Venerdì 31 agosto, ore 11.15

UNA PENISOLA DI COSTRUTTORI E DI DISTRUTTORI DI MITI AMERICANI

Partecipano:

Piero Ostellino,

direttore del "Corriere della Sera"

Carmine Benincasa,

critico d’arte, docente all’università di Roma

Claire Sterling,

statunitense residente in Italia, giornalista e scrittrice

Che idea ci si è fatta e ci si fa in Italia della realtà americana? Le immagini sono tante: l’America degli emigranti, l’America della liberazione, l’America della grande letteratura, l’America dei diritti civili e quella della discriminazione razziale, poi l’America della guerra in Vietnam, e infine (per ora) l’America del rock e del fast food. Quasi sempre si è trattato d’immagini mitiche. Di un mito, e anzi di un mito rovesciato, delle proiezioni in un altro luogo, oltre l’Oceano, di speranze o timori riguardo al nostro futuro.

P. Ostellino:

Innanzi tutto devo rilevare una cosa: evidentemente chi ha organizzato la tavola rotonda non ha fatto il corrispondente da Mosca, come ho fatto io per tanti anni, perché se no il titolo ideale, parlando del nostro Paese, avrebbe dovuto essere ‘Una penisola di costruttori di miti sovietici e di distruttori di realtà americane’. Questa mi sembra infatti un po’ l’inclinazione del nostro Paese. In ogni caso, dal punto di vista metodologico, sia che si guardi all’URSS sia che si guardi agli USA, mi pare che uno degli errori che si compiono più frequentemente in Italia, e questo è proprio un errore di carattere culturale e di carattere metodologico prima ancora che di carattere politico, è che si tende molto spesso a comparare modelli ideali con modelli reali. Certo che se si compara un modello ideale con un modello reale, il modello ideale finisce sempre col prevalere, perché a tale modello reale non corrisponde mai al modello ideale. E questo è un difetto di una cultura politica che è fortemente, diciamo così pan-filosofica, pan-ideologica, ed è scarsamente empirica, per cui chiunque si ancori alla realtà e cerchi di giudicare la fenomenologia sociale per quello che è, finisce molto spesso con l'essere accusato d’anti-qualche cosa, mentre in realtà si tratta soltanto di appurare se è vero o falso quello che sostiene. Perché dicevo all’inizio che la nostra penisola è una penisola di costruttori di miti sovietici e di distruttori di realtà americane? Perché - forse voi non lo ricorderete perché siete troppo giovani - quando io ero corrispondente da Mosca mi sono spesso sentito accusare d’essere antisovietico e anticomunista, cose che poi d’altra parte non è che mi dispiacciano molto, comunque che rivelavano un approccio estremamente ideologico, mentre si sarebbe trattato di vedere quello che io scrivevo. Quando per esempio scrivevo che a Mosca non c’era il latte fresco, come in realtà non c’era, la colpa non era mia e nemmeno mi si poteva definire un antisovietico e anticomunista per il solo fatto che non ci fosse il latte. Il fatto che non ci fosse il latte me lo avevano raccontato gli stessi produttori di latte sovietici. In Italia, invece, mi si accusava di essere un antisovietico perché dicevo che non c’era il latte, quando il problema