientifici?

Io non credo che noi ci rivolgiamo alla scienza solo per ottenere una maggiore quantità di cibo e per migliorare le condizioni materiali della nostra vita. Abbiamo bisogno della conoscenza scientifica per renderci più liberi. Se noi conosciamo la struttura del mondo che ci circonda, allora possiamo sentirci più liberi di vivere e di muoverci all’interno di esso. Qui troviamo una prima definizione di libertà quale massima indipendenza rispetto al mondo esterno. E tutta la storia dell’umanità ci dimostra che la scienza si è sempre mossa in questo senso, ovvero ha mirato a rendere l’uomo più libero.

Ho trascorso cinquant’anni della mia vita in uno Stato con un regime totalitario, quindi conosco perfettamente cosa significa vivere in un paese privo di libertà, ed è quasi impossibile descrivere l’entità e la gravità dei crimini che sono stati commessi dal regime totalitario nel mio paese. Credo che non vi siano paralleli in questo senso nella storia dell’umanità. Tuttavia l’attrattiva esercitata dalla libertà ha fatto sì che le cose cambiassero. Oggi il popolo russo si è veramente risvegliato. Quindi gli eventi che si stanno verificando in questi giorni nell’Unione Sovietica hanno la stessa entità e la stessa importanza di quei fatti geologici e climatici che portarono alla scomparsa dei dinosauri grazie alla quale si creò lo spazio per la comparsa di nuove e più intelligenti forme di vita. Fra 30 o 40 anni la Russia sarà uno Stato fiorente come lo sono oggi i paesi dell’Europa occidentale, in quanto io sono convinto che questi 70 anni di era dei dinosauri in Unione Sovietica non siano stati in grado di cambiare il codice genetico del popolo russo. E sono certo che i sovietici saranno in grado di dare un grande contributo nel campo della musica, dell’arte, della filosofia, della religione, perché essi dispongono di un grande talento, di una grande sensibilità.

Formigoni: Sugli avvenimenti di questi giorni vediamo prevalere in molti commenti l’aspetto della preoccupazione. Indubbiamente, questa novità in Unione Sovietica apre molti problemi, ma al tempo stesso induce ad una speranza e ad una gioia soprattutto perché dopo 70 anni di chiusura le gente torna ad essere protagonista. È gente che non è perfetta, che ha i suoi difetti, abbiamo visto cartelli non condivisibili, ma è la libertà dell’uomo che non può essere censurata da nessuna dittatura e da nessuna schiavitù che torna ad esprimersi.

Non conosco bene Boris Eltsin e non voglio giudicarlo. Conoscevo già da prima gli aspetti di impopolarità che hanno contraddistinto all’interno del suo Paese l’azione di Michail Gorbaciov, ma io vorrei spezzare una lancia in favore dell’uomo che con coraggio, senza essere compreso dai suoi e da tanti altri ha permesso, attraverso la sua azione politica, che questi avvenimenti polici capitassero.

Il Meeting aveva rivolto un invito a Gorbaciov ad essere presente per consegnargli un premio per aver ridato la libertà religosa al suo Paese. Sui motivi si può discutere, ma il fatto resta e ci sembra che dopo 70 anni di ateismo di stato, il fatto che si possa tornare ad essere religiosi, a professare la propria religione con libertà in Unione Sovietica, il fatto che sia stato nominato un Amministratore Apostolico, è un fatto importante che merita di dire che la figura di Michail Gorbaciov resterà comunque significativa in questo passaggio e mi auguro, per il bene del suo Paese e per il mondo, che il suo futuro ruolo politico non sia soltanto un ruolo decorativo, ma un ruolo di chi ancora può contare nel determinare gli avvenimenti del suo Paese.

Gli avvenimenti di questi giorni mi portano a pensare al dramma umano di tanti che ci avevano creduto. Non sono indifferente a queste centinaia di migliaia di persone in Italia, che ci hanno creduto realmente, hanno riposto la loro speranza in un ideale che era fallace ed è fallito – il comunismo, ma mossi da una speranza che sento profondamente mia: il desiderio della giustizia sociale, dell’egualianza fra gli uomini, di una solidarità. Il mio cuore batte con queste decine di migliaia di persone che in questi giorni sono come senza punti di riferimento, e batte per dire che questi ideali sono anche i nostri.

