Sabato 26 agosto, ore 17

LA PAURA DEL PARADOSSO E LE SOCIETA’ CLERICALI

Tavola Rotonda

Partecipano:

Guy Bedouelle, Franco Cardini, Vittorio Strada.

Modera:

Giuseppe Folloni.

G. Folloni:

Cari amici, il tema di oggi è: La paura del paradosso e le società clericali. Che cosa è una società clericale? (…). La società clericale è una società basata sulla forma e la disciplina. una società il cui nemico è colui che non si assoggetta alla linea, non si intona ai concetti dominanti, non è disciplinato (…). Ma di questo ci diranno meglio i nostri tre relatori che ora vado presentando molto sinteticamente. Il primo è padre Bedouelle, che insegna Storia della Chiesa all'Università di Friburgo, in Svizzera. Il secondo è il professor Strada, che insegna Lingue e Letteratura russa a Venezia. Il terzo è una vecchia conoscenza del Meeting, il professor Cardini, anch'egli storico, a Bari. Cedo senz'altro la parola a Padre Bedouelle (…).

G. Bedouelle:

Non vi è alcuna affermazione del cristianesimo che non rivesta la forma del paradosso (…). Il Vangelo è letteralmente costellato di paradossi: chi perde la propria vita la salverà, chi vuole salvare la propria vita la perderà. Gli Evangelisti e tutti gli autori del Nuovo Testamento, S. Paolo, i Padri della Chiesa, specialmente Agostino, poi gli autori medievali, hanno presentato il messaggio cristiano come una sinfonia di corrispondenze paradossali, di convergenze inattese, di rovesciamenti sublimi. In questo stile, che è proprio del cristianesimo, si è prodotto un taglio verso la fine del sec. XVI, che poi creerà una società clericale. Si sa che l'autunno del Medioevo ha conosciuto un vero e proprio panico, dovuto alle grandi epidemie, alle provocazioni e alle contestazioni politico-intellettuali ed ecclesiali. Tutto ciò ha fatto cercare a quell'epoca delle assicurazioni, delle garanzie spirituali, di cui la più conosciuta è la pratica delle indulgenze. Tutto avviene come se il purgatorio, che Santa Caterina da Genova descriveva come una sofferenza gioiosa, fosse diventato insopportabile. La passione di Cristo, tanto venerata, diventa oggetto di scandalo (…). Il Medioevo non può accettare il paradosso della morte del Messia, cerca di attenuare. Nel tempo messo a disposizione per questo mio breve intervento, vorrei limitarmi a segnalare tre grandi tappe, nelle quali delle società finiscono per chiudersi spiritualmente in se stesse per fuggire dal paradosso. Queste tre tappe le ritroviamo all'epoca della cosiddetta Riforma, nel XVI sec., nell'età dell'illuminismo, e infine nell'età che potremmo chiamare vittoriana, cioè il XVIII secolo. La tappa dell'età delle Riforme protestante e cattolica costituisce un paradosso in se stessa. Infatti, vediamo un Lutero che insorge a partire dal 1517, per ricordare contro tutte le garanzie che il popolo si è dato, contro le indulgenze, il paradosso del cristianesimo, la gratuità della salvezza. Per Lutero, la condizione cristiana è espressa sotto forma di un paradosso teologico: "Simul iustus et peccator". L'uomo è contemporaneamente giustificato e peccatore (…). Ma Lutero non andrà fino in fondo nell'accettare il paradosso, lo bloccherà, non riconoscendo che la Grazia è compatibile con la Libertà, le Scritture con la Tradizione, il Vangelo con la Chiesa. Non è un caso se le due grandi menti cattoliche che si oppongono a Lutero sono degli umanisti che con il paradosso hanno una gran dimestichezza. Erano l'autore dell'Elogio della follia che mette in scena il paradosso della Croce che da follia diventa saggezza; e Thomas Moore, che nell'Utopia propone uno stranissimo modello cristiano e che spingerà il paradosso della sua vita fino a dare la propria vita in nome della fedeltà. A partire dal XVI secolo, da questi due tipi di riforme deriveranno delle società dogmatiche, più gerarchiche, più clericali. Questo modello clericale va distinto dal modello sacerdotale, che nasce anch'esso a quell'epoca, e sarà fatto proprio da grandi menti, che riprenderanno la via del paradosso: San Giovanni della Croce e Pascal. La seconda tappa è quella del cosiddetto Illuminismo. Esso appartiene a quelle epoche di cui ben dice il padre De Lubac, cito: "Quelle che dissolvono l'idea del bene nell'idea dell'utile, quelle che vanno a dissociare il mezzo dal fine, quelle che cercano miseramente la felicità mentre Dio ci ha creati per la beatitudine". Rigettando il sovrannaturale i filosofi dell'Illuminismo sono ossessionati dal male e dalla sofferenza che sono, in effetti, il paradosso per eccellenza e cercano di trovar rifugio nella astrazione della divinità (…). Il cristianesimo diventa così privo di paradosso, privo di mistero, ridotto ad una onestà morale, dove le virtù attive e sociali non sono più sostenute dalla virtus contemplativa (…). La terza tappa è l'età vittoriana (…). Il Cardinale Newmann diceva che una delle tentazioni del cristianesimo è l'ideale che potremmo chiamare del gentleman, del buongusto, il senso della misura, la benevolenza, la civiltà, l'urbanità, che sono certo delle qualità notevoli ma che forse non sono specifiche del cristianesimo (…). La nuova tentazione del cristianesimo è di essere corretto addolcito, migliorato (…). La storia dunque mostra sempre la fragilità del cristianesimo quale paradosso, e mostra che la conversione va ripresa sempre, senza sosta, instancabilmente, per sfuggire all'autosufficienza, che è la principale caratteristica delle società clericali. Grazie.

