Basilica Patriarcale di San Francesco
in Assisi: il cantiere dei restauri

Presentazione della mostra

Martedì 24, ore 15.00

Relatori:

Antonio Paolucci,
Soprintendente dei Beni Artistici e Culturali di Firenze

Paolo Rocchi,
Docente presso l’Università
La Sapienza di Roma

Giorgio Squinzi,
Amministratore Unico Gruppo Mapei

Raul Paggetta,
Sovrintendenza ai Beni Artistici e Storici di Perugia

Nicola Giandomenico,
Sacro Convento della Basilica di San Francesco in Assisi

Paolucci: Quando il 4 ottobre del 1226 san Francesco morì, tutto avrebbe voluto fuorché un santuario che ricordasse il suo nome. Voleva sparire nella misericordia del Signore. Per fortuna della storia dell’arte, i suoi seguaci non rispettarono le volontà testamentarie di san Francesco e cinquant’anni dopo la morte del santo già c’era Assisi, così come voi oggi la vedete. Credo che tutti almeno una volta nella vita abbiano visto Assisi e il complesso francescano di Assisi, una vera e propria città sacra. È più che un convento san Francesco, è più che una Chiesa: è un insieme di Chiese, è una vera e propria città sacra, una città monastica fatta di Chiese sovrapposte, di refettori, di biblioteche, di chiostri. Questa è Assisi, che si è stratificata su se stessa secolo dopo secolo fino ad assumere l’aspetto che conosciamo. Si arriva ad Assisi attraverso una meravigliosa pianura che da Perugia porta ad Assisi, e si vede la città profilata contro il monte Subasio, il monte del lupo di Gubbio, il monte amato da san Francesco, monte che, fortunatamente, è rimasto intatto. La preservazione del paesaggio naturale intorno ad Assisi è realmente uno dei miracoli italiani, grazie al quale guardando Assisi essa assomiglia davvero a quelle città che i santi tengono in mano nei polittici del Medioevo.

La sera del 26 settembre dell’anno 1997, la basilica e tutta la città di Assisi, come gran parte dell’Umbria e delle Marche, ha subito le scosse del terremoto. Ad Assisi queste scosse furono particolarmente crudeli anche perché significarono la perdita di quattro vite umane: il crollo di alcune porzioni della basilica superiore di Assisi ha significato la morte di due frati francescani che erano presenti in quel momento dentro la Chiesa, e la morte di due miei giovani colleghi, funzionari della sovraintendenza di Perugia che erano lì per ragioni di servizio: le prime scosse di terremoto avevano infatti già allertato la sovraintendenza.

Il mondo è stato colpito non solo da questa sventurata vicenda, ma anche dal crollo di due porzioni importanti della volta della basilica superiore di Assisi. Il sistema sacro di Assisi è fatto di due Chiese sovrapposte, l’una sopra l’altra; sotto c’è la basilica inferiore dove riposano le spoglie mortali del Santo, ed è una specie di cripta affrescata, nella quale si entra per venerare la memoria del Santo. Sopra c’è la Chiesa superiore, grande e spaziosa, illustrata da innumerevoli affreschi, destinata alle grandi liturgie, costruita così grande proprio per accogliere le grandi masse dei devoti di san Francesco. Ebbene il sisma ha soprattutto colpito la basilica superiore, provocando il crollo di due porzioni della volta: una con l’immagine di san Girolamo, dottore della Chiesa, proprio all’inizio della basilica in corrispondenza con la porta di ingresso, opera del giovane Giotto, l’altra raffigurante l’evangelista Matteo, in corrispondenza dell’incrocio fra la nave centrale e il transetto, proprio sopra l’altare maggiore, opera di Cimabue. Questi danni artistici – Giotto e Cimabue – subito provocarono una grande emozione, un grande sgomento in tutto il mondo perché Assisi, dal punto di vista della storia dell’arte, è il luogo di incubazione e di formazione della civiltà figurativa degli italiani. La lingua figurativa d’Italia nasce in Assisi, proprio negli stessi anni in cui Dante Alighieri, contemporaneo di Giotto, scriveva la Divina Commedia. Così come Dante creava la lingua letteraria degli italiani, il suo contemporaneo e concittadino Giotto, sui muri d’Assisi metteva in figura la lingua figurativa degli italiani. La grande importanza di Giotto, se vogliamo ridurla ad una formula sintetica, consiste nella scoperta del vero, nella certezza dello spazio misurabile. Per la prima volta con Giotto, rompendo le convenzioni astratizzanti della tradizione bizantina, si scopre la verità, la verità delle cose, delle persone, degli atteggiamenti, dei gesti, la verità delle psicologie, delle emozioni; tutto questo è inserito nello spazio misurabile. Nasce la prospettiva. Il senso spaziale degli italiani, che si bilancia con la ricerca della verità, nasce proprio con Giotto. Per questo Assisi è così importante. Intorno a Giotto fioriscono i suoi allievi, che da lui presero stimolo e che poi svilupparono e variarono il suo insegnamento. Se voi entrate in Assisi nella basilica inferiore e in quella superiore trovate presenti tutti i grandi protagonisti della storia dell’arte italiana fra il 1200 e il 1300: Cimabue – il maestro di Giotto –, Giotto stesso, Simone Martini, Pietro Lorenzetti, e tanti altri allievi e seguaci o dell’uno o dell’altro. Le due Chiese di Assisi sono affrescate per ben 10.000 mq. Non esiste in tutto il mondo, in tutta Europa, una estensione pittorica di questa epoca.

Quando le due parti di volta, una con la pittura di Giotto, l’altra con la pittura di Cimabue crollarono frantumandosi in migliaia di frammenti, i giornali scrissero che era come avere perduto un canto della Divina Commedia. Occorre immaginare che un canto della Divina Commedia (ognuno può immaginare quello che conosce meglio o che gli piace di più, del Paradiso, dell’Inferno o del Purgatorio) si dissolva in tutte le sillabe che lo compongono, in tutti i versi di cui è costituito e che poi si debba ricomporlo, ritrovarlo, tentando di mettere insieme ogni lettera, ogni sillaba, ogni verso, ogni frammento. Immaginando questo si capisce l’importanza delle pitture perdute, quella di Giotto e quella di Cimabue, ed anche il problema che sta di fronte ai restauratori, i quali hanno di fronte a loro 250 m. di grande pittura ridotta in 100.000 frammenti colorati, alcuni grandi come mezza unghia, altri grandi anche mezzo metro. Tutti questi frammenti vanno ricomposti, studiati, riassemblati, proprio per ricomporre fisicamente, concretamente l’immagine dei capolavori perduti.

Ma non ci sono stati solo i danni alle pitture: il sisma del 1997 ha provocato danni ben più gravi alla struttura, perché ha minacciato di far cadere l’intero sistema di Assisi. Assisi e il complesso monumentale di san Francesco nella loro storia, più volte secolare, hanno subito ben 13 terremoti: infatti l’Umbria è una zona ad alto rischio sismico. Di questi terremoti ci sono ancora le cicatrici, i segni visibili, ma nessuno è stato devastante e distruttivo come quello del 1997. Il sacro convento è stato colpito in più punti, nel chiostro interno, nel refettorio, nelle sale, nei vari ambienti che costituiscono il complesso; è riuscito però a rimanere in piedi. Il grande monumento architettonico è uscito squassato, marcato, segnato, ferito dal terremoto ma è rimasto in piedi: il rischio vero era infatti che crollasse.

Il grosso lavoro da fare era decidere come salvare il sistema delle volte gotiche, come ricompattarlo, come consolidarlo, come supportarlo; è stato il momento più drammatico del nostro lavoro. Occorre dire che, una volta tanto, il governo italiano, in particolare il Ministero per i Beni Culturali ha agito con tempestività ammirevole, ha messo in campo subito, il giorno stesso del terremoto, una piccola task force di specialisti, di cui ero il coordinatore. Questa équipe ha cercato di salvare il complesso di san Francesco con dei provvedimenti che hanno comportato rischi considerevoli: questo oggi, a cose fatte, lo possiamo dire, perché sbagliare la terapia in un caso del genere poteva significare distruggere uno dei forse dieci monumenti più importanti del mondo. Credo infatti che poche cose siano paragonabili ad Assisi per importanza, un’importanza non solo artistica ma anche religiosa, simbolica e spirituale, insomma epocale.

Rocchi: C’è un convincimento errato nelle persone, per il quale ciò che è stato in piedi per secoli o millenni permarrà in questo stato di sicurezza per sempre. Questo non solo è errato ma è falso, perché se si potessero confrontare le mappe delle edilizie, delle architetture storiche, prodotte nei diversi millenni e la parte residuale che è giunta fino a noi, ci si accorgerebbe quanto manca di quel patrimonio, non soltanto per una volontà cosciente di demolizione ma anche per fatti accidentali, tra i quali il maggiore certamente è rappresentato dall’evento sismico. Inoltre, è provato scientificamente che al di là delle questioni dinamiche, al di là della polluzione atmosferica, al di là di fatti antropici, proprio la natura dei monumenti, per effetto di questo grande carico che grava nelle loro fondamenta, finisce per diminuire il potere portante della struttura in maniera endogena.

Per queste due ragioni, dunque, una struttura è destinata a non potere durare per sempre. Le nostre strutture sono strutture che hanno una nascita e una fine, come noi. In Assisi in particolare, e nell’Umbria in particolare, abbiamo assistito ad un fenomeno sismico che è durato nel tempo, quindi un fenomeno che ha avuto una scossa forte, fortissima, iniziata con le morti di cui si è detto, e che poi è perdurato per diverse settimane; questo perdurare è stato così portatore dell’aggravarsi dei fenomeni di dissesto, cosicché l’abbiamo potuto osservare come in un rallentatore e vederne il progredire. L’insegnamento ricavato da Assisi, dall’Umbria ed in parte anche dalle Marche fa riflettere: ora sappiamo con una certa sicurezza dove si possono produrre i danni e in che modo.

L’intervento sul timpano e il consolidamento delle volte hanno un significato molto importante, perché si è trattato di un’esperienza che ha messo insieme più cervelli. Per questo, è un tipo di lavoro che deve poter essere esportato perché non solo mette in grado la comunità di poter preavvertire alcune situazioni di rischio ma è in grado anche di controllare le eventuali provvidenze che vengono proposte. Questo non significa che si debbano prendere i nostri progetti e copiarli: non si può prendere un modello e riprodurlo in maniera acritica, deve essere condotta una operazione critica.

Il significato dei nostri interventi è anzitutto la linearità: avevamo fin dal primo momento chiaro che il pericolo dovesse essere vinto senza cancellare l’immagine architettonica e storica di quella struttura. Certo qualcosa abbiamo rischiato, nei primi attimi, ma poi l’intervento si è compiuto mettendo degli irrigidimenti i quali lasciano totalmente libera la struttura esistente. Il grande danno provocato dalle 1200 tonnellate di riempimento che gravavano le volte è stato rimosso, ragionando su come la statica mutava con questo procedimento. Sono state messe delle molle, dei tiranti che collegavano appunto le volte al tetto in cemento armato, tetto famigerato che in realtà è totalmente incolpevole di quel crollo.

Per quanto riguarda invece il timpano, si è pensato e realizzato un sistema di ricongiungimento del timpano con il tetto retrostante, interponendo dei materiali cosiddetti "a memoria di forma", cioè materiali in grado di deformarsi, dei tiranti in grado di allungarsi ma di riprendere poi la loro configurazione iniziale in una certa rilevante percentuale.

Squinzi: In Italia abbiamo una situazione assolutamente unica, perché, come è stato affermato in uno studio dell’UNESCO, circa i 2/3 del patrimonio artistico monumentale esistente al mondo si trova nel nostro paese; questo patrimonio ha ovviamente necessità di conservazione, di restauro, di abbellimento, di aggiornamento, di salvaguardia anche per il futuro. Proprio per effettuare al meglio questa conservazione, c’è un legame strettissimo tra la ricerca, l’innovazione e l’industria chimica: la chimica del restauro ha un’opportunità notevolissima in questo campo, e sicuramente ha dimostrato di essere all’avanguardia. In Italia infatti negli ultimi anni si sono visti una serie di interventi conservativi o di restauro all’avanguardia mondiale, come i rifacimenti dei pavimenti e dei corridoi sistini della biblioteca Vaticana a Roma, il restauro del Palazzo Ducale di Sassuolo, l’intervento nella Chiesa di Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna.

La situazione della basilica di Assisi è stata emozionante e interessante dal punto di vista della ricerca; come gruppo Mapei abbiamo contribuito ad alcune situazioni di questi lavori di recupero. Siamo intervenuti fornendo le resine impregnanti che hanno fatto lo strato per tenere sospese le volte; per sospendere le volte abbiamo dovuto usare un composito di resine epossidiche e fibre aramidiche particolarissime, composto che non esisteva nella nostra gamma di prodotti, e che abbiamo dunque dovuto sviluppare e adattare alle esigenze dell’intervento specifico. Abbiamo dovuto anche adattare e sviluppare una nuova formulazione per il legante idraulico, che è stato utilizzato anche per i lavori di riempimento tra i mattoni delle volte.

Perché noi facciamo questo? Certamente non lo facciamo per il business, ma anche perché da queste situazioni abbiamo uno stimolo tecnologico straordinario che ci consente di migliorarci sia sul piano delle capacità analitiche delle nostre strutture di ricerca, sia sul piano della capacità di sviluppo dei prodotti. Per questo, l’intervento di Assisi dovrebbe essere il paradigma di un’iniziativa comune tra il pubblico e il privato che potrebbe portare a una decisa salvaguardia e ad una riqualificazione di una parte fondamentale del nostro patrimonio artistico, culturale, e religioso.

Paggetta: L’équipe del restauro sta portando avanti quella che all’inizio forse poteva essere una scommessa: tengo a precisare che noi siamo intervenuti subito come detto, abbiamo eseguito tutti i lavori per la messa in sicurezza là dove era necessario. Questo non è stato semplice, perché nelle prime fasi il terremoto continuava a farsi sentire, e abbiamo avuto anche una grande paura di non farcela.

Nel settore del restauro è difficile riuscire a mantenere degli operatori, perché c’è bisogno non solo di capacità operativa, ma anche di amore, di rispetto del manufatto; per ricostruire le volte abbiamo ripescato, non a caso, gente che era già in pensione, perché purtroppo oggi manca una adeguata formazione di personale in questo settore.

Giandomenico: La domanda di fondo che vorrei fare è questa: "Come vivere nella fede un avvenimento simile? Come può un credente vivere l’esperienza di un terremoto secondo il progetto di salvezza di Dio?". È una domanda che noi, come comunità di frati del Sacro Convento, ci siamo posti subito, perché la realtà ci ha costretti, e ce la siamo posta in modo particolare perché la spiritualità di san Francesco ci spingeva a camminare in questa direzione. È per questo che la prima espressione che venne alla nostra mente fu quella di chiamare il terremoto "fratello", perché san Francesco ha scritto il Cantico delle Creature non tanto e non solo in momenti di letizia, in momenti idilliaci in cui tutto sembrava bello. Il Cantico delle Creature è stato piuttosto l’esperienza personale vissuta da Francesco alla luce della fede, contemplando la realtà che gravitava attorno a lui; dato che lui non ha avuto l’esperienza di un terremoto, non possiamo trovare nel Cantico l’espressione "fratello terremoto" o qualcosa del genere, ma certamente se ne avesse avuto esperienza avrebbe utilizzato un’espressione simile, così come ha chiamato il lupo di Gubbio "fratello", non perché il lupo gli faceva tenerezza, ma perché san Francesco è stato capace di rivolgere, di dare il titolo di fratello a tutte le persone, a tutte le creature con cui si è incontrato.

Vivendo in quanto francescani, questo momento particolare, abbiamo capito che per essere veramente nell’alveo della spiritualità francescana dovevamo porci di fronte a questo avvenimento chiamandolo fratello, pur capendo tutte le implicanze sia dolci che dolorose che esso ha comportato. La lettera di san Paolo apostolo ai romani dice: "Noi sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio, che sono stati chiamati secondo il suo disegno". E ancora: "Chi ci separerà mai dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? [potremmo aggiungere: il terremoto?] Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati". Una terza citazione: "Io ritengo che le sofferenze presenti non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi". Ed un’altra infine: "O profondità della ricchezza, della sapienza e della scienza di Dio! Quanto sono imperscrutabili i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie!".

Di fronte a queste espressioni, ci sono due livelli diversi di vivere la fede; restando nella terminologia di san Paolo, possiamo dire che c’è un modo di vivere la fede secondo la carne e c’è un modo di vivere la fede secondo lo spirito. Nel nostro caso potremmo dire che vivere la fede secondo la carne significa ridurre la certezza della presenza di Dio nel corso della storia ad una specie di provvidenza che dà significato razionale anche a vicende naturali e storiche che sono per noi sprovviste di razionalità; sarebbe quell’abbandonarsi fiduciosamente alla provvidenza di Dio perché non capiamo, secondo l’espressione popolare "in fondo, in fondo un Dio ci dovrà pur essere". Invece, vivere la fede secondo lo spirito, significa capire che Dio si rivela nel mondo, che Dio non ha con il mondo un legame di necessità, e che quello per cui si entra nel mistero di Dio è un atto di libertà. Questo atto di libertà si ha non per la nostra capacità di essere partecipi di questi misteri, ma perché Dio ce li comunica con gratuita rivelazione.

Noi francescani della comunità del Sacro Convento abbiamo proprio fatto questo tipo di esperienza: anche il terremoto è un dono, è una grazia e noi vorremmo continuare, negli anni a venire, a trasmettere a tutto il mondo proprio questa realtà di dono e di grazia; il terremoto arrivato ad Assisi due anni prima del Giubileo va letto proprio in questa luce.