Venerdì 31 agosto, ore 15.00

I GIOVANI E LA RELIGIOSITA NELL’AMERICA DI OGGI

Partecipano

Sergio Zavoli,

giornalista, scrittore, presidente della RAI

Claudio Schippati,

studente universitario

S. Zavoli

Vorrei iniziare con una considerazione molto generale che riguarda le società più avanzate. In un mondo così segnato dalle spinte giovanilistiche e tutto dedito al culto delle novità, proprio i giovani rischiano di recitare la parte di protagonisti assenti Nel paese più aggredito e condizionato da questa cultura, l’America, mentalità e atteggiamenti dei giovani hanno reagito con effetti di mimesi e d’attacco, e di rivolta. E’ il segno di una società senza dogmi disponibile al cambiamento e alle trasformazioni, che implica una mobilità sociale ancora sconosciuta a noi europei. Non a caso, nel paese delle grandi emigrazioni e degli improvvisi spostamenti di masse, (ricordate ‘Furore’ di Steinbeck), delle rapide riconversioni produttive ed economiche, quasi il 90% dei giovani è del tutto estraneo per vocazione e necessità di vita all’esperienza dei padri. E ciò si spiega. I giovani di un paese che ogni giorno fa le prove di come dovrà essere il giorno dopo, che vivono in una società fortemente segnata da quell’imprenditoria della parola e dell’immagine, cui ha dato mano tutto il sapere tecnologico e scientifico, del quale il mondo dispone, con il risultato di formare la più sterminata legione di fedeli omologati dalla società elettronica, che mai religione di qualcosa abbia potuto concepire, da quale esperienza, se non da quella che stanno vivendo e che li trascina, possono trarre qualche frutto? E tuttavia hanno capito che anche nella società elettronica, apparentemente la più vicina alla distribuzione dell’equità, si riproducono ingiustizie, privilegi, emarginazioni; è quindi anch'essa, ancorché oggettivata dai parametri e garantita dai diagrammi (due orrende parole), va guidata con gli antichi valori dell’etica e della morale, del diritto e dell’equità appunto. Proprio loro, i giovani, hanno reclamato i significati quasi religiosi di queste regole, rivendicando le loro parole un tempo screditate e sconfitte. Quel che riesce intollerabile, osserva padre Balducci, sia alla tribù preindustriale sia alla tecnopoli postindustriale, è la capacità di sognare, di volere un mondo davvero umano in cui l’uomo si accordi con se stesso, e prenda in mano il proprio destino. Eppure non sono stati proprio i valori dell’utopia, il vanto storico dell’avventura americana. La straordinaria corporeità del suo successo non è nata forse dall’utopia? Perché l’utopia poté tanto? Perché nacque e crebbe dentro la religiosità stessa degli americani. Questa è la risposta. Perché da essa tutto fu sospinto come da un vento di volontà e di fede, di rigore e di tolleranza. Ne derivò una cultura venata di idealità e pragmatismi, duttile e radicale, religiosa e bigotta. Spinte spesso più moralistiche che politiche, più comunitarie che democratiche, più provvidenzialistiche che ideologiche fecero dell’America il paese più vicino, e insieme più lontano, rispetto alla parola come nuovo Verbo. Perché? Perché, nel frattempo, da un coacervo di civiltà e di frontiere era nata nel segno visibile della supremazia, una nazione nutrita solo di futuro, cioè costretta a non fermarsi mai su se stessa e a rimettersi continuamente in pace con se stessa, dovendo, per giunta, rispondere di questa complessa mutazione al mondo intero, di cui manovrando il futuro andava facendosi in qualche modo padrona e garante. Sulla parola delle Scritture ebbe il sopravvento la parola del mondo, irradiata da un sistema, il nostro, ormai in obbligo con tutto e con tutti, perché si era fatto carico delle sorti dell’universo. La rivoluzione generazionale divampò nei ‘campus’ sotto la pressione del movimento contro la guerra del Vietnam e contro gli eccessi della organizzazione universitaria intesa come industria quanto meno della conoscenza. Indistintamente si bruciavano insieme richiami alle armi e schede perforate. Non era tutto ciò un grido alto, fragoroso, accecante con cui riempire il vuoto lasciato da una parola ritornata nel deserto da cui era venuta (perché nel frattempo la religione del futuro ne aveva inventate altre)? Allora in ogni angolo dell’America si preferì urlare assai più che parlare. Il mondo che vogliamo possiamo averlo, dicevano i giovani; Orwell li aveva lontanamente intravisti, sapeva che prima o poi avrebbero detto: solo la nostra vita è da vivere. Invecchiare è una disgrazia quasi oscena. Tutti quelli che hanno superato i 30 anni si affannano senza fine per cose di nessuna importanza', così urlavano i ragazzi americani. In realtà tra la gente dai 30 anni in su si decidevano anche gli slogans dei ribelli. L’invettiva, secondo me, celava ancora un