G. Folloni:

E veniamo al nesso fra le due rivoluzioni certamente più famose dell'età moderna: quella francese, di cui quest'anno corre il bicentenario, e la rivoluzione bolscevica attualmente in crisi, di cui ci parlerà il professor Strada.

V. Strada:

Il 1989 è l'anno in cui due rivoluzioni si intersecano. Si tratta di una intersezione simbolica, poiché una rivoluzione è celebrata nel suo bicentenario, mentre l'altra è avvenuta nel nostro secolo e registra, oggi, la sua complessa e ancora incompiuta crisi. Le due rivoluzioni sono naturalmente quella francese e quella russa, intendendo, con quest'ultima, la rivoluzione bolscevica o comunista, iniziata col colpo di forza dell'ottobre 1917 a Pietrogrado e subito diventata un fenomeno di portata mondiale. Tra le due rivoluzioni i rapporti sono molteplici, poiché la seconda, quella russa, è stata vissuta dai suoi teorici e dai suoi attori, non soltanto come un evento decisivo, unico, ma anche come il compimento qualitativamente nuovo di un lungo processo rivoluzionario che nella rivoluzione francese trova il suo capostipite. Questa prospettiva genealogica allaccia la rivoluzione russa a una fase particolare della rivoluzione francese, considerata come la sua avanguardia: la fase giacobina, mentre della fase precedente e iniziale dichiara il carattere ancora limitato, in quanto liberal-costituzionale. Senza entrare nel problema della interna scansione degli eventi rivoluzionari del 1789-1793, problema che tanto ha occupato la ricerca storica, vediamo che, per l'autocoscienza rivoluzionaria del nostro secolo, incarnata nell'organizzazione comunista, l'episodio giacobino, pur nei suoi limiti, è una sorta di anticipazione germinale della futura completa rivoluzione proletaria, la quale è forte ormai di una nuova dottrina, il marxismo, e di una nuova situazione di classe. Dunque, tra le due rivoluzioni, quella francese e quella russa, distanti tra loro non più di un secolo e situate in aree ben diverse, c'è un rapporto storico complesso, che ha dato luogo a un insieme di analogie ideologiche, correnti soprattutto tra i fautori della rivoluzione comunista, come ho cercato di chiarire in un mio recente studio, pubblicato nel libro L'eredità della rivoluzione francese. Ed è proprio questo nesso storico-ideologico, un tempo considerato ovvio, che in questi ultimi anni è divenuto oggetto di discussione. Anzi, è tutta la riflessione apologetico-rivoluzionaria sulla rivoluzione francese che ha perso la sua egemonia ideologica ed è sottoposta ad una profonda revisione, per cedere il posto a una nuova ricerca critica, non priva, del resto, di precedenti nella dizione storica. Se ritorniamo a quell'interazione tra le due rivoluzioni di cui ho parlato all'inizio, si ha dunque che entrambe sono in crisi. La crisi della rivoluzione francese, naturalmente, è soltanto storiografica, poiché come evento storico appartiene tutta al passato, mentre la crisi della rivoluzione comunista è prima di tutto politica, poiché questa rivoluzione, grazie al suo specifico carattere di cui parlerò, ha una sua permanenza ideologica e organizzativa che la fa durare tuttora. E questo sistema ideologico-organizzativo che, da qualche tempo, attraversa una fase di profonda, forse insuperabile, crisi. Ma se la rivoluzione comunista è in crisi come fatto politico, essa lo è anche come fatto storiografico. Si tratta di una crisi, per così dire, di secondo grado, derivata dalla prima, poiché una delle caratteristiche peculiari di questa rivoluzione, oltre a quella della sua lunga permanenza, è stata quella della sua rigorosa autocoscienza. La rivoluzione comunista russa, nella sua fase iniziale, non ha avuto mai quel carattere di spontaneità e, direi, di improvvisazione, che è proprio, invece, di quella francese. È vero, la rivoluzione francese ha avuto sue precise "origini intellettuali", per usare il titolo di un libro celebre di Daniel Mornet, ma non si capirebbe la differenza tra le due rivoluzioni se si trascurasse di illuminare il diverso rapporto che, nelle due rivoluzioni, si dà tra le "origini