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L’occupazione è fantasia: nuovi strumenti del mercato del lavoro per l’occupazione

In collaborazione con Unioncamere

Martedì 24, ore 18.30

Relatori:

Giuseppe Casadio,
Segretario Confederale Cgil

Vittorio Colao,
Amministratore Delegato Omnitel Pronto Italia

Giancarlo Sangalli,
Vice Presidente Unioncamere

Ivano Spalanzani,
Presidente Confartigianato

Casadio: La mobilità del lavoro è un’esperienza positiva per la persona, almeno in teoria; affinché questa potenzialità positiva non venga annullata o addirittura tradotta in danno, deve esserci un contesto sociale accogliente, devono essere costruite le condizioni per l’inserimento, per accompagnare la mobilità delle persone in maniera confortevole. Solo così le occasioni positive e di arricchimento potranno esprimersi effettivamente.

Dopo la grande coesione e il grande slancio con cui questo paese ha affrontato la prospettiva di potersi risanare, anche nel campo del lavoro, ci deve essere un elemento trasversale che riguarda tutti i soggetti della nostra società, un elemento che consenta la possibilità di potersi sentire al passo degli altri paesi importanti del mondo. Questo elemento trasversale non è altro che la disponibilità a rischiare, per avviare una nuova fase di costruzione, in cui ogni l’imprenditore rischi di più, cogliendo con più tempestività le opportunità e dimostrandosi capace anche di affrontare i disagi che possono venire dalla mutazione del contesto sociale.

Colao: Non so con precisione se il livello di disoccupazione in Italia sia del 32%, del 27, del 25, del 21, del 18… si tratta comunque di un livello agghiacciante. Un sistema occupazionale che esprime un livello di disoccupazione giovanile così elevato, è un sistema occupazionale che ci piace? È un sistema occupazionale di cui siamo orgogliosi, o forse ci sono alcune cose che andrebbero cambiate?

Il sistema occupazionale italiano tradizionale, a prescindere dalla quantità di disoccupati, non si può certo dire un buon sistema. È un sistema di grandi aziende che crescono poco, e non solo in termini assoluti di fatturato, ma anche in termini di iniziative. All’interno delle grandi aziende le iniziative sono decisamente scarse: in Italia non c’è il coraggio della grande discontinuità, non c’è il coraggio del grande investimento. Vi sono invece rigidità di crescita. Anche il contenuto del lavoro è fermo, la capacità di rinnovare il contenuto del lavoro nelle aziende italiane è abbastanza limitato.

Quale può essere invece un modello occupazionale positivo? L’esperienza Omnitel, un’esperienza di successo, è facilmente replicabile, se alcuni presupposti vengono rispettati. Il presupposto fondamentale è un modello di aziende che crescano investendo e che abbiano l’opportunità di crescere internamente, perché la crescita crea nuove opportunità, nuovi mestieri, fa evolvere le persone da un mestiere all’altro, le fa diventare più esperte, le porta verso un percorso di arricchimento personale e professionale.

Vi è anche un secondo tipo di modello occupazionale che l’Italia dovrebbe ambire a realizzare: quello della crescita di iniziative. Anche qui, l’esempio Omnitel aiuta. Omnitel sta facendo nascere delle realtà collaterali nel campo distributivo, nei negozi, nei campi di assistenza ai clienti, nei campi della gestione della logistica, nei campi in sostanza di tutti quei lavori su cui delle piccole realtà possono crescere. È il modello di crescita di ambiente, perché nella crescita dell’ambiente nascono maggiori opportunità per tutti.

Infine, c’è un terzo elemento, un terzo tipo di modello occupazionale: lo sviluppo di nuove professionalità, la capacità all’interno di un mondo aziendale di sviluppare e di far crescere gli individui in nuovi lavori, è il pilastro più importante per lo sviluppo dell’occupazione, addirittura più importante delle cosiddette regole.

Sangalli: Anzitutto, non dobbiamo pensare che il mondo del lavoro in Italia sia statico e analizzabile sempre secondo le medesime modalità. Anche i dati relativi all’occupazione sono dati in cambiamento: oggi infatti ci sono in Italia circa 21 milioni di occupati; di questi, 10 milioni e mezzo sono occupati, per così dire, tradizionali, cioè dipendenti di grandi industrie, della pubblica amministrazione e ci sono 10 milioni e mezzo di occupati che sono atipici, che sono i piccoli imprenditori, che lavorano nelle piccole e piccolissime imprese. Questo semplice dato dimostra che si sta affermando un equilibrio tra l’occupazione tradizionale e quella meno tradizionale.

Nel guardare il dato occupazione, non emergono soltanto note di pessimismo. Unioncamere svolge ogni due anni una ricerca, intervistando 100.000 imprese, un campione significativo dell’universo imprenditoriale italiano; da questa ricerca si evince che nel 2000 vi saranno entrate previste di 820.000 lavoratori, a fronte di 616.000 uscite dal mercato del lavoro, con un saldo quindi di 204.000. Di questi nuovi posti di lavoro che si creano, il 92% è atteso in imprese al di sotto di 50 dipendenti, e il 61% in imprese con meno di 10 dipendenti. Emerge un primo dato: l’occupazione che cala nelle grandi imprese – sebbene quest’anno il calo sia minore rispetto all’anno scorso – viene in parte recuperata da parte delle piccole e piccolissime imprese. A questo dato, si aggiunge un altro fenomeno, che è l’aumento del numero delle imprese. Nei primi sei mesi del 1999 le imprese in Italia sono aumentate di 36.000 unità; oltretutto, per la prima volta dal 1945 (l’anno in cui si cominciano a rilevare questi dati), stanno crescendo più nel Mezzogiorno che in altre aree del paese.

Un altro dato importante riguarda il fare impresa, una delle modalità di costruzione di lavoro, o meglio di autocostruzione: sempre dai nostri dati infatti si calcola che nelle imprese italiane l’1,2% della produzione globale, cioè l’1,2% del PIL delle imprese, è destinato alla gestione dei rapporti con la burocrazia pubblica. Questo deriva da un dato su un campione rilevantissimo di imprese, e vuole dire, in termini di numero, 22.500 miliardi all’anno, che sono il costo frizionale della gestione del rapporto con lo Stato, non il costo delle imposte. Togliere l’1,2% del PIL per questo tipo di attività, rappresenta un drenaggio di risorse che potrebbero essere, almeno in parte, ricondotto ad investimenti produttivi e per lo sviluppo. Non sempre creare lavoro significa creare nuove attività lavorative, qualche volta servirebbe semplicemente mantenere in essere attività che avrebbero il proprio mercato, che non vengono facilmente sostituite, e che potrebbero dare un contributo rilevantissimo anche a settori altamente importanti per la nostra bilancia dei pagamenti, basti pensare al settore del turismo e dei beni culturali. Usare quell’1,2% di PIL che si spende in burocrazia per sostenere giovani che entrano nelle aziende a sostituire il vecchio, consentirebbe di avere risparmi previdenziali sul vecchio e avere più giovani che entrano in attività lavorative che già ci sono, e che quindi sono più facili da gestire di quelle che si debbono costruire innovativamente, consentirebbe di creare 40.000 posti di lavori nuovi all’anno.

Spalanzani: Il vero scontro generazionale del nostro paese, fra giovani ed anziani, è la legislazione; un bel momento abbiamo dato ai nostri ragazzi una carta di credito con scritto: "Se sarai occupato non sarai più licenziato; se sarai occupato e avrai una qualche diatriba, con il datore di lavoro avrai sempre ragione; se sarai occupato, in base alle leggi dello Stato lavorerai in un ambiente sanissimo perché non ti farai mai male; se sarai occupato, avrai il congedo parentale; se sarai occupato, chissà, fra un po’ farai anche 35 ore…". Ma ora i diritti previsti da questa carta di credito, non sono esigibili.

Spesso si cerca di risolvere questo conflitto con il sommerso: poiché è difficile creare occupazione con la rigidità tipica del nostro sistema, allora la gente si nasconde, va nel sommerso. Nel sommerso c’è una serie di regole contrarie a quelle del nostro sistema rigido. Il nostro paese ha il 95% aziende con meno di dieci dipendenti; queste aziende danno lavoro al 75% dell’occupazione non pubblica. Nonostante questo, noi abbiamo una legislazione fatta quasi totalmente per la grande industria. Abbiamo una massa di leggi troppo alta, per questo c’è il sommerso, non perché la gente non vuole rispettare le leggi. Occorre invece creare quel contesto di regole favorevoli alla nuova imprenditoralità. I nostri economisti non ne sono capaci, pensano solo in grande, perché pensano solo alla macroeconomia, non conoscono il nostro sistema produttivo, non si rendono conto che abbiamo 5.300.000 imprese in Italia e che tutto il mondo invidia questo sistema produttivo.

Casadio: Il problema è quello di un sistema di regole che accompagni lo sviluppo, lo favorisca, e coniughi questa finalità con un’altra altrettanto fondamentale: i diritti delle persone. Nel campo del lavoro, è necessario il rispetto di uno standard di diritti che si possa ragionevolmente considerare necessario, universale, in una società che ha questo grado di sviluppo. Il problema sono regole che accompagnino lo sviluppo tutelando le persone, anche dentro le nuove condizioni in cui si trovano quando, mutando le regole, si fanno più flessibili le forme.

Da una parte, è indispensabile una maggiore flessibilità, una congerie meno ricca, meno difficile di norme e più accondiscendenti alle opportunità di sviluppo per l’impresa, dall’altra l’individuazione delle nuove condizioni in cui le persone vengono a trovarsi quando mutano i modi di lavorare, per riconoscere anche alle persone dei diritti. L’esempio più classico di questo ragionamento è tutta la discussione ancora sospesa, non ancora approvata, sulle norme per i nuovi lavori e per il subordinato. Rispetto a questo nuovo universo – il parasubordinato, il popolo del 10%, del 12%, della partita IVA e così via – ci vuole un quadro normativo, una legge leggera; è una discussione difficile, in Parlamento si sta boicottando da mesi questa legge, ma comunque una legge è necessaria. Nell’universo attuale del popolo del 12% c’è infatti il nuovo lavoro innovativo, ricco di saperi, il lavoro di chi ha saputo intraprendere, di chi è disponibili, e si tratta di un lavoro che non è giusto codificare nelle forme di lavoro dipendente tradizionale.

Colao: Anzitutto, la difesa appena sentita delle piccole e medie imprese è ovviamente accorata e giusta; tuttavia, se pensiamo al modello occupazionale italiano, dobbiamo pensare più in grande. Questa non vuole essere una fuga verso teorie di economisti, ma il pensare veramente un modello occupazionale che tuteli e faccia crescere le piccole e medie aziende, e che anche permetta all’Italia di disporre di grandi aziende, di grandi iniziative e soprattutto di iniziative in settori tecnologicamente avanzati e di innovazione che diano futuro.

Per ottenere questo, ci sono una serie di strumenti, tra i quali sicuramente tutti quelli che favoriscono la nascita delle piccole iniziative; però la grande azienda ha bisogno di altri due passi. Anzitutto, di togliere una serie di vincoli gestionali sulla flessibilità, sugli orari, sulle qualifiche, sui ruoli: questo non deve essere visto come una perdita di tutela della persona, ma invece come una maggiore opportunità alle persone di crescere, di evolvere, per permettere all’azienda di mettere progetti in cantiere, di non essere bloccati dalle qualifiche o dai turni. E il secondo passo è la capacità di gestire le regole in maniera intelligente, non compromettendo mai la tutela dell’individuo, perché l’individuo è la più grande ricchezza che le aziende del 2000 hanno. L’individuo infatti porta idee, porta realizzazione, costruisce e quindi tutela.

Sangalli: La cosa meno utile che potremmo fare è quella di mettere in contrasto, sul piano degli interessi, nove milioni e mezzo di lavoratori tradizionali, con i nove milioni e mezzo di lavoratori flessibili. La cosa migliore che potremmo fare sarebbe piuttosto quella di allineare una circostanza con l’altra, in modo che vi sia un equilibrio, in modo da agire perché da una parte non vi sia una sclerosi del mercato del lavoro e dall’altra parte la flessibilità non divenga sinonimo di non garanzie. Nessuno pensa di voler affermare un principio di flessibilità nel lavoro che non dia alcuna garanzia a colui che entra nel mondo del lavoro. Da questo punto di vista, per tornare al tema del nostro titolo, la fantasia, occorrerebbe pensare a forme di assicurazione per persone che dovranno entrare nel mondo del lavoro ma che sapranno che prima di entrare in pensione cambieranno dieci, quindici aziende. Flessibilità non vuol dire massimo di incertezza, flessibilità non vuole dire riduzione delle garanzie. Non si può volere la flessibilità per non rispondere alle regole.

Per quanto riguarda il tema del lavoro sommerso, il problema sta nel mettere assieme i due mondi apparentemente inconciliabili del lavoro sottoposto a regole e del lavoro sommerso; la legge che è in discussione al Parlamento sul lavoro atipico è giustissima, questo però non vuol dire mettere altre briglia. Occorre invece lavorare di fantasia.

Infine, dovremmo lavorare di fantasia anche sul tema della formazione per garantire professionalità: per chi adesso entra nel mondo del lavoro e deve cambiare più attività nella propria vita, la dote non è l’azienda in cui sta lavorando, ma la professionalità, le conoscenze, la capacità di adattamento, il continuo e progressivo adattamento al cambiamento che ha dentro di sé.

Spalanzani: Mi preme sottolineare che noi non vogliamo nessun tipo di scontro, né con i nostri collaboratori, che non chiamiamo dipendenti ma appunto collaboratori, perché con loro abbiamo dei rapporti interpersonali, interfamiliari, né tra proletari e padroni, perché questo ha creato difficoltà fino a non molto tempo e perché, visto che noi siamo proletari e padroni nella stessa persona non sapevano ideologicamente da che parte stare. Siamo padroni perché siamo proprietari della nostra azienda, siamo proletari perché siamo lavoratori. Non vogliamo scontri neppure con il sindacato dei lavoratori, e tanto meno con la grande impresa.

Bisogna però tener conto di una realtà come quella della piccola e media impresa: è un problema di legislazione, di tener conto della realtà. Hegel diceva che "tutto ciò che è reale e razionale", mentre invece si continua a legiferare per una realtà che sta sempre più diminuendo, perché la grande impresa diminuisce il numero dei dipendenti e si legifera per una realtà che è sempre meno realtà e pertanto sempre meno razionale.