po’ d’amore, ma nessuno se ne accorse. Poi si è capito. Essa voleva essere smentita, chiedeva una forte dimostrazione di nullità, esigeva insomma una parola che non venne né tra i giovani né dall'altra parte. Su quel terreno nudo tutte le scorrerie furono possibili. L’impunità in quel silenzio era assicurata dall’inutilità degli agguati, ma proprio quella solitudine cominciò in qualche modo a chiamare in causa la presenza di Dio. Un Dio da recuperare in se stessi e in tutti i rapporti con gli altri, secondo ogni possibile rivelazione dell’amore. Amare è un adempimento, dissero i giovani americani, riscoprendo una lontana illuminazione di Vic Accesitor Hugo. Ecco perché, prima di pronunciarsi su Dio, chiesero notizie sull’uomo. Parlavano più volentieri di comunità che di Chiesa; esclusero l’aspetto canonico per privilegiare rapporti meno rituali; cercarono di far risalire ad un unico terminale, tutti i valori della fede, saltando quanto più possibile le mediazioni. Dritti alla parola, insomma, all’unica, cioè alla prima e all’ultima. Un desiderio di meditazione, di preghiere, di confronto maggiore dello stesso bisogno di Dio. Per capire un problema basta dargli una dimensione, un luogo e un tempo, disse Eraclito. Una dimensione, un luogo e un tempo in cui il desiderio di Dio si è manifestato in modo e in misure stupefacenti, dentro una storia che spiega ed autentica dimensioni inimmaginabili dello spirito, e proprio l’America di questo tempo. Dio e la statistica non sono ciò che sta meglio insieme. Ma un recentissimo rapporto Gallup sulla religione negli USA Ci assicura che il 90% degli americani è credente, il 70% fa parte di una chiesa, e il 60% partecipa alle funzioni religiose almeno una volta al mese. Nel comportamento c’è poca differenza fra chi si dice religioso e chi non lo è. La grande maggioranza crede che la religione, e non la scienza e neppure la politica, riesca a dare le risposte più convincenti ai problemi del mondo. In questo senso è singolare lo slogan lanciato qualche anno fa dal Rev Jerry Forwell, fondatore e leader dell’ala politica del nuovo cristianesimo, la cosiddetta ‘moral majority’. Non vedo, aveva detto, come ci si possa dichiarare cristiani e liberal allo stesso tempo. E’ la proclamazione di un credo conservatore nel quale si stempera una miscela di rigorismo morale, di propaganda politica, di patriottismo bigotto, ma anche di lotta al peccato e persino di misticismo. Che esista un rapporto fra legge, morde, politica, gai non è un fatto esclusivamente americano. Ma in America questo rapporto è reso più stretto dall’eredità di carattere religioso del suo popolo e della fede, questa sì concezione tutta americana, che si possa e si debba aver ragione del male con le regole della morale e con le imposizioni del diritto Gli anni ‘60, ancora una volta, ci spiegano il bene e il male di un tempo Gli segnato insieme da autentiche tensioni e da insopportabili ribalderie. La lotta per i diritti civili apre la stagione del rinnovamento nel segno di una fede in qualcosa che serpeggia nei ceti più diversi, nelle scuole, nei quartieri segregati, nei centri di pensiero laico e religioso. La predicazione di Martin Luther King sfida a non cadere nell’indifferenza, chiede di fare scandalo ove occorre, invita a gettarsi nella mischia, a compiere scelte di campo. Ricordate le sue parole: ‘Voglio indignarmi, voglio sentire questo rancore - e poi quasi in preghiera - io vi scongiuro d’essere indignati’. Dappertutto è in discussione il principio d’autorità. Come dire: se il padre è assente, che diritto ha di imporre la sua parola? Un padre che respingeva o evitava il negro, che giustificava il napalm sui villaggi vietnamiti, che aveva elevato a sistema di vita la società del consumo, che non inorridiva di fronte alla violenza, aveva generato legioni di ribelli sparsi dal New England alla California. Cito alcuni dati di fonte governativa. In soli due anni tra il ‘70 e il ‘72 il numero delle ragazze americane sotto i 18 anni arrestate per crimini violenti crebbe del 388%, il numero dei maschi del 203%. Tra i1 ‘50 e il ’74 l’incremento annuale dei suicidi fra i ragazzi maschi compresi fra i 15 e i 19 anni d’età sali dal 3,7%, per ogni 100.000 giovani, all’11,9. Nel ‘78 il suicidio era al terzo posto fra le cause di morte nei giovani tra i quindici e i 24 anni. Lontananza dei padri, senso di vuoto, incapacità di esprimersi. I tre silenzi provocati dall’assenza della parola. Dove cercarla allora, se non nel rischio di una fede che pretende risposte assolute a domande assolute? Una gran parte di questi giovani, coloro che non accettano le lusinghe della violenza o della droga, ma anche chi non si adatta ad una vita che scivola sui ‘tapis roulants’ del successo economico, cercano la strada di un qualunque ingaggio sociale, costi anche la perdita di un sogno. Molti fra costoro non riescono più a credere ai valori personali, pensano di avere liquidato le risorse della loro identità, spesso hanno addirittura una pessima idea della propria immagine d’individui, si ignorano, purtroppo, come persone. Per questo sentono il bisogno di appartenere ad un gruppo, di immedesimarsi in una patria, di trovarsi in un popolo, di compromettersi in un’ideologia che li aiuti a togliersi dalla solitudine pur restando nelle loro inguaribili separatezze. Ciò, sul fronte dei valori civili. Quanto alla fede, crollata ogni certezza assoluta, questa moltitudine d’inquieti e di stupefatti, di vincitori senza prove, di sconfitti senza rassegnazione, cerca le sue drastiche e improbabili sicurezze nel fondamentalismo attraverso comportamenti totalizzanti. I movimenti carismatici, che in questi ultimi anni hanno segnato un espandersi della religiosità americana suadente e ingenua, sono l’esempio di un tentativo di salvezza collettiva. Vi hanno aderito dall’est all’ovest giovani d’ogni ceto e cultura, accomunati da un’esperienza che quasi ovunque ha assunto toni e forme d’intensa spiritualità, di profonda partecipazione emotiva, sia quando essi si esprimono in un ecumenismo privo di rituali sia quando si manifestano attraverso legami e procedure che ne sottolineano l’ecclesialità. Se ne è avuta una raffigurazione nel recente giubileo celebrato a Roma la scorsa primavera. Abbiamo guardato con incredulità e rispetto questi giovani americani appartenenti a movimenti carismatici mentre sostenevano il loro entusiasmo con un abbandono a noi sconosciuto. Ce ne hanno dato conferma persino quei loro coetanei, che, via satellite, sotto gli occhi di due miliardi di spettatori, abbiamo visto raccogliersi in preghiera riconoscenti, spesso con la mano sul cuore, ad ogni conquista olimpionica. Di fronte ai teologi che avevano predicato in un livido silenzio la morte di Dio, lo scenario ha dunque uno splendore assoluto. Ogni slogan è rimesso in causa. E iniziata la fase che potremmo definire del ‘Post-God is dead’: il rovesciamento di una teologia che predicava avventure dello spirito al limite del fantadivino. Dio è vivo più che mai, una radicale rivoluzione religiosa nel nome di Gesù sembra preludere addirittura la rifondazione di un nuovo cristianesimo. La Bibbia dice il vero, i miracoli accadono, Dio ha veramente tanto amato il mondo da offrirgli il Figlio. Una totale fiducia nelle Sacre Scritture alimentò l’ultimo dei movimenti, quel creazionismo che sta al centro della nuova strategia per una cristianità cosiddetta essenziale. La ‘Jesus Revolution’ andata lontano e non ancora conclusa, rifiuta non solo i valori materiali della società convenzionale, ma anche la dominante saggezza della tradizione teologica. Dio torna sulla terra nella persona di Gesù perché l’uomo da sé non sa cavarsela, dicono. Qualcuno più esigente, perché l’uomo ha bisogno di assistere a qualche miracolo aggiunge: "I critici della nuova fede in Cristo dicono che essa paga un prezzo troppo alto: l’approssimazione". In realtà l’aggiornamento preteso dalla ‘Jesus Revolution' si è valso di non poche disinvolture. Ha affiliato anche chi di Cristo aveva un’immagine precipitosa, storica e ammiccante. C’è un Gesù ridotto per il teatro, per il cinema, per la musica, pop, per i fumetti, disciolto dalla personalità d’origine, opera in uno spazio succedaneo e in un tempo supplementare Comune nel revival è tuttavia il carattere d’esaltazione e il dato drammaturgico. La realizzazione di miracoli, osserva Fulvio Colombo, intesi sia nel senso dell'improvviso risveglio alla fede sia nel senso della guarigione da un male, è un tratto essenziale tanto più frequente quanto più semplici ed elementari sono le condizioni culturali del gruppo al quale il revival si rivolge. In questo senso i revival evangelici non si distinguono granché da quelli cattolici. Gli uni e gli altri risentono delle loro storie ecclesiali, de loro apparati dottrinali, dei costumi stessi che accompagnano le rispettive religiosità. La chiesa cattolica può offrire la ricchezza dei suoi rituali, le s certezze canoniche, l’austerità dei suoi dogmi, la forte carica simbolica dei suoi leader, la grandiosità dei suoi eventi. Si pensi ad esempio alla carrellata di Giovanni Paolo II di notte, nel vasto e affollatissimo spazio dello Yankee Stadium: ‘un grande incendio spirituale’ lo definì. il ‘New York Times’ Karol Wojtyla, tuttavia, dimostrò di sapere bene che non tutto il revival è immune da contaminazioni e da complicità. E, infatti, non tutti i giovani hanno accettato una fede così al sicuro, un Dio così disponibile, così calato nella psicologia, nella sociologia, negli affetti e negli affari, nei valori senza prezzo e nella Borsa Valori

C. Schiappati:

Parlo anche a nome d’alcuni altri amici con cui sono andato lo scorso novembre a Dallas in occasione di un soggiorno di studio di cui abbiamo avuto il dono e la grazia di beneficiare. Quello che desidero farvi qui è il racconto di un’esperienza, cioè fatti e momenti con i quali ci siamo incontrati; la mia non ha la pretesa di essere una descrizione esauriente di quella che è la situazione giovanile americana, ma soltanto il racconto di un’esperienza fatta, che sebbene limitata e parziale, non è per questo meno vera. Innanzi tutto preciso che noi abbiamo vissuto l’esperienza della vita universitaria. Questa è stata per noi occasione d’incontro, incontro molto banale e semplice con quella che è la gioventù americana, in quello che è la vita dei college: è uno dei momenti più significativi della formazione della loro personalità, il luogo in cui nascono e si concretizzano i rapporti sociali che sono destinati a durare, quelli che incidono fondamentalmente sulla loro personalità. Ci sono alcune parole chiave per capire quella che è l’esperienza dei giovani americani, cosi come l’abbiamo vista noi: una di queste parole chiavi è la parola individualismo. Non è però un aspetto soltanto negativo in quanto questi stessi ragazzi ci hanno insegnato come un’individualità vissuta profondamente è la possibilità di una libertà interiore grande, una libertà da cui noi abbiamo imparato e per questo ne siamo grati. Di fronte alla vita che conducevamo ogni giorno, ci siamo accorti di come molti di questi giovani avessero al loro interno una grossa domanda di verità. Parlando con un nostro amico ci diceva: ‘Noi siamo come stanchi, disillusi di molti anni di lotte e di promesse che non sono state raggiunte, per questo all’apparenza potremmo sembrare individualisti, superficiali o scettici, questa però in fondo è solo la parte esteriore di ciò che noi mostriamo’. Al di là di questo, e noi l’abbiamo visto, c’è una disponibilità reale ad incontrare e ad accettare, pagando anche di persona, quello che rappresenta, ma non in modo astratto, bensì in modo concreto, una proposta seria, capace di rispondere fino in fondo alla loro domanda. Abbiamo sperimentato come questa domanda - che il dott. Zavoli ha detto, e che molte volte si manifesta in termini di un individualismo che non ha uno sbocco al di fuori della persona - possa diventare una domanda comune sulla verità, sulla vita: in pratica una domanda comune sul destino. Questo per noi è stato decisivo, perché ci siamo accorti che se la nostra esperienza non era capace di arrivare a questo, cioè a una domanda posta a queste persone; una domanda, ripeto, non astratta, ma che passasse attraverso le condizioni concrete della nostra vita, della vita universitaria, mentre eravamo là. Se la nostra domanda non era capace di suscitare questo, era vano, astratto e assurdo, parlare loro di verità, di domande, di religione Vorrei concludere con un’affermazione che ci ha fatto un nostro amico che abbiamo conosciuto impegnato nella pastorale giovanile; diceva: Il problema per noi oggi, non è quello di continuare a dire se, pero, ma, cioè guardare a quelle che sono le condizioni negative che impediscono un impegno globale rispetto a quella che è l’esperienza religiosa americana, bensì accettare piuttosto quello che c’è oggi.