Non possiamo disprezzare queste cose, non possiamo passarle sotto silenzio, come non vogliamo farci una retorica dei sentimenti. Dico soltanto che tramontata l’epoca del dialogo tra le culture, dell’incontro-scontro tra le ideologie, è arrivata l’epoca di un incontro tra uomini, tra persone, non c’è più la divisione.

Due osservazioni di natura più strettamente politica.

La prima. È indubbio che nello scontro epocale che ha contraddistinto questi nostri anni recenti ha vinto il modello occidentale. In Europa ha vinto la comunità europea, ma questo è il momento di un cambiamento anche dei nostri modelli di vita e di organizzazione politica. La comunità europea non ha mai avuto come orizzonte soltanto i nostri 12 paesi, ma certamente oggi, lo diceva già Barnabò, l’integrazione europea, che pure dobbiamo ancora raggiungere, non basta più, oggi tutto cambia. La nostra azione politica deve favorire l’ancoraggio all’Europa dei paesi dell’est europeo. Noi dobbiamo aiutare l’indipendenza e la sovranità di questi Paesi, ma nello stesso tempo dobbiamo essere così abili da frenare lo smembramento, che non è mai un fenomeno positivo, da favorire nuove aggregazioni regionali, non quelle di ieri, formate su nuova base, cosi come stiamo favorendo i rapporti nuovi fra Ungheria, Polonia e Cecoslovacchia o la nascita in qualche modo di un centro europeo, magari riprendendo vecchie idee, vecchie aggregazioni, il cuore del vecchio impero asburgico.

Dobbiamo dimostrare un grande coraggio politico, dobbiamo dimostrare come europei, come occidentali un grande coraggio nel campo della solidarietà, sia nei confronti dei Paesi dell’Est sia nei confronti della vecchia questione del Sud del mondo, mentre invece la solidarietà occidentale, europea, del nostro stesso paese, nei confronti del sud del mondo in questi ultimi anni è diminuita. Ci sono presenze di volontari in Africa, in Asia che devono chiudere la loro organizzazione perché l’Italia, che pure era stata all’avanguardia nel promuovere una politica di cooperazione, ha in questi anni diminuito, in termini assoluti, il gettito economico per aiutare lo sviluppo di questi Paesi. Non possiamo, perché il pericolo comunista nel mondo tende a scomparire, chiuderci in noi stessi, in un egoismo, abbandonando al loro destino milioni di uomini africani, asiatici o di altri paesi.

Vorrei citare a questo punto il lavoro della Compagnia delle Opere in questi anni, la sua presenza nei Paesi dell’Est, oltre che in altre aree del mondo. La Compagnia delle Opere, cioè il gruppo di amici che agiscono nel campo economico, che spontaneamente si sono messi insieme da non più di quattro anni a questa parte, oggi già presenti in Polonia, in Ungheria, in Cecoslovacchia, in Romania, in Slovenia, nella stessa Unione Sovietica, con due serie di progetti di realizzazione iniziati, una a Mosca l’altra a Novosibirsk in Siberia. Quando si è cresciuti, quando ci si è educati alla dimensione della solidarietà autentica si è anche capaci di produrre opere, di produrre concretezza sul piano delle realizzazioni. Merita che ci sia un ringraziamento vero a centinaia, migliaia di nostri amici che lavorano, che fanno il loro mestiere, non stanno facendo "altro", ma questa è la cosa interessante: il cambiamento culturale intervenuto nella prospettiva del lavoro.

L’ultima osservazione. Mi sono tornate in mente in questi giorni le parole con cui Augusto Del Noce commentava gli avvenimenti dell’89. Parlava all’interno di noi cristiani. Diceva Del Noce: "Il nostro avversario storico ha perso, ma non siamo noi ad avere vinto". Mi sembra una provocazione molto interessante per noi cristiani, per noi cristiani impegnati in politica, perché questa giusta osservazione ci costringe a guardare dentro il campo nel quale siamo nati, l’Occidente. Ieri il confronto era fra libertà e schiavitù, i due campi erano questi e non abbiamo avuto titubanze a scegliere il campo giusto; anzi, sinceramente, noi siamo stati protagonisti di una battaglia contro la tirannide comunista nei momenti nei quali era difficile dichiarare chiaramente queste cose, battersi per esse.

Ma oggi occorre guardare dentro questa libertà che anche noi abbiamo contribuito a far crescere, per vedere quanto ancora c’è di formale e quanto deve essere messo in discussione, quanto ancora c’è di povertà, di disuguaglianza, di emarginazione, che ci provoca e che dobbiamo correggere; quanto c’è ancora di egoismo, di chiusura nel sistema, di posizione di rendita di privilegio, quanto c’è di centralizzazione nel sistema politico, nel sistema economico, con un potere economico che di fatto rende difficile, a volte aiutato da certe iniziative legislative, l’affacciarsi sulla scena economica di nuovi soggetti, dei giovani, delle cooperative, della piccola imprenditoria. Queste sono le cose di cui la gente fa esperienza anche nel nostro paese e queste sono le cose che vogliamo cambiare, queste sono le provocazioni importanti, interessanti, questo è il tempo, anche per il mio partito, della suprema libertà nella capacità di rispondere a queste sfide e di continuare a guadagnarsi su queste basi la maggioranza dei consensi nel nostro Paese. Da questo punto di vista, l’esistenza di movimenti di base, nella Chiesa e nella società, è una garanzia e una speranza perché questo rinnovamento non rimanga parola, ma diventi realtà.

Arnaldo Forlani, segretario nazionale della Democrazia Cristiana.

Forlani: Sulla scorta dell’insegnamento di Pio XI che definì l’ideologia comunista "intrinsecamente perversa"(2) noi abbiamo sempre condannato il comunismo, ma sarebbe un errore anche politico chiudere gli occhi sul fatto che milioni di persone, han creduto, sbagliando, di trovare in questa ideologia le risposte più adeguate ad un’esigenza, ad una speranza di giustizia sociale. E quindi io sono d’accordo che si aprano problemi anche per noi sul terreno politico e che d’ora in avanti il confronto dovrà essere portato su un terreno diverso, un confronto di programmi, di buone volontà, di obiettivi da realizzare possibilmente insieme, perché questa poi è la disponibilità, è la linea tradizionale, degasperiana, della Democrazia cristiana, di cercare l’incontro e la possibilità di collaborazione con tutti quelli che intendono muoversi in corrispondenza ad esigenze e a speranze che possano essere comuni, di crescita civile, economica, sociale del nostro Paese, di contributo attivo dell’Italia alla causa della pace, della cooperazione tra i popoli.

Vorrei aggiungere alcune considerazioni su ciò che ha reso possibile questo sconvolgimento dell’URSS. Io credo che sia dimenticato un dato di cultura. Il mondo occidentale ha in genere sottovalutato ciò che da decenni si andava sedimentando nella società sovietica. Se si fosse stati attenti, si sarebbe visto che la grande narrativa, la letteratura russa, soprattutto la poesia russa, preludevano ai grandi sconvolgimenti di queste giornate. La grande narrativa russa, quella sulla tradizione di Tolstoj, di Dostoevskij, la letteratura che ha ai vertici i nomi di Solzenicyn, di Pasternak, è una letteratura spiritualista, quindi antitetica rispetto al sistema comunista. Se si fosse stati attenti a questi dati probabilmente avremmo compreso meglio ciò che stava per avvenire.

In ordine alle cose che sono avvenute, credo che Gorbaciov sia stato elemento decisivo di questo processo di liberazione che è intervenuto. E mi auguro che Eltsin e Gorbaciov procedano insieme. D’altronde il Papa ha difeso con coraggio Gorbaciov. Solitamente la Chiesa si pronuncia con decisione in ordine ai fatti, in difesa della libertà degli uomini, della pace, ma è estremamente cauta e prudente nel pronunciarsi in ordine agli uomini, ai leaders politici. Anzi, il telegramma di solito lo manda il segretario di Stato; questa volta è il Papa che di persona ha mandato il telegramma a Gorbaciov. E tutto questo deve avere un senso. Non possiamo dimenticare che Gorbaciov quando ha parlato in Campidoglio a Roma, prima ancora di andare a trovare il Papa, non ha detto soltanto che la religione non era un freno, una remora alle possibilità di sviluppo e di progresso e di emancipazione dei popoli, ma era un fatto propulsivo dal quale non si poteva e non si doveva prescindere da parte chi vuole perseguire obiettivi di progresso, di crescita, umana, culturale, economica. Né possiamo dimenticare che è lo stesso uomo, che, pur essendo al vertice della gerarchia, ha svuotato dall’interno questo sistema di oppressione, questo sistema plumbleo. L’uomo che ha detto: guai a dimenticare lo spirito, cioè senza riferimenti di ordine spirituale l’uomo è appunto un insetto, particolarmente evoluto, particolarmente interessante, ma sempre un insetto, quindi è un riferimento di ordine spiriturale che dà un senso reale alla nostra esistenza, la nostra prospettiva. Ecco perché concludo difendendo Gorbaciov e quindi difendendo un po’ anche me stesso (qualche amico l’altro giorno ha detto che farò la stessa fine).

Il segretario di un partito ricorda un po’ quello che partiva per le crociate, il francese a cui il padre raccomandava di guardar sempre da ogni parte, tenere un occhio alla padella e un occhio al gatto. Il segretario della Democrazia cristiana deve in qualche modo essere attento a tutto ciò che si svolge nella vasta e complessa e differenziata realtà del mondo cattolico con il quale noi vogliamo restare fortemente collegati. Quindi fra noi dobbiamo essere di una grande chiarezza, dobbiamo mantenere i nostri rapporti improntati ad una grande lealtà.

Io sono venuto sempre qui perché sento che voi siete una componente essenziale dell’impegno cattolico nella nostra società. E siccome noi vogliamo rimanere collegati a questa realtà è chiaro che non solo siamo della stessa famiglia, noi pensiamo che da voi debba venire un contributo sempre più importante e sempre più decisivo alla definizione dei nostri programmi, alla definizione della nostra identità non solo politica ma anche morale e culturale. Detto questo, però, voi sapete anche che la natura e il carattere distintivo della Democrazia Cristiana da Sturzo a De Gasperi a Moro – e questa è un’eredità che noi non vogliamo in alcun modo compromettere e pregiudicare – è il rispetto assoluto di tutte le opinioni e di tutte le sensibilità che si muovono all’interno del mondo cattolico. E poiché l’altro giorno è stato detto qualcosa che poi è stato interpretato male dai giornali, perché so benissimo che quella non è l’opinione dell’amico Cossiga, la Democrazia Cristiana non ha mai preteso né mai pretenderà di rappresentare, di avere la rappresentanza in toto del mondo cattolico nella vita del nostro Paese. Noi siamo un partito democratico la cui validità, la cui possibilità di vita certamente non si collega a dei decreti di palazzo, è collegata al voto degli elettori. Quindi i cattolici che si impegnano nella Democrazia cristiana si impegnano in questo partito per le idee, per i programmi, per gli obiettivi che questo partito persegue. Ecco allora perché difendo Gorbaciov. Lo difendo perché in quella vicenda tragica, in questo sommovimento, è stato l’elemento che ha cercato di salvaguardare anche tutti gli elementi possibili di unità.

 

NOTE

(1) Nella fabbrica di frigoriferi, che la Merloni Progetti sta realizzando, per contratto abbiamo dovuto progettare linee produttive per ogni più comune componente del frigo, comprese le viti e i bulloni. Nello stesso centro, a cura sempre della direzione della fabbrica, si allevano vitelli, si producono aranciate, si producono blue jeans. La stessa fabbrica gestisce scuole, un albergo, costruisce e affitta le case, gestisce il supermercato. Ma, e questa è una cosa ancora più grave, l’azienda baratta i suoi prodotti con altre imprese in cambio di altri manufatti sottraendoli così al mercato ed alla sua logica. Per impiantare una fabbrica di frigoriferi in Russia, tanto fortemente autarchica, il costo è attualmente maggiore di tre, quattro volte a quello che sarebbe necessario in Italia per ottenere la stessa produzione.

(2) Per aver dato questa definizione Pio XI, questo Papa che aveva voltato le spalle a Hitler andandosene da Roma in occasione della visita del dittatore nazista, fu definito come l’esponente massimo dell’oscurantismo culturale.