sarebbe stato invece quello di porsi la domanda se fosse vero o falso quello che io dicevo. La stessa cosa vale per gli USA. D’altra parte però sarebbe, a mio avviso, sbagliato pensare che non esistono delle diversità culturali e politiche tra noi e gli USA; esistono, e sono anche profonde. Ad esempio, recentemente è stata fatta un’inchiesta in Europa sugli atteggiamenti culturali degli italiani, e si è rilevato il fatto che noi siamo molto più italocentrici di quanto non siamo europei, e certamente molto più lontani dagli USA e dalla cultura americana di quanto non siano altri cittadini europei. Per esempio, alla domanda se non siamo favorevoli ad un accrescimento dell'uguaglianza delle opportunità oppure all’uguaglianza dei punti d’arrivo, cioè maggiore distribuzione della ricchezza e del reddito, noi abbiamo privilegiato il secondo mentre ovviamente gli americani tenderebbero a privilegiare il primo. Cioè, in altri termini, la cultura americana è sicuramente una cultura più conflittuale e più competitiva della nostra, mentre la nostra cultura tende più verso l’egualitarismo, verso la giustizia. ‘Gli USA sono un mondo più giusto, sono un mondo meno giusto di quanto non aspireremmo che fosse il nostro?’ A mio avviso la domanda implica una risposta non di carattere morale ma di carattere politico. In altri termini, mentre da pane nostra la tendenza è quella a fare del solidarismo un programma politico, a mio avviso negli USA il solidarismo è soprattutto un imperativo morale. La differenza sostanziale dal punto di vista scopo politico di questa diversità d’approccio tra noi italiani e gli americani mi sembra abbastanza evidente: cioè, se il solidarismo è un imperativo morale, com’è negli USA, evidentemente si è spinti al solidarismo da motivazioni di carattere personale, etico; è insomma la società civile che si organizza in qualche modo per manifestare queste sue forme di solidarismo. Se invece si concepisce il solidarismo come un programma politico, ecco allora che si tende a trasferire a livello delle istruzioni tutte quelle componenti morali, ma anche politiche, che appartengono a questa categoria. In altri termini, da noi c’è assai più che negli Sud Uniti, la tendenza ad istituzionalizzare in qualche modo l’utopia, a trasformarla in programma politico, e quindi a cercarne la concreta attuazione storica. Questa è una differenza sostanziale fra due modelli di sviluppo che però attiene, fondamentalmente, alla diversa concezione della, diciamo così, morale politica. Se la morale politica, appunto, tende a trasferire alle istituzioni l’utopia, evidentemente crea una serie di lacci e lacciuoli superiori a quelli che il mercato, in una società di democrazia come la nostra, richiederebbe; ed ecco quindi che il risultato che si ottiene con lo sviluppo economico può finire addirittura con l’essere inversamente proporzionale collo all’entità delle aspettative delineate dall’utopia medesima Un’altra grande forza, a mio avviso, della democrazia americana consiste nel fatto che negli USA non c’è né sovrapposizioni né invasione della società civile da parte della società politica (…)