intellettuali" da una parte, e il corso rivoluzionario dall'altra. La rivoluzione bolscevica russa ha trovato il suo punto d'onore nel suo carattere, per così dire, pianificato, quasi fosse l'attuazione di un esatto progetto, il quale a sua volta si basava su una chiara teoria. Il rapporto tra idee e azioni era dunque diverso da quello della rivoluzione francese e di ogni altra rivoluzione. E ciò perché, tra le due rivoluzioni, c'è quel fenomeno fondamentale che è il marxismo. È il marxismo di Marx e dei suoi successori a rivendicare la scoperta decisiva quella delle leggi che regolano il processo storico (…). La rivoluzione comunista, in forza di queste scoperte, reputava di possedere quella base sociale universale di cui erano prive le altre rivoluzioni: solo il proletariato, infatti, garantisce un'universalità di cui le altre classi, legate a interessi particolari, sono prive. La borghesia nella sua rivoluzione dichiara i fini universali, ma si tratta di un'illusione ideologica se non di un'impostura, perché i suoi fini reali non superano i suoi confini di classe specifici. Di qui nasce lo scontro con quelle forze popolari, giacobine e ultragiacobine, che vorrebbero prematuramente superare quei limiti. Solo la rivoluzione proletaria oltrepassa i confini di classe anche se, precisa il marxismo, per realizzare i suoi fini veramente universali essa deve stabilire una temporanea dittatura, capace di distruggere la classe avverse che, in nome dei loro interessi, le resistono. Questo schema guidava la rivoluzione comunista russa, caposaldo del comunismo mondiale. Il problema che al suo interno si poneva riguardava, prima di tutto, quella classe che, secondo la teoria, costituisce il fondamento e la legittimazione dell'atto rivoluzionario e, in secondo luogo, riguardava l'internazionalità del processo rivoluzionario. È noto che la rivoluzione bolscevica del 1917 era carente proprio in questi due aspetti, essenziali dal punto di vista della dottrina stessa. Che la classe operaia in Russia fosse una minoranza, per di più disorganizzata e disgregata dalla I Guerra Mondiale, è noto. E gli stessi bolscevichi se ne rendevano conto, tanto è vero che essi in origine facevano affidamento sulla seconda condizione della loro dottrina: l'internazionalizzazione della locale rivoluzione russa. Ma, come si sa, anche questa seconda condizione non si verificò. Ora, senza entrare in un'analisi storica della Russia e dell'Europa nel 1917 e negli anni successivi consideriamo le cose dal punto di vista del marxismo. Il marxismo, nella sua visione leniniana, era già preparato a reagire alla assenza delle due condizioni rivoluzionarie, ossia alla carenza di proletariato in Russia e alla carenza di internazionalità o internazionalizzazione del processo rivoluzionario. La sua forza davvero enorme stava, prima di tutto, nell'organizzazione di un partito del tutto speciale, quello comunista, che non soltanto era fatto da "rivoluzionari di professione" ma, presentandosi come avanguardia della classe operaia, non aveva più bisogno di una classe operaia empirica, per così dire, in quanto la classe operaia diventava una sorta di categoria storico-universale di cui il partito era, per autoinvestitura, il rappresentante plenipotenziario. L'altro elemento di forza del marxismo stava nel suo stesso nucleo, nella sua teoria dello sviluppo storico mondiale e della rivoluzione comunista totale, teoria che nessun sapere scientifico, tranne il marxismo, può illuminare. Il sapere scientifico normale, per così dire, costituisce semplicemente un materiale preparatorio per la superscienza marxista, mentre ciò che con tale superscienza è in contrasto viene dichiarato frutto di un interesse di classe particolare, borghese, reazionario e quindi indegno di entrare nell'orizzonte dell'universalità. Questo per quel che riguarda la scienza. Quanto alla religione, il marxismo non manifesta verso di essa pretese minori. Alla religione viene riconosciuto un ruolo soltanto in una fase particolare dello sviluppo umano, mentre la sua attuazione capovolta, cioè la restituzione all’uomo terreno delle sue idealità alienate in un sovramondo celeste, tale ateistica attuazione sarebbe garantita dall'emancipazione totale comunista. Come si vede, siamo molto lontani dalla rivoluzione francese, anche nella sua fase giacobina, col suo culto della Ragione. Indubbiamente, un legame tra le due rivoluzioni c'è, ed è un complesso legame culturale che da Rousseau e dalla rivoluzione francese passa attraverso la filosofia idealistica tedesca, per arrivare a Marx e oltre, fino a Nietzsche, e che consiste nello sviluppo dell'idea di una rivoluzione totale, capace di liberare l'uomo da tutto l'enorme peso di ciò che gli è alieno e che lui stesso si è imposto. Legame complesso, ho detto, e di affascinante interesse, che ora non possiamo neppure sfiorare. E che non risponde, del resto, all'assunto di questa breve riflessione, per la quale è importante non tanto il nesso tra le culture delle due rivoluzioni, quanto piuttosto il tipo di rapporto che in esse si stabilisce tra pensiero e azione. Un problema molto dibattuto e attuale è quello della responsabilità delle idee e degli intellettuali nei confronti delle azioni storiche che a tali idee si collegano. Si tratta, naturalmente, di una responsabilità etico-intellettuale e non giuridico-formale. Ci si domanda, per fare qualche esempio, quale rapporto ci sia tra Rousseau e il Terrore oppure tra Nietzsche e il Nazismo. Su un altro piano, ma nella stessa prospettiva, si pone il problema del rapporto tra il messaggio evangelico e certi momenti della storia della Chiesa e, in questo senso, classico è il rapporto tra Cristo e l'Inquisizione, centro di una grandiosa visione di Dostoevskij ne I Fratelli Karamazov. Ci dobbiamo domandare se è lecito aggiungere a questi esempi, come omogeneo ad essi, quello del rapporto tra le idee di Marx e di Lenin e la realtà della rivoluzione comunista. Questa domanda, oltre a un significato teorico, ne ha anche uno pratico, per così dire, poiché è diventato una banalità, da parte comunista, il giustificare le pagine più orride della loro rivoluzione, con un riferimento al Terrore e all'Inquisizione, per dimostrare che sempre si da un abisso tra un'idea anche sublime e la sua attuazione storica. Ora, anche una superficiale riflessione su questi esempi dice che essi non sono riducibili a uno stesso denominatore. Gesù non ha fondato un regno di questo mondo. Rousseau non ha teorizzato la rivoluzione. Nietzsche non ha progettato il razzismo. Si tratta di tre casi profondamente diversi, che possono esser chiariti con un'ermeneutica storica. Radicalmente diverso è il caso del marxismo per due ragioni: prima di tutto, perché il marxismo non è una filosofia astratta né tanto meno un credo religioso, ma dichiara essere suo punto d'onore il superamento sia della religione, sia della filosofia (…); in secondo luogo il marxismo, proprio per queste ragioni, si è fatto direttamente, consapevolmente, partito politico, strumento di azione per trasformare la realtà secondo le prospettive da lui stesso elaborate. Nel marxismo dunque, il rapporto tra idea e azione, tra teoria e prassi è, secondo i suoi intrinseci principi, del tutto diverso dagli schemi tradizionali, il che rende il marxismo autenticamente rivoluzionario. Se ciò vale per Marx, a maggior ragione vale per Lenin, il cui rapporto con l'azione politica fu ancora più diretto e, soprattutto, efficace. Per cui applicare al marxismo lo schema dell'eterogenesi dei fini, cioè lo schema esplicativo secondo cui nella storia chi agisce ottiene risultati difformi dalle intenzioni, equivale a una clamorosa sconfessione del marxismo stesso, la cui pretesa era quella di aver posto fine a tale eterogenesi, e di aver portato per la prima volta nella prassi storica la chiarezza e la trasparenza di un sapere totale. È vero che oggi, in tempo del tramonto del marxismo, i suoi cultori spesso amano ricordare il Marx che dichiarava di non essere marxista. Ma questa civetteria, se era in parte lecita all'eponimo del marxismo che continuava a rimaneggiare la sua propria dottrina rispettandone la sostanza, diventa mistificatoria in chi, richiamandosi alle idee di Marx, non vuole riconoscerne gli effetti ormai storicamente comprovati. Siamo partiti dall'intersezione di due rivoluzioni; da una parte, la celebrazione del bicentenario di quella francese, in un momento in cui la sua storiografia tradizionale è in crisi e, dall'altra, la crisi reale della rivoluzione comunista, crisi storica che, come sua conseguenza, trae anche una crisi storiografica e teorica. Si può affermare che due secoli di storia europea, espressa da queste rivoluzioni nel modo più incisivo, sono giunti a un epilogo. Un epilogo che pone infiniti quesiti, perché la liberazione delle pseudo-soluzioni spacciate dallo spirito rivoluzionario, non implica affatto l'inesistenza dei problemi da cui tali false soluzioni sono germinate. Non si può tuttavia esser misericordiosi verso un epoca di illusioni che, oltre a compiere crimini e a mutilare coscienze, impediva la conoscenza reale dei problemi e la loro stessa possibile soluzione reale. Ciò significa che la liberazione dal mito rivoluzionario richiede un superiore impegno morale, intellettuale e politico. Tanto più che tale liberazione è tutt'altro che compiuta e, se si è verificata in parte sul piano delle idee, è ancora lungi dall'essere attuata sul piano delle strutture di potere, dove un sistema ormai vuoto come quello comunista detiene e difende il suo dominio ed elabora anzi nuove strategie tattiche di trasformazione e sopravvivenza. La fine dell'idea di una metamorfosi rivoluzionaria totale della società significa il superamento della teoria secondo cui lo sviluppo storico si scandisce in precise e conchiuse formazioni economiche e sociali, in successione progressiva, fino alla fase ultima e felice del comunismo. La storia è molto più complessa di questo schema meccanico e lo sviluppo storico, nella sua ricca dinamicità, non è riducibile a una così semplicistica sequenza, che un partito pretende, per di più, di regolare a suo piacimento. Questo delirio di presunzione iperrazionalistica è fallito in modo troppo tragico perché si possa celebrare la sua fine gioiosamente. Ma anche qui la liberazione da un assurdo razionalismo non può diventare un alibi per un discredito della ragione, la quale genera mostri sia quando è in letargo, sia quando soffre d'insonnia. Né, d'altra parte, il crollo di utopie sanguinose deve portare al quietismo, alla celebrazione di ciò che è, bensì deve aprire spazio ad altre forme di fattiva resistenza etica e religiosa. Se viviamo in un mondo dominato dalla necessità, ebbene, anche la resistenza alla necessità è necessaria. Infine, se le due più grandi rivoluzioni del tempo moderno oggi finalmente escono dalla loro dispotica autoapologia e si lasciano osservare nella loro tragica realtà, non per questo dobbiamo rifiutare il concetto di rivoluzione. La rivoluzione perversa è quella dei rivoluzionari dottrinari, tirannici e dogmatici. Ma c'è una paradossale rivoluzione senza rivoluzionari, ci sono le grandi trasformazioni oggettive fatte da tutti gli uomini e destinate a cambiare la faccia della terra. Queste rivoluzioni, un tempo, come anche la rivoluzione industriale, avvenivano inconsapevolmente. Oggi esse sono troppo cariche di potenziali conseguenze, anche negative, perché si possa continuare a lasciarle svolgere nell'inconsapevolezza. E la coscienza di queste rivoluzioni collettive non può essere quella tecnocratica, che sarebbe analoga a quella dei rivoluzionari di professione, ma può essere democratica, assumendo nuove forme di solidarietà civile. L'universalizzazione dell'uomo non avviene mediante quella forma estrema di violenza che è la rivoluzione e la dittatura di una immaginaria classe universale, di un effettivo partito usurpatore. L'universalizzazione dell'uomo avviene attraverso la consapevolezza di una nuova situazione planetaria, creata dalla scienza nelle sue potenzialità costruttive e distruttiva della radicale disuguaglianza tra le parti di un mondo solo spazialmente unificato. Al vecchio concetto marxista di totalità dogmatica, fondamento di un totalitarismