Cina: intellettuali verso Dio

Giovedì 26, ore 11

Relatori:

Bernardo Cervellera

Arnold Sprenger

Bernardo Cervellera, missionario del PIME, dal 1990 vive e lavora ad Hong Kong, presso l’agenzia Asia News

Cervellera: Alcuni giorni fa, in preparazione del Meeting, ho incontrato a Basilea il filosofo e sociologo Liu Xiao Feng. Mi ha raccontato la storia della sua conversione. Giovane Guardia Rossa durante la Rivoluzione Culturale, viene disgustato dalle violenze e uccisioni di cui il suo gruppo si macchia. "Il mio peccato e la mia debolezza erano troppo grandi: avevo bisogno di qualcuno che mi potesse perdonare".

Rifiutato il marxismo, si rivolge alle religioni tradizionali della Cina. Ma il Confucianesimo non dà nessuno spazio alla sofferenza, al peccato, alla debolezza. Buddismo e Taoismo credono che l’uomo sa darsi da sé la salvezza. La lettura di Dostoevskij e poi il rapporto con alcuni cristiani lo portano alla scoperta folgorante del Dio cristiano e della croce di Gesù Cristo come il segno dell’amore e del perdono.

La novità di questa conversione si può comprendere se vediamo in controluce cos’è il mondo cinese attuale (intendendo con ‘mondo cinese’ non solo la Cina popolare, ma anche Taiwan e Hong Kong) per il quale questi sussulti di spiritualità sono qualcosa di totalmente rivoluzionario.

Normalmente quando si parla di Cina, Taiwan e Hong Kong, tutti hanno in mente i successi economici di questi paesi; la Cina è fra i primi tre paesi per prodotto nazionale lordo (in un momento di recessione economica mondiale); Taiwan è il secondo paese al mondo (dopo il Giappone) per riserva di valuta estera; Hong Kong è la quarta o quinta borsa nel mondo per volume di scambi commerciali.

Un altro elemento nella nostra immagine (un po’ turistica) del mondo cinese sono le pagode, gli incensi offerti alle divinità, i silenzi meditativi di monaci buddisti o taoisti.

Questi due elementi sono connessi. La religione in questi paesi è profondamente legata al mondo del commercio. Infatti essa è praticata come riposo dopo il lavoro massacrante e per occupare il tempo libero. E’ usata per chiedere agli dei un buon andamento degli affari: i giovani pregano gli dei prima di un esame, i commercianti pregano perché i contratti vadano bene. La religione è anche un elemento di sfruttamento da parte di compagnie commerciali che costruiscono templi (soprattutto a Taiwan) e fondano agenzie di viaggi che organizzano pelligrinaggi e gite turistiche.

In realtà se chiedete a molte persone di Hong Kong e Taiwan: "Che religione segui?" la risposta è spesso: "Non sono di nessuna religione".

Tre anni fa a Taiwan ho incontrato un professore neo-confuciano, durante il convegno su "Il senso del trascendente nella poesia occidentale e nella poesia orientale". La sua tesi era che lo stupore verso la natura e il cosmo che si incontra in poeti cinesi antichi e moderni è solo un senso estetico vago e non ha nessun significato ulteriore. "Non esiste, mi diceva, in alcun modo una qualunque ricerca del trascendente, di Dio nella cultura cinese e questa ricerca è solo una lettura fatta con occhiali occidentali".

A onor del vero forse bisogna dire che l’ideale per cui normalmente un cinese vive è la famiglia, o meglio il benessere della famiglia. Lavoro, viaggi, scuola per sé e per i figli sono ricercati per questo benessere della famiglia. Molto spesso però l’ideale si riduce al benessere, tant’è vero che gli ideali e i sogni delle persone sono sacrificati al benessere.

Farò un piccolo esempio: un mio carissimo amico vuol fare l’insegnante, ma i suoi genitori vogliono che si butti nel commercio perché si guadagna di più (il 50% degli studenti universitari ad Hong Kong e Taiwan scelgono la facoltà che piace a loro padre). Un altro esempio: le vetrine luccicanti di Hong Kong, aperte dalle 10 di mattina alle 10 di sera, nascondono situazioni penose, come quella di una coppia che, avendo lavori con orari differenti, non si incontra quasi mai: uno dorme quando l’altro va a lavorare: l’altra dorme quando lui ritorna dal lavoro. Per i ritmi asfissianti di lavoro, le famiglie non si incontrano mai: i giovani ad Hong Kong lavorano oltre dieci ore, poi vanno a fare qualche corso di specializzazione o di lingua per aumentare lo stipendio e non passano nemmeno una sera in casa. Gli anziani improduttivi sono sempre più spesso abbandonati al loro destino. Il papà di un mio amico è morto in un paese vicino ad Hong Kong: tutta la sua famiglia non ha avuto il tempo nemmeno di andare a prendere la salma perché dovevano lavorare. Soltanto il mio carissimo amico, che sta diventando cristiano, un catecumeno, il più piccolo della famiglia e il meno valorizzato, ha lasciato il lavoro per una giornata per andare a recuperare la salma di suo padre.

Anche l’individuo viene sacrificato e distrutto dal lavoro: ambienti piccoli e superaffollati, senza sicurezze, con molti rischi. L’episodio della fabbrica bruciata in Thailandia con 240 persone è un esempio di come nel mondo cinese si lavora. Secondo una statistica del centro cattolico "Laborem exercens" di Taipei, nel 1992 a Taiwan sono morte oltre 200 persone al mese per incidenti di lavoro.

In questa corsa verso il benessere a tutti i costi, anche la cultura del lavoro ne risente. Per cultura del lavoro intendo la dignità dell’uomo che nel lavoro plasma la realtà e dà un significato godibile ed apprezzabile della società (simile all’impegno nel campo dell’arte).

In realtà a Taiwan ed ad Hong Kong vi è una tale mobilità di lavoro che nessuno diviene esperto in qualche campo o in qualche tecnica. A Kong Kong la gente cambia posto di lavoro (e mestiere) in media una volta all’anno, a Taiwan ogni sei mesi; basta che vengano loro promessi anche 10 dollari in più, e subito cambiano lavoro.

Ciò porta a vivere il lavoro solo nella sua dimensione tecnica, produttiva, di vendita di tempo. L’aspetto creativo, inventivo non è vissuto (ad Hong Kong diverse scuole d’arte e scuole di musica stanno chiudendo i battenti per mancanza di allievi).

Anche l’armonia con il cosmo, ideale delle tradizioni nazionali, viene distrutta attraverso un profilo così violento che non bada a nessuna cura della natura. L’inquinamento è terribile: vicino alla università cattolica, a Hsin Chuang c’è un fiume ogni giorno di colore diverso perché le industrie plastiche gettano direttamente i loro rifiuti, e quindi il fiume è rosso, blu, giallo a seconda delle colorazioni della plastica che le industrie stanno producendo. Anche la Cina non sta molto meglio. I fiumi della Cina sono tutti inquinati. L’atmosfera di Pechino è quasi irrespirabile d’inverno a causa del riscaldamento. Rifiuti radioattivi di Taiwan vengono seppelliti in Cina in cambio di denaro. Tutto è ridotto a un pragmatismo che non si pone alcuna domanda sull’uomo perché l’uomo nasce già asservito alla ruota della produzione e del denaro.

Introduco la questione sulla domanda religiosa in Cina, che sarà sviluppata dal professor Sprenger.

L’aspetto specifico della Cina Popolare riguardo al nostro tema è l’attuarsi in larga scala della dittatura marxista-stalinista che domina il paese da 44 anni. In questo periodo la domanda religiosa è stata soffocata anzittutto per una persecuzione diretta: imprigionamenti, persecuzioni, lager, per centinaia e migliaia di persone. Ci sono diversi libri di testimonianze di cristiani che hanno vissuto gli ultimi 30 anni nella persecuzione della Cina. Ma oltre alla persecuzione diretta c’è anche il tentativo di svuotamento dall’interno, attraverso il controllo delle attività religiose grazie alle associazioni patriottiche controllate dal partito.

Anche in Cina, come ad Hong Kong e a Taiwan, l’ideale proposto è non avere nessuna religione. L’individuo viene assorbito e annullato da una struttura più grande.

Egli deve lavorare per il benessere della nazione e deve essere inserito nell’unità di lavoro (che decide il lavoro che devi fare e il luogo della tua residenza, la persona che devi sposare).

La rivoluzione culturale degli anni ‘60, poi il massacro di Piazza Tienanmen hanno portato, ad una sfiducia totale nel marxismo. I tanti cambiamenti seguiti subiti senza possibilità di rileggere il passato e di giudicare le responsabilità degli errori passati hanno portato al vuoto e al consumismo.

Anche qui vorrei portare un semplice esempio. Uno degli incontri più toccanti che ho avuto in uno dei miei viaggi in Cina è stato con una ragazza vicino al palazzo imperiale. Questo palazzo imperiale è osannato come un gioiello della cultura cinese, in cui vivevano gli antichi imperatori; tuttavia vedevo i cinesi passare lì dentro, calpestandone le strade, gli edifici, soffermandosi a guardare le cose d’arte, mangiando ovunque. Ho domandato a questa ragazza: "Che cosa vi lega a queste mura e a questi resti del passato?" Mi ha risposto: "Niente. Abbiamo subito così tanti cambiamenti che non abbiamo nessun legame, siamo senza radici". Le ho chiesto "Per che cosa vivi?" E lei mi ha detto: "In pratica per nulla: tutti i giorni si va a lavorare, adesso abbiamo un po’ di soldi e possiamo comprare qualche cosa. Qui la situazione non cambia, non abbiamo nessuna possibilità di migliorare, né situazione sociale, né situazione politica. Abbiamo solo la possibilità di cambiare lavoro per poter comprare più cose".

Questa situazione si sposa bene con la politica attuale del governo cinese. Dopo il massacro di Tienanmen, la politica cinese è proseguita in due direzioni. Innanzitutto la liberalizzazione economica. Deng Xiao Ping continua a dire che arricchirsi è bello, cosicché adesso frigorifero e televisore in casa sono l’ideale della vita, senza preoccuparsi per nulla della politica o della democrazia.

In una intervista fatta ad alcune persone proprio lo scorso giugno in occasione dell’anniversario di Tienanmen un giornalista cinese chiedeva che cosa era rimasto del movimento degli studenti dell’89. La risposta era "Assolutamente nulla. Adesso abbiamo una certa ricchezza e un certo benessere, quindi non desideriamo assolutamente cambiare".

La seconda direzione è la persecuzione di sindacalisti e cristiani che richiedono libertà di associazione e di religione. Le morti del vescovo Fan e di altri preti in questi anni sono state determinate dal tentativo di eliminare tutti coloro che chiedono la libertà religiosa in modo adeguato. Questa politica risponde al desiderio di consumismo senza libertà, ma non risponde alla domanda sul vuoto. E infatti vi sono altri due elementi della proposta politica del governo cinese: le religioni come elementi culturali cinesi, e il Ci Gong.

Da parte del governo cinese c’è il tentativo di premere sulla maggiore conoscenza e pratica delle religioni tradizionali. A Chen Du in un tempio taoista ho trovato un gruppo di studenti: ero esaltato nel vedere un gruppo di giovani svolgere tutte le attività religiose, accendere gli incensi. Mi sono avvicinato e ho chiesto loro perché lo facevano e se credevano in quello che facevano; uno di loro mi ha risposto: "No, ma pratichiamo il taoismo e gli aspetti della cultura cinese come parte della nostra cultura nazionale e patriottica".

L’altro elemento, il Cì Góng, è una ginnastica meditativa, sempre più sviluppata, uno sfogo del dopolavoro per cercare pace e tranquillità dalle frustrazioni e ritornare al lavoro più caricati.

Di fronte a tutte queste difficoltà ed ostacoli, si comprende lo sforzo di alcuni intellettuali cinesi per porsi la domanda sul senso religioso.

Mi preme far notare che il ritorno alla religione e la scoperta della fede cristiana è a partire dai luoghi della morte: l’individuo e il senso del male (violenze subite e inflitte); la modernizzazione tecnica, che pone il problema di uno sviluppo più equilibrato (ad esempio, più democrazia e meno inquinamento), infine, il martirio cristiano, gente che per la fede rischia il lavoro, il benessere, la tranquillità e la pace.

Nel deserto della mancanza di senso, del potere, della produzione tecnica, spunta il germoglio della domanda su Dio, e la scoperta di un Dio che viene dall’alto e che abbraccia l’abisso del nostro male personale e sociale. Questa domanda e questa scoperta sono già un grande miracolo.

Mi preme dire due ultime cose. Anzitutto, il compito della Chiesa e delle Chiese in questo frangente. La Chiesa in tutti questi anni non ha potuto mai sviluppare una vera e profonda teologia, e infatti il suo compito è innanzittuto resistere in vita contro la persecuzione. In secondo luogo occorre guardare con simpatia alla crescita di questi semi.

Vorrei precisare, infine, il fatto che questa situazione probabilmente andrà avanti per molto tempo. Alla caduta dell’Unione Sovietica molti speravano che anche in Cina accadesse qualcosa del genere. Ma le differenze sono tante: innanzittutto l’Unione Sovietica è stata costretta a cambiare da un fallimento economico generale; l’esercito dell’Unione Sovietica era un esercito diviso, e infine in Unione Sovietica vi erano persone che, volenti o nolenti, erano state influenzate dal Cristianesimo, quindi avevano l’idea che rischiare la vita per un ideale è una cosa valida. In Cina non c’è tutto questo. La Cina invece sta vivendo un successo economico nelle città (nelle campagne c’è molta povertà) e l’esercito è compatto e strumento di controllo molto forte – l’esercito è fra le strutture meglio pagate della Cina –; le persone più che sacrificarsi tendono a conservare la vita per il benessere. In questa situazione, quindi, dobbiamo essere molto pazienti e continuare a seminare e a curare questi piccoli germi di domanda religiosa che crescono in questo deserto arido del mondo cinese.

Arnold Sprenger, docente presso il Second Foreign Language Institute di Pechino

Sprenger: L’argomento che tratterò riguarda la religione e gli intellettuali in Cina, perché ritengo che vi sia stata una rivoluzione a questo proposito nella storia della Cina.

Per più di 20 anni sono vissuto nella Cina tradizionalista, a Taiwan: a partire dal 1967 sono stato a Pechino. Pertanto, vorrei parlarvi innanzitutto delle mie esperienze con gli intellettuali a Taiwan e nella Repubblica popolare cinese.

La mia prima impressione giunto a Taiwan è stata quella di una grande indifferenza da parte degli intellettuali nei confronti della religione in genere e del Cristianesimo in particolare. Visitando alcuni templi con gli studenti, ho constatato che non sapevano praticamente nulla di essi nonostante che i loro genitori vi ci si recassero.

Nelle discussioni e nei colloqui su argomenti inerenti il Cristianesimo, gli studenti mi dicevano continuamente che il Cristianesimo è religione dei peccati, che i cristiani hanno bisogno di un redentore mentre in Cina non ce n’è affatto bisogno. "Noi provvediamo da soli alla nostra redenzione, troviamo da soli la nostra perfezione". Ho capito in poco tempo che gli intellettuali e gli studenti cinesi avevano poco interesse nei confronti del Cristianesimo, semplicemente perché non sapevano cos’era.

Verso la fine del XIX secolo e agli inizi del XX secolo, molti cinesi andarono a studiare in Occidente dove conobbero solo idee socialiste, atee e positiviste. Questo corrisponde al loro sistema, poiché all’Occidente chiedevano solo la scienza, la tecnica, ma non erano interessati alla storia della cultura occidentale.

Gli intellettuali pensavano che la storia della cultura fosse una prerogativa della Cina; a Taiwan, i testi dei vari livelli scolastici erano tutti permeati da pensieri positivisti. Anche il governo di Taiwan aveva tendenze anticristiane molto forti. Si cercò di sminuire l’influenza del Cristianesimo in genere: l’insegnamento della religione nelle scuole era proibito e la materia teologia non esisteva nelle università, nemmeno in quelle cristiane.

Nel 1967 passai da Taiwan alla Repubblica Popolare Cinese, dove ebbi le stesse impressioni, con le situazioni ulteriormente amplificate dalla teoria marxista vigente. In Cina nei periodi delle persecuzioni religiose, specialmente nel periodo della rivoluzione culturale cinese, furono distrutte molte chiese e una notevole quantità di documentazione cristiana. Nelle scuole esisteva anche una propaganda antireligiosa in genere, in particolare contro i cristiani. Gli intellettuali non osarono approfondire ulteriormente l’argomento ‘religione’, e parlavano all’interno di traiettorie stabilite, con gli schemi marxisti prefissati.

Nonostante tutto questo, dalla fine degli anni ‘70, assistiamo al miracolo. La Chiesa in Cina vive e cresce rapidamente: questo era un grosso shock anche per il governo che credeva di poter sradicare la religione e invece doveva constatare che essa rinasceva con una nuova vitalità. Contemporaneamente, assistiamo al risorgere degli intellettuali: alcuni esempi dimostrano la mia tesi. A partire dal 1978 esiste un Istituto di Studi Religiosi presso l’università di Nanchino, che pubblica una rivista dal titolo "Religione". Questa rivista ha fatto molto anche per l’apertura delle questioni religiose in Cina. Nel 1979, presso l’Accademia delle Scienze Sociali, venne fondato l’Istituto delle religioni, che pubblica altre due riviste che trattano di molteplici qustioni religiose. Da alcuni anni esiste la Rivista della Cultura Cristiana, che si rivolge essenzialmente ai giovani intellettuali cinesi. Possiamo chiederci il motivo di questo grande interesse nei confronti delle religioni e del Cristianesimo. Gli intellettuali negli ultimi quarant’anni sono stati attaccati da periodi di campagne di sobillazione comunista; poi vi è stata la terribile rivoluzione culturale; infine, il crollo dell’Unione Sovietica.

Tutti questi fattori hanno dato luogo ad aperture nuove, a nuove domande sulla Cina, sui valori ultimi dell’uomo, e si è scoperto che i valori del cristianesimo potevano essere interessanti anche per la Cina.

Vorrei ora parlarvi di due giovani professori che hanno contribuito molto a fornirci informazioni su questo nuovo interesse degli intellettuali cinesi. Il primo di cui vi parlerò è Zu Tsin Pin, che l’anno scorso ha pubblicato un saggio e ha tenuto una relazione ad un simposio organizzato dal Comitato delle Religioni della Conferenza Consultativa Nazionale Politica.

Questa relazione è estremamente importante perché si è tenuta al massimo livello politico. Il professore si è laureato a Monaco in Teologia e attualmente lavora presso l’Accademia delle Scienze Sociali a Pechino. Egli sostiene che nella Cina socialista, negli ultimi 30-40 anni, esisteva la tendenza ad evitare le domande sulla realtà delle religioni. Il partito comunista, il Governo, praticavano la politica dello struzzo. Gli intellettuali avevano paura di impegnarsi, la versione ufficiale del partito era semplicemente "la religione è oppio per il popolo". Mazutsin Pin si chiede come stanno realmente le cose e constata, anche dalle statistiche, che le religioni crescono. Sorge il pericolo di una collisione con il Governo, e si chiede: "Necessariamente, le cose devono avere questo andamento? Era questa l’intenzione di Marx? Siamo sicuri di interpretare Marx? Marx aveva sviluppato un’ideologia dinamica, quello che pratichiamo noi è puramente statico. La conclusione è che la religione non è quello che ne hanno fatto gli ideologi comunisti: la religione si occupa di questioni completamente diverse, delle ultime verità dell’uomo. Nel suo libro questo professore dice anche che la religione è una forza esterna a noi, che tocca, che tange, che regola la vita quotidiana dell’uomo. Gli intellettuali hanno scoperto che la religione e una profonda fede possono portare a nuove conoscenze; religione non significa – come volevano i comunisti – semplicemente chiese, templi o determinate strutture sociali. Sono molto più importanti i contenuti religiosi che i cinesi non hanno mai considerato.

L’autore sostiene anche che finora in Cina vi era solamente una definizione sociolgica della religione, influenzata dalla ideologia. Ma se si pongono delle questioni, delle domande culturali e religiose, per la Cina si aprono delle prospettive e dei compiti completamente nuovi. La religione infatti aiuta nella ricerca del significato ultimo della nostra esistenza. La religione aiuta la consapevolezza di un livello più alto dell’esistenza dell’uomo.

La religione aiuta a lottare per la verità, per una maggiore perfezione e rende consapevoli della nostra limitatezza umana; essa fornisce il desiderio per il permanente, per l’illimitato, per l’infinito, per l’assoluto. La religione aiuta a comprendere quello che è vero, quello che è buono, quello che è bello, quello che è sacro. La religione fornisce anche istruzioni per la nostra vita pratica e quotidiana. In Cina l’idea della religione era caratterizzata, influenzata dalla tradizione: ma questo concetto è superato ed è estremamente importante che la Cina abbia o costituisca stretti contatti con tutte le religioni del mondo, anche relazioni con il Vaticano e con il Sommo Pontefice. Il dialogo è necessario, le posizioni superate devono ormai essere messe da parte.

Questo autore sostiene che la politica del governo cinese verso la religione si è dimostrata sbagliata, è frutto di un’arretratezza ideologica.

La religione è stata sottovalutata e questo ha portato anche a pericolosi conflitti. Le statistiche dimostrano che la religione è in continua crescita: vi sono quasi ottanta milioni di cristiani in Cina.

Parlerò ora di un secondo autore di estremo interesse, Liu Tzao Fan. Egli rappresenta un gruppo di giovani intellettuali cinesi che si occupano di storia culturale comparativa e anche di storia culturale occidentale. Questo giovane professore intende evidenziare anche aspetti e contenuti religiosi, e credo che per la prima volta nella storia culturale della Cina un intellettule cinese si occupa di queste domande. Vi presenterò alcuni aspetti del pensiero di questo autore.

Egli parla di un equivoco da parte degli intellettuali cinesi quando affermano che l’elemento costitutivo della storia culturale della Cina sarebbe l’etica sociale e l’estetica, e quello della cultura occidentale le analisi razionali, le trasformazioni sociali, la razionalizzazione del mondo e di conseguenza le metodologie scientifiche e le conquiste tecniche. Questo è, secondo l’autore, un gravissimo equivoco, perché anche nella storia dell’Occidente ci sono valori spirituali, artistici, nella poesia, nell’arte, nella filosofia degli antichi greci, come sappiamo, e ancora di più nei Cristiani e negli Ebrei. Gli intellettuali cinesi non si sono mai occupati della storia della cultura occidentale, non hanno mai analizzato lo sfondo culturale delle scienze della razionalità.

Liu Tsan Fan propone una lingua comune per questo confronto e per questa comparazione delle culture. Che cosa significano la cultura, la democrazia, la religione, il cielo, l’inferno, la fede, la religione in generale, la redenzione, per i cinesi, e per gli occidentali? Dobbiamo imparare a parlare una lingua in comune, che è rappresentata dalla vita stessa, dalle nostre esperienze umane, dalla gioia e dal dolore. Sia in Cina che in Occidente si parla del cielo, dell’inferno, della morte, ma queste parole sono riferite a cose completamente diverse.

Un’altra questione viene posta da questo intellettuale. Una cultura è legata alla razza, a un luogo, a un tempo. Perciò, il Cristianesimo può esistere solo in Occidente? La sua risposta è la seguente: una cultura che sostiene i valori umani generali appartiene a tutti gli uomini. Perciò il Cristianesimo e Cristo possono esistere anche in Cina. La Cina, nella storia, si è troppo piegata su di sé: per molti intellettuali l’essere cinese era molto più importante dell’essere uomo. I confuciani hanno un grande interesse per la formazione dell’individuo, ma non per questioni come l’universo, la natura dell’uomo, la vita, la morte, Dio. Il Confucianesimo evidenzia la personalità dell’uomo, che deve essere forte, cosciente, in grado di realizzare se stesso.

Liu Tson Fan si pone la stessa domanda per il Cristianesimo. Nel Cristianesimo riconosciamo la nostra debolezza, il nostro peccato, ma occorre chiedere ai confuciani se una persona può veramente essere forte e cosa vuol dire realizzare o perfezionare se stessi.

Una realizzazione di se stessi porta effettivamente a realizzare anche la famiglia, la società, la pace nel mondo.

Nella storiografia cinese, viene sempre evidenziato il bene, il positivo, il corretto, lasciando un abisso appunto tra il mondo del confucianesimo e il mondo storico, il mondo reale. In Cina non esiste un ponte che colleghi questi due mondi.

Liu Tsan Fan si occupa anche del concetto – per lui decisivo – di Dio in Cina. Il Dio del cristianesimo è un’entità assoluta, razionale, personale: questo influisce fortemente anche sulla nostra comprensione del mondo, sull’etica, sulla comprensione di noi stessi e della società, perché davanti a Dio siamo tutti uguali. Influisce anche sulla nostra concezione delle scienze, perché per noi occidentali la scienza è possibile perché abbiamo un Dio razionale. Nell’antichità cinese esisteva un Dio dotato di libera volontà, l’origine di tutte le cose, il Signore del bene e del male, un’Entità con un’autorità assoluta: ma nel corso della storia cinese questo concetto di Dio è arretrato sempre più. Dio ed il cielo si trasformarono semplicemente in universo e nel Confucianesimo, l’uomo fu posto al centro di questa visione. L’onnipotenza di Dio venne trasferita all’uomo; Liu Tsan Fan si chiede però se l’uomo ha veramente questa forza, questa capacità di potere agire come Dio. Con la rivoluzione culturale cinese, l’uomo ha sostituito Dio: cosa farà? Confucio, evidenzia l’autore, non si occupa assolutamente dei deboli, della tentazione, della paura, della morte, della sofferenza; in Cina non esiste Dio, che sente le urla dell’uomo torturato. In un libro classico, il libro delle poesie, che contiene ben trecento poesie, nemmeno una parla delle sofferenze, della morte.

Ho già accennato al fatto che in Cina assistiamo a novità assolute: gli intellettuali cinesi, per la prima volta, mostrano il loro interesse nei confronti della religione e in particolare verso Cristo e i valori cristiani. Tuttavia questa riflessione non ha luogo nell’ambito della Chiesa. Le Chiese dovranno darsi molto da fare ancora per poter sopravvivere in Cina; e non hanno ancora iniziato a riflettere su questi temi, poiché non hanno né la forza né il personale per farlo. Gli intellettuali fanno quello che sarebbe il compito della Chiesa, ma la maggior parte di questi intellettuali non sono cristiani. Troveranno la loro via, la loro strada verso la Chiesa? Non si può rispondere a questa domanda: sicuramente essi preparano la via a una nuova comprensione del Cristianesimo in Cina, e svolgono così un prezioso lavoro. Per questo, noi cristiani in Cina e all’estero, dovremmo stimare quello che fanno questi intellettuali e collaborare strettamente con loro.

 

 

ACCADE QUALCOSA DA ORIENTE

 

Islam: possibilità di dialogo

Giovedì 26, ore 17

Relatore:

H’Mida Ennaïfer

Introduzione di

Sergio Cristaldi,

docente di Letteratura Italiana all’Università di Catania

Cristaldi: In Occidente è necessario sfatare alcuni equivoci riguardo all’Islam, anzitutto che si tratti di una pura sopravvivenza, di un mero residuo di un fenomeno appartenente al passato. In realtà le statistiche ci informano che sono circa 1 miliardo i musulmani oggi esistenti nel mondo, e questa cifra esprime un incremento ragguardevole poiché all’inizio del secolo i seguaci dell’Islam erano circa 200 milioni.

Oltre che nei paesi arabi, in Turchia e nell’Iran, la religione fondata da Maometto è dominante in Afghanistan, Pakistan, Bangladesh, Malesia, Indonesia, in non pochi stati dell’Africa Sub-Sahariana, e in alcune Repubbliche dell’Ex Unione Sovietica. In queste nazioni l’appartenenza all’Islam è fortemente radicata e tenacissima e costituisce il fattore fondamentale della coscienza del singolo e del popolo, ma ancora non si deve presumere che si tratti di qualcosa che non riguarda l’Europa e l’Occidente in genere. L’immaginario occidentale talora associa l’Islam a immagini esotiche e anche l’intellettuale nostrano affetto da provincialismo, si adagia in un clichè rassicurante che confina la fede di Maometto in una società agricola, artigiana.

Alcuni anni fa era possibile sentirsi ripetere che in una cornice industriale avanzata non vi erano chances per i musulmani; ma l’Occidente sarà presto costretto ad una brusca disillusione. Nella sola Europa Occidentale, i musulmani sono già circa 10 milioni; moschee sorgono in Inghilterra, Germania, Francia e Italia. Dobbiamo riconoscere che l’Islam è caratterizzato nel nostro secolo, in particolare nell’ultimo scorcio, da un forte movimento espansivo, riscontrabile tanto nei paesi tradizionalmente dominati da questa religione, quanto nei paesi occidentali. Una spiegazione potrebbe essere il notevole aumento demografico delle popolazioni aderenti alla fede in Allah, e, per quanto riguarda l’Occidente, l’immigrazione degli extra-comunitari che investe anche l’Italia.

Ma non è una spiegazione sufficiente del fatto che giovani arabi o iraniani continuano a riconoscersi in questa religione, la preservano e la diffondono anche quando si trovano in società totalmente differenti da quella d’origine: questo dimostra che l’Islam mantiene anche oggi una indiscutibile vitalità.

L’Islam pretende dunque di essere un nostro interlocutore e sarebbe un errore sottovalutarlo, è indispensabile una conoscenza meno vaga e meno superficiale di quella a cui siamo abituati.

Va anche precisato che l’Islam non è una realtà indifferenziata e monolitica: al suo interno convivono posizioni non poco distanti, non solo la divaricazione tra Sunniti e Sciiti, ma anche quella tra fondamentalisti e fautori di una religiosità equilibrata e aperta. A questi ultimi appartiene anche il professor Ennaifer. Vorrei iniziare il colloquio con lui con una domanda. In Occidente si tende spesso, più o meno inconsapevolmente, a identificare l’Islam con l’integralismo islamico. Esiste invece un Islam diverso da quello integralista? Quali ne sono le caratteristiche più significative? Fino a che punto l’Islam moderato è radicato nella tradizione islamica?

H’Mida Ennaïfer è docente di civilizzazione Musulmana all’Università di Teologia di Tunisi

Ennaïfer: Per rispondere alla domanda in merito all’eventuale reale differenza che può esistere tra l’Islam e l’integralismo ritengo ci si possa rifare al concetto di dialogo – studiato e testimoniato in questo Meeting – tra Islam e Cristianesimo e tra Islam e modernità; per dedurne che una differenza può esistere ed essere letta tanto in termini storici quanto in termini di civiltà. Il prof. Ries ci ha ricordato l’esistenza di non pochi elementi comuni che perorerebbero a favore del dialogo tra musulmani e cristiani; oltre a questi elementi comuni esistono anche divergenze, che non sono riferite tanto ai valori, quanto alla realizzazione di queste religioni nella storia. Il dialogo sui valori è relativamente facile da instaurare, ma se si vuole stabilire un dialogo per quanto riguarda la realizzazione e la costruzione delle civiltà che seguono l’una e l’altra religione ci si accorge di grandi differenze.

Per meglio chiarire, soprattutto ai cristiani, le differenze tra l’Islam e il Cristianesimo dal punto di vista storico, esporrò due argomenti. Il primo è il seguente: fin dall’inizio nella realizzazione dell’Islam, nella sua costruzione sociale, ci si è posti l’obiettivo di creare una fortezza, una città dell’Islam, la cosiddetta Medina. Lo scopo iniziale della creazione di questa città islamica era quello di cristallizzare e a un tempo incarnare la comunità della fede. Capo politico e spirituale di questa Medina fu un’unica persona, il profeta Maometto. Il suo potere era fondato sulla legittimazione religiosa del potere stesso. Ora, questa doppia qualità del profeta, capo politico e guida spirituale, doveva porre gravi problemi dopo la sua morte, quando ci si chiese se i suoi successori dovevano essere i discendenti fisici che ne mantenessero il carattere sacro oppure se era sufficiente che ne fossero i discendenti ideali, che mantenessero la sua linea e il suo messaggio nel governo della città.

Quasi dai primissimi anni dalla morte del profeta, in merito a questa duplice possibilità, si sono avute due diverse tendenze. La prima, che poi prese il nome di scuola o tendenza sciita, affermava che la fusione tra la sacralità della guida spirituale e il carattere di capo civile politico, poteva essere perpetuata solo dalla stessa famiglia del profeta, dai suoi discendenti. Si venne a creare, successivamente, una diversa scuola, secondo la quale il principe dei credenti non doveva essere necessariamente un discendente del profeta Maometto, ma era sufficiente che, nell’esercizio della legge e delle sue altre funzioni, ne mantenesse le linee.

Il secondo tratto caratteristico dell’Islam e non conosciuto nel Cristianesimo, è relativo ad una questione socio-politica: la creazione di un modello islamico imperiale che ha trasformato Medina, rendendola contraddittoria rispetto a certi principi dettati dal fondatore dell’Islam. Da questa circostanza è derivata una seconda scissione musulmana; il doppio concetto di politica e religione prima, e politica e modello imperale poi, portarono alla domanda circa la necessità che questa fusione fosse perpetua. Fin dall’inizio alcuni musulmani ritennero che dovesse esserlo; altri invece affermarono che questi due sistemi non dovevano necessariamente rimanere strettamente collegati. Desidero a questo proposito ricordare quanto affermato da un pensatore egiziano dell’inizio del secolo; egli afferma che la città o l’impero islamico non sono intrinsecamente connessi all’Islam, ma sono un’evoluzione ulteriore voluta da un’élite militare. Come si capisce da questi argomenti, politiche diverse sono previste dall’Islam e dal Cristianesimo.

L’Islam comporta una costruzione specifica che è di per sé fonte di dibattito. Ci si domanda, in altre parole, se l’Islam è solamente la dimensione spirituale introdotta dall’ultimo profeta, da Maometto e se questa è necessariamente legata al vissuto storico di quei tempi nella penisola arabica, oppure se la dimensione spirituale di cui parliamo è da considerarsi libera ed indipendente e può essere reinterpretata nei contesti storici attuali. Proprio qui sta la differenza tra integralisti e musulmani: i primi affermano infatti che possono essere accettati solo modelli creati nel contesto storico di Maometto, che questi modelli costituiscono parte integrante del sacro mussulmano e di conseguenza sono immutabili.

E’ da sottolineare infine il distinguo che si fa tra due diverse letture teologiche dell’Islam, manifestatesi fin dal primo secolo dell’Egira (l’ottavo secolo dell’era cristiana). Una di queste due tendenze afferma che Dio, rivelando la legge nel messaggio coranico, implicitamente nega ogni possibilità di delega agli uomini di rileggere, interpretare o modificare questa legge. La seconda tendenza invece afferma che l’uomo, proprio per essere stato depositario, per aver ricevuto questa rivelazione, può creare il giusto. Le due dottrine che si crearono sulla base di queste due tendenze diedero luogo a due correnti che furono fin dall’inizio in lotta tra loro. Evidentemente la visione della seconda dottrina, quella che nega all’uomo la possibilità di modificare la legge, prepara il terreno per lo sviluppo dell’integralismo, che arriva a negare addirittura qualsiasi genere di innovazione, anche giuridica o politica, e impone di seguire la rivelazione come essa appare nei testi.

Cristaldi: Vorrei domandare un ulteriore approfondimento proprio su questo ultimo aspetto. La possibilità di una innovazione ha tra i suoi fautori coloro che vogliono un Islam più equilibrato, più moderato, i quali rivendicano la possibilità che certi precetti giuridici fissi possano essere rivisti ed interpretati più liberamente. Questa innovazione è qualcosa di assolutamente nuovo rispetto alla rivelazione coranica oppure è un modo di comprensione più profondo della stessa rivelazione?

Ennaïfer: L’integralismo non è nato nei nostri tempi, ma nei primissimi anni che hanno seguito la morte del profeta. Nell’Islam non c’è solo integralismo; d’altro canto, l’Islam non integralista si trova oggi diviso e diffuso in diverse scuole e merita di essere rinnovato.

Vorrei sottolineare che sin dall’inizio, la realizzazione dell’Islam ha avuto caratteri molto speciali per quanto riguarda la sua essenza religiosa e politica: sin dall’inizio ci sono state due diverse interpretazioni, che si sono fatte luce prima molto timidamente, ma poi sono rapidamente cresciute, alla luce della filosofia greca e dei contributi dati dai pensatori musulmani.

Cristaldi: All’interno dell’Islam ci sono degli antidoti contro l’integralismo?

Ennaïfer: L’antidoto, paradossalmente, può essere usato in appoggio alla stessa tesi integralista. Il profeta, prima di morire, disse: "Ho lasciato dietro di me una e una sola cosa: il testo coranico". Il testo coranico è considerato il testamento vivo del profeta. Ora, si tratta di un testo sacro e nessuno può avvalorare come migliore delle altre e definitiva la propria interpretazione di esso, e così vediamo che può assurgere ad antidoto. Se si tratta di un testamento, esso deve essere eseguito alla lettera, e vediamo dunque che lo stesso testo coranico può essere fonte di un integralismo contemporaneo.

Cristaldi: Alcuni paesi musulmani, il Pakistan, l’Iran... hanno adottato una legislazione che recepisce alcuni principi del fondamentalismo islamico, facendo della Sar i’ a norma giuridica dello Stato. Da qui derivano alcune conseguenze: per esempio, colui che si converte dall’Islam ad un’altra religione è destinato alla pena capitale, l’adultera viene lapidata; la mano del ladro, viene amputata. Ritiene l’applicazione di questi principi fondamentalistici nella costituzione, una vittoria o una sconfitta dell’Islam?

Ennaïfer: L’applicazione della Sar i’ a – che non è altro che la legge rivelata in certi testi coranici – viene considerata da certuni condizione necessaria e sufficiente per la vittoria dell’Islam. D’altro canto, una minoranza dà alla stessa Sar i’ a un significato diverso: secondo questa minoranza amputazioni, lapidazioni e altre pene devono essere considerate come semplici mezzi volti a raggiungere la giustizia nella società musulmana. Mezzi dunque, non scopi di per sé. Molti movimenti islamici del mondo arabo ritengono invece che queste pene bastino da sé a risolvere la miseria, la decadenza sociale e gli altri problemi del mondo musulmano. Un versetto del Corano (sura 38, versetto 36), recita: "L’amore di Dio passa per l’amore dell’uomo, suo vicario in terra". Una comprensione profonda di questo versetto ci porta a concludere che la Sar i’ a non può e non deve essere applicata come uno slogan politico, ma deve assurgere a progetto politico, di portata pari ai problemi del mondo e della società arabo-musulmana.

E’ qui necessario aggiungere una considerazione estremamente interessante: molti integralisti, la maggior parte di essi, parlano di applicazione della Sar i’ a come difesa dal modo di vita delle società occidentali, che si tende ad imporre loro. Solo così, essi possono allontanarsi dal sistema sociale e politico che va inarrestabilmente propagandosi nel mondo islamico e che crea in questo una vera e propria dipendenza dalle grandi potenze. L’applicazione della Sar i’ a è quindi un gesto non solo religioso, ma anche politico e sociale.

Cristaldi: E’ sempre più diffusa in Europa la presenza di immigrati extracomunitari, moltissimi dei quali di religione islamica. D’altra parte i cristiani in terra d’Islam sono una realtà antichissima. Pare tuttavia che non ci sia del tutto reciprocità, i musulmani nei loro Paesi non offrono ai cristiani la stessa libertà di cui i musulmani stessi godono invece in Europa. Consideriamo, ad esempio, uno dei diritti più elementari, quello di annunciare e proporre pubblicamente la propria fede, anche a coloro che provengono da una tradizione religiosa diversa. Questo in Occidente è possibile, ma raramente lo è in terra islamica.

Ci si può chiedere se questa difficoltà dipenda da una contingente legislazione – da una causa di ordine storico-politico – o se invece non risalga alla natura stessa dell’Islam. Il fatto che la conversione a un’altra religione sia assolutamente inaccettabile per l’Islam e venga, in alcuni paesi, punita con la pena capitale, farebbe sospettare che si tratti di qualcosa di inerente all’Islam in sé. Cosa ne pensa?

Ennaïfer: E’ questo un problema molto delicato, essendo legato all’idea che le masse mussulmane hanno della loro religione. Esse ritengono che la religione abbia una valenza non solo spirituale, ma anche di identità culturale e politica. Nel mondo arabo musulmano, la distinzione tra ciò che è politico – la res publica – e ciò che è dimensione trascendente e spirituale è ancora incompiuta, per ragioni storiche. Questo può spiegare le reticenze che si riscontrano nel concedere garanzie di libertà di fede.

Vi porterò un esempio. In Tunisia e in Marocco, si è registrata una certa – per quanto relativa – evoluzione per ciò che riguarda la libertà di coscienza. Questa evoluzione ha permesso di capire meglio la possibilità che una donna musulmana sposi un uomo non musulmano, anche se la legge lo nega ancora. In certi Paesi, ove si è seguito un percorso alquanto diverso da quello seguito in altre società arabo-musulmane, una certa intellighenzia locale arriva a professare il suo totale ateismo, senza per questo essere sottoposta a nessuna pena. Altrove invece, la situazione politica e sociale è affatto diversa, per esempio in Egitto. Recentemente – è stato riportato anche dalla stampa italiana – un grande pensatore era ritenuto apostata, e i saggi di una grande istituzione religiosa egiziana pretendevano per lui la pena di morte.

Concludo rivolgendomi agli amici cristiani che chiedono reciprocità tra quanto avviene in Europa e nel mondo arabo per gli ospiti dei rispettivi Paesi: incoraggiate piuttosto lo sviluppo intellettuale e sociale in questi Paesi del mondo arabo, non per ottenere la conversione, ma per incominciare almeno ad ottenere una miglior comprensione della loro stessa religione d’origine. Nel mondo arabo musulmano è essenziale ottenere una migliore comprensione della stessa religione musulmana, affinché possa un giorno arrivare a capire come un’altra religione può parlare di un Gesù, figlio di Dio. Un popolo che ha difficoltà a capire che Dio ha mandato un suo profeta, come potrebbe mai capire che Dio ha mandato suo figlio?

Una cooperazione sarà intelligente quando saprà e vorrà cogliere le sfumature che si hanno nelle diverse evoluzioni tra Paesi diversi e che possono fornire un risultato positivo.

Cristaldi: Il prof. Ennaïfer ci ha permesso di cominciare a conoscere e a capire l’Islam, attraverso l’incontro con lui e con la sua esperienza personale e vissuta di fede.

Siamo profondamente convinti, da parte nostra, che il dialogo tra cristiani e islamici sia una responsabilità oggi ineludibile: cristiani e islamici nel Medio Oriente, nell’Africa del Nord, in Asia, ma anche in Europa, sono chiamati a vivere insieme. Una reciproca indifferenza, un voltarsi le spalle, non è possibile. L’alternativa al dialogo è l’ostilità, la lotta, la guerra. Non crediamo – occorre precisare – ad un dialogo come cancellazione delle rispettive identità, come accesso a una sorta di piattaforma di valori comuni autonomamente sussistenti e affatto autosufficienti.

Osteggiamo una sedicente etica mondiale in cui sciogliere e annullare le rispettive appartenenze: la cosiddetta società multietnica non può essere città degli omologati. Quello che ci sta a cuore allora, è che le persone possano entrare con tutta la propria fede in un confronto umano, comunicando l’interezza della propria esperienza. In questo senso, si tratta di una sfida: l’esperienza che l’altro vive ed esprime, presenta una sfida alla mia umanità e mette alla prova la bontà dell’esperienza di cui io sono portatore.

Come è stato detto in questi giorni, il confronto non può che culminare nella testimonianza rispettosa, ma non timorosa, offerta alla libertà dell’altro. Da parte di noi cristiani, questo significa che non possiamo nascondere ai nostri amici islamici che ciò che ci sta più a cuore – lo ripeto con un’espressione cara a molti di noi – è Cristo e tutto ciò che viene da Lui.

Questo confronto tra cristiani e islamici sarebbe impossibile o arduo se ciascuno dei due interlocutori non godesse pienamente del diritto di vivere e di credere, quindi anche di manifestare pienamente, pubblicamente e socialmente la propria fede. Può darsi che in determinate situazioni questo sia particolarmente difficile, anche per condizionamenti storico-sociali: ma a questo dobbiamo tendere. Questo diritto deve essere riconosciuto a tutti, deve valere in Bosnia come in Palestina, in Germania come in Iran; noi siamo chiamati a tutelarlo in Europa e auspichiamo che altrettanto facciano i nostri amici islamici in terra d’Islam.

Credo che la reciprocità sia il banco di prova della buona volontà con cui l’Islam, alle soglie del terzo millennio, entra in questo grande confronto con il Cristianesino. Si deve poter dire anche per gli uomini delle tre religioni di Abramo, che l’unità è nel destino ed è nel destino perché è all’origine: ricordiamoci che non può convergere verso l’unità se non ciò che è unito già all’origine.

Ogni uomo discende dalla medesima origine divina e reca impressa la medesima vocazione a partecipare alla vita di Dio. L’unità quindi in qualche modo già c’è, si deve manifestare più apertamente: non è un’utopia, non nasce da un mero progetto intellettuale, razionale, umano, affidato alla buona volontà dell’uomo. Questa comune origine vale per tutti gli uomini, ma cristiani e islamici la riconoscono già, sebbene con accenti diversi. Questo accento diverso per noi cristiani è lo sguardo fissato su Cristo.

Non è dato a noi sapere se questo riconoscimento tra cristiani e islamici diverrà concorde nella storia o alla fine della storia; ma lavorare per questo riconoscimento significa praticare fino in fondo l’incontro e la testimonianza.