C. Benincasa:

Nei Libri Cassidici Martiri Buber racconta che c’era un rabbino a Cracovia che viveva, come direbbe Balthasar, nella miseria, e non nella povertà, nell’indigenza più assoluta; ogni giorno la povertà era sempre più tragica, e una notte ebbe un sogno; nel sogno vide che a Praga, sotto il castello dell’imperatore, c’era un tesoro. Appena si svegliò immediatamente si mise, anche se scalzo, in cammino verso Praga, e li trovò il castello dell’imperatore, ma non aveva previsto che c’erano le guardie del corpo; e così per tre giorni si aggirò intorno al castello; il tesoro non poteva raccoglierlo. Ad un certo punto, dopo il cambio della guardia, si avvicinò al capitano e disse: "Senti, buon uomo, io ho fatto questo sogno: io so che qui c’è un tesoro, quindi, ti prego, togliti e lasciamelo prendere". Al che il capitano si mise a sorridere e disse: "Non sapevo che tu fossi così stupido; l’altro giorno ho fatto anch'io un sogno, e ho sognato che a Cracovia, nel cammino di un rabbino, c’è un grande tesoro; però non mi sono mica messo in cammino per andarlo a cercare, perché non c’è. Il rabbino capì, ritornò immediatamente a Cracovia, andò sotto il camino, scavò e trovò il tesoro. Ecco, è un po’ questa l’impossibile avventura, ed anche l’impossibile tolleranza della cultura europea e della cultura italiana verso l’America: verso questo tesoro continuo, verso questo mito che va smagato, verso questo teatro che da solo si svela, non si occulta, verso questo gioco, se volete, che da solo ha dato il codice per decifrarsi, quello americano, senza truffa. Però, andiamo pure in America per ritornare, per ritornare nel cammino dell’appropriazione della nostra identità. Ecco, si parla d’impossibile tolleranza. Ci sono due tipi di tolleranza: la tolleranza come ammissione dell’altro, ma anche la tolleranza come accogliersi, ammettersi. E credo forse che la proiezione delle realtà americane sul teatro del mondo debba essere un modo per aiutare l’Europa e l’Italia ad accogliersi e ad ammettersi nei suoi disvalori, nelle sue cadute, nel suoi inciampi, nelle sue contraddizioni, nei suoi limiti, nel suo peccato. E d’altra parte se la coscienza della tolleranza diventasse poi addirittura rispetto di se stessi e della propria identità... forse questo è possibile solo come un frutto dell’amore (…). L’America difficilmente tenta di conservare la memoria, o se lo fa, lo fa per gli altri. Ma non è in termini negativi: è una constatazione. L’Europa patisce e sconta con la morte l’olocausto e l’America lo celebra sulle grandi scene cinematografiche. E tutto finisce li. Ed è vero che il dramma è di tutti, come diceva Pavese, ma diversa è la coscienza con cui questo dramma è vissuto. La coscienza in Europa è una coscienza tragica, lacerata, fratturata; l’America è una coscienza da Far West. Non a caso, dopo il Far West, va ad esplorare i cieli. L’Europa si inabissa nel labirinto interiore della coscienza, l’Europa si perde, si rannicchia, l’America si espande, si distende; l’Europa genera artisti come Giacometti, dove la scarnificazione, l’annientamento dell’uomo è visibile in questo grumo di bronzo che si annienta e si sfilaccia; l’America costruisce soltanto uno spazio da invadere sempre; pensate a Calder. L’opera d’arte, su cui in seguito mi soffermerò nel mio secondo intervento, per l’Europa è la coscienza del tempo e della sua finitudine; per l’America è soltanto una realtà che deve invadere per giocare con lo spazio. L’America cattura la natura: tutte queste cattedrali di violenza che sono i grattacieli sono tutte speculari perché tutto tenta di ricuperare nell’illusione, perché non ha la coscienza del danno che fa. Non a caso sradica, e cuce e ricuce, l’America; l’Europa non ricuce mai le ferite, cerca solo un mantello di protezione oppure un unguento per lenire il dolore: è diversa, totalmente, profondamente diversa. E non a caso perché non ha la coscienza del tragico, la cultura americana si mette a giocare con l’Apocalisse, e continuamente ne anticipa perfino le visioni e le battute. Ma io cito tre esempi: Apocalypse Now, Quintet, The day after. Come, l’America addirittura gioca con gli eventi della tragedia? Con la scusa dell’anticipazione e di una protezione? Ed è capace poi di dire che lo fa soltanto per salvarsi dall'inferno nucleare. Per l’Europa, l’Apocalisse è un atteggiamento di timore, di tremore, di preghiera; è un'invocazione. Per i cristiani è il ‘Maranathà’, ‘Vieni, Signore’. Per l’America, l’evento è ciò che è, senza concatenazioni; per l’Europa, l’evento è sempre epifania, svelamento, rivelazione. In America, nella cultura americana, l’evento si succede; per questo Truman Capote (ricordo ancora il bellissimo articolo pubblicato in terza pagina da Ostellino) rende la cronaca romanzo, racconto. Invece per l’Europa, l’evento è il frutto del passato ed il seme della profezia. E anche per andare nel recente passato, per vedere due modi diversi di affrontare la realtà culturale, l’America inventa, sul teatro della scena, Jesus Christ Superstar; l’Europa di quegli anni produceva Il Vangelo secondo Matteo di Pasolini; l’America ti esalta, fino al rigurgito del trionfo e del vomito, Evita Peron, con un meccanismo di ripetizione satanico; in Europa, stancamente con la stessa emozione di sempre, ma non ci si stanca mai di ripetere l’Assassinio nella Cattedrale di Eliot Tutta questa cultura americana intende insomma l’esistenza soltanto come una goccia che cola, una goccia che si lascia cadere come musicalità (ecco A tempo), o che esiste come ritmo e proporzione (ecco la cultura pubblica che dilata le grandi Fondazioni, i grandi Musei americani). La tela semigravida e turgida di colore ha come tanti microeventi che accadono senza ragione. Concludendo dirò che, senza alcun trionfalismo, godo che l’Europa non sia l’America.

C. Sterling:

Credo che le differenze fra europei ed americani siano ormai più generazionali che geografiche. Certi fenomeni definiti tipicamente americani sono in realtà semplicemente fenomeni che accadono prima negli Stati Uniti poiché gli Stati Uniti sono all’avanguardia nel progresso tecnologico e quindi anche all’avanguardia nelle sue conseguenze a livello culturale ed etico. Poi però si estendono anche all’Europa. Si dice da tempo che gli americani mancano di senso della storia; ma oggi si può dire lo stesso delle giovani generazioni italiane ed europee. Si dice che in America c'è una violenza paurosa fra i cittadini, che è verissimo, bisogna anche dire che l’America durante gli anni ‘70 non ha mai sofferto l’ondata di terrorismo che l’Italia ha sofferto, una forma di terrorismo e di violenza che per me è più paurosa, perché distrugge la base proprio della società libera. Se si dice che gli americani non hanno coscienza dei valori al di là dell’immediato, io trovo purtroppo che sia vero, in gran parte, ma bisogna anche dire che io, che abito in Italia da più di 30 anni, trovo che succede la stessa cosa tra le generazioni che arrivano adesso a prendere intimano i vari poteri E vero però che negli Stati Uniti il fenomeno è aggravato dall’azione dei mass media, ricchissimi di mezzi e di tecnica, in grado di fare grandi inchieste spettacolari, ma poveri di capacità di analisi. Si tratta di una lacuna che tuttavia non riguarda soltanto il giornalismo americano. Anche in questo caso, infatti, si può parlare, a mio avviso, di un fatto generazionale che riguarda tutto il mondo. Da quando la generazione formatasi nel ‘68 è giunta a ruoli direttivi nei giornali e nei telegiornali, fenomeni come la sistematica minimizzazione delle carenze dell’URSS, e come la carenza di informazione reale sulla realtà (cui accennava Ostellino) sono divenuti comuni sia al di qua che al di là dell’Atlantico. Certo negli Stati Uniti gli effetti di censure di tal genere sono più ingenti. Quando vedo la televisione americana vedo la perfezione della tecnologia, vedo una presentazione teatrale senza difetti, vedo spese senza show. Ora, questo ha molto limiti per creare ogni sera un telegiornale effetto, perché il pubblico può così rinunciare addirittura a leggere giornale, perché può contare sul telegiornale che gli dice tutte le cose che contano, e lo fa in modo breve e conveniente, così nessuno deve perdere tempo e sa tutto. Ora in realtà in questi programmi c'è un vuoto tremendo: sono dei ‘fast food’ per i cervelli, in cui se un avvenimento di importanza mondiale non può essere filmato e presentato in un minuto e mezzo non fa notizia. Allora, sì che c’è un difetto tremendo nello sviluppo della cultura americana, dell’informazione passata al pubblico americano, perché siamo presi dalla follia, proprio, di presentare sempre lo show, di presentare il teatro, di fare tutto, di presentare ogni informazione che non va giù bene in modo digeribile, cioè come la pappa per il bebè. Invece di affrontare il pubblico dicendo che è successo qualcosa di brutto, di difficile da accettare, che ci richiede di pensare o ripensare un nostro atteggiamento verso la politica internazionale, piuttosto che dire queste cose si ritirano, perché, prima di tutto non si può filmarlo e dirlo in un minuto e mezzo, e secondo perché non vogliono choccare il pubblico significativo il caso dell'attentato al Papa Fino ad un mese fa la grande stampa USA non ha voluto parlare della ‘pista bulgara’. Si è risolta a farlo soltanto quando l’esito delle indagini giudiziarie svolte dalla magistratura italiana l’hanno come costretta a farlo. Il ‘New York Times’ ha rotto il silenzio pubblicando un mio servizio in proposito. Poi, però, dopo la prima scossa, che cosa è successo? Una settimana dopo il ‘Washington Post’ è uscito con un servizio nel quale si affermava che il documento della magistratura italiana che citavo nel mio articolo o non esisteva o era stato da me letto male, o l’avevo censurato, e che insomma la ‘pista bulgara’ era soltanto una montatura del ‘New York Time’ Mi sono soffermata su questo episodio non soltanto per insistere sulle responsabilità della Russia, ma anche per insistere sul fatto che è pericoloso vedere le cose con un occhio solo: vedere un fenomeno di giornalismo spettacolare, come è quello americano, tecnologicamente perfetto, fatto in grande, come il modello da adottare, senza guardare cosa c'è dentro, la sostanza. Ora direi che in questo gli italiani si sentono forse a disagio, perché non hanno i mezzi per fare quello che fanno i colleghi americani, mai difetti sono tutti e due fatti della stessa moneta, credo: gli americani, in giornalismo, hanno la capacità di indagare perché hanno i mezzi, possono fare indagini senza limiti di tempo e spesa, però manca la volontà e la capacità storica di analizzare quel che trovano; mentre in Italia la capacità di analizzare è senza limite, ma credo che la volontà di indagare è molto limitata. Sicché non credo che abbiamo davanti a noi un modello da scegliere o rigettare: abbiamo un modello da inventare, per tutte e due le parti dell’Atlantico, America, Italia ed Europa

P. Ostellino:

Partirei dall’ultima frase di Benincasa, che io condivido, che l’Europa non sia l’America: mi sembra molto giusto che ciascuno conservi la propria identità e la arricchisca attraverso le esperienze degli altri, senza diventare gli altri. Devo dire che questa convinzione, che avevo prima che Benincasa parlasse e parlasse la signora Sterling, mi si è rafforzata quando la signora Sterling ha ricordato i limiti e i difetti del giornalismo americano La signora Sterling sottolineava giustamente che questa capacità di indagine da parte del giornalismo americano molto spesso non si accompagna con una altrettanto alta capacità di analisi. Io credo che, ad esempio dalle università americane, un insegnamento in questo senso venga; se poi il giornalismo americano non lo ha ricevuto del tutto e noi, facendo il pappagallo del giornalismo americano, non lo recepiamo affatto, questa è colpa nostra o in parte dei giornalisti americani. Faccio un esempio di carattere metodologico: l’esempio si trova in un libro di scienze politiche pubblicato negli USA. Per la perdita di un ferro di cavallo si perse un cavaliere, per quella del cavaliere si perse la compagnia a cui apparteneva il cavaliere, poi si perse il reggimento, si perse un esercito, si perse una battaglia, si perse un regno. Tutti questi sono fatti; ma se non si dispone di una qualche teoria sull’importanza di ferrare i cavalli, e di non perdere le battaglie per non perdere i regni, tutti questi fatti non significano nulla. Quindi un buon giornalismo che dia un fatto, deve anche essere un buon giornalismo che sia in grado di individuare il nesso causale fra i fatti, cioè il rapporto di causa ed effetto trai fatti. Qual è la teoria più adatta ad individuare questo rapporto di causalità fra i fatti? Evidentemente non è la teoria filosofica o ideologica della conoscenza, ma è la teoria empirica, cioè che risale all’esperienza empirica per constatare che se non si ferra bene un cavallo questo perde il suo ferro, e poi si finisce magari per perdere una battaglia, e poi dopo aver perso la battaglia si perde il regno. Quindi, anche qui, si ha un giornalismo fattuale, un giornalismo con grande capacità di indagine, ma un giornalismo anche con capacità di analisi, a condizione che questa analisi non sia viziata da una sovrastruttura (direbbe un marxista) di origine ideologica e pan-filosofica, ma sia una teoria della conoscenza di tipo empirico. Faccio un altro esempio di giornalismo che appiattisce la realtà e finisce tutto sommato col distorcerla, anche se apparentemente è un giornalismo imparziale. Voi immaginatevi che la televisione - e accade tutte le sere, o perlomeno accade molto spesso - rappresenti l’immagine di un campo di concentramento all’interno del quale i detenuti sono in continua rivolta, inalberano cartelli di protesta contro i loro aguzzini, cercano di scappare da questo campo di concentramento, vengono picchiati dai loro aguzzini, i quali manifestano apertamente questa loro violenza nei confronti dei detenuti; insomma, un campo di concentramento in grande subbuglio. Poi la televisione invece vi fa vedere un campo di concentramento dove tutto procede normalmente: i detenuti lavorano tranquillamente, i loro aguzzini non li picchiano, nessuno inalbera cartelli, nessuno cerca di scappare. Risultato: la sensazione e la percezione immediata che voi avrete, è che il campo di concentramento più libero sia quest'ultimo, mentre in realtà il campo di concentramento dove c'è meno repressione è l'altro, dove i detenuti continuano a ribellarsi, e magari sono picchiati dai loro aguzzini, ma hanno ancora la possibilità di ribellarsi. Proviamo a trasferire questa immagine alla nostra televisione. Tutte le sere, o spesso, la nostra TV ci mostra quel campo di concentramento che sono alcuni paesi latino-americani, dove i detenuti inalberano cartelli, vanno uno per la strada, si fanno picchiare, vengono messi in prigione; poi ci mostra quell'altro campo di concentramento, che sono i paesi del socialismo reale, dove non succede nulla di questo. Bene, la nostra indignazione immediatamente si esalta, giustamente, per quello che accade nel primo campo di concentramento, dove si vedono i detenuti che inalberano cartelli, e la nostra indignazione è molto più forte nei confronti di quei regimi, di quanto non sia nei confronti degli altri regimi- campo di concentramento in cui i detenuti non hanno nemmeno la possibilità di ribellarsi. Ecco un modo di appiattire la realtà. Ed ecco quindi che le manifestazioni contro i regimi autoritari di destra, giustamente del resto, aggregano maggiore consenso e maggiore indignazione, mentre nessuno fa le manifestazioni per i campi di concentramento del ‘socialismo reale’, dove tutti sono tranquilli. In compenso c’è un miliardo e mezzo, e più forse, di uomini nel mondo che sono addirittura privi di passaporto per uscire da quei campi di concentramento, ma nessuno ne parla, nessuno se ne accorge, perché da quel campo di concentramento si levano soltanto, ogni tanto, delle fievolissime voci per ottenere, magari, il passaporto di uscita, come è accaduto recentemente ai coniugi Sacharov. Ecco dunque che un giornalismo che non individui i rapporti di causa ed effetto tra i fenomeni che rappresenta, alle volte può correre il rischio di essere un giornalismo che distorce in qualche modo la realtà. Quindi se questo è il modello verso il quale dobbiamo andare, io penso che non da il modello corretto; io penso invece che noi dobbiamo conservare il nostro spirito critico e la nostra capacità di analisi. E questo nostro spirito critico e questa nostra capacità di analisi dipendono molto anche dai valori che abbiamo scelto, cioè da quello che abbiamo dentro, dall’etica politica cui ci riferiamo

C. Benincasa:

E proprio vero quello che diceva Ostellino: quando manca la coscienza di connettere la causa e l’effetto, tutto resta scoordinato e slegato: questa è l’America. Voi vedete che in America esistono microcosmi di comunità. Tutto convive in America, ma nulla è mai comunione; l’ecumene in America non è possibile. Neppure in Europa è possibile l’ecumene, ma diventa atteggiamento di supplica e di preghiera. La differenza ancora tra l’America e l'Europa? Cito non Melville né Hemingway, ma Faulkner, che a un certo punto, verso la fine della sua vita, stanco, dice: ‘Amici miei, lasciateci rischiare i grandi fallimenti’. E’ bellissima la frase Sono i grandi fanciulli, che sanno giocare con la vita; i grandi fallimenti non sono i fallimenti turbolenti dell’oscuro dell’anima, sono i

grandi fallimenti, come possono essere quelli della NASA. Cosa direbbe invece uno scrittore europeo, cosa scriverebbe? ‘Lasciateci giocare coi piccoli fallimenti’: ecco, questa è un’altra differenza. Tutta l’arte, la letteratura, la cultura americana si autoraccontano con la nenia litanica di gesti, di eventi; si ammette come un’ineluttabile libertà di accadere, di precipitare, di colare. L’Europa, invece, timidamente bussa alla porta, e sente sempre il bisogno di non autogiustificarsi ma di giustificare L’Europa la colpa la sconta, e non la dimentica. In America invece il Watergate può venire annientato e Nixon tornare ad essere un protagonista l’esistenza in America è quasi senza scorta o sentinella protettiva: è gesto impossibile ad essere altro da ciò che è. In questo l’America è anche affascinante, come Il piccolo principe di Saint-Exupéry: talmente grande da poter essere piccolo e talmente piccolo da poter essere grande Ecco, lasciatemi anche qui chiudere con dei versi di Eliot: Alla fine non siate troppo curiosi del bene e del male; siamo fanciulli (permettetemi di dirlo dell’Europa) rapidamente stanchi, fanciulli che restano svegli di notte e poi cadono in sonno, appena al razzo è stato dato fuoco. E il giorno è lungo, sia per il lavoro, sia per il gioco'. Siamo stanchi di distrazione, e di concentrazione. Dormiamo e siamo lieti di dormire; paghiamo la vita e siamo lieti di scontarla.

C. Sterling:

Due parole, materiale per riflettere. Vorrei soltanto ribadire che questa vitalità e volontà americana di difendersi, dipende dai valori, anche se non ben capiti, di una società libera. Vorrei in proposito segnalare alla vostra attenzione i due fatti seguenti: dal ‘61 in poi, più di 200 tedeschi della Germania Orientale hanno perso la vita mentre cercavano di scappare nella parte libera della Germania; in questa Germania libera, fra i giovani sotto i 29 anni, pochi mesi fa è stato posto il quesito se, di fronte all’eventualità di un’avanzata del comunismo, valesse la pena di difendere la democrazia anche con la forza. Ebbene, soltanto un interpellato su quattro ha risposto di essere pronto a lottare per la democrazia. Ora io propongo questo materiale alla vostra riflessione di giovani europei, anche con riguardo al giudizio che potete avere sul ‘Grande fratello’ della parte occidentale, ossia gli Stati Uniti. Nonostante tutti i difetti che gli USA certamente hanno, credo che si debba sperare che la volontà americana di difendersi e di resistere non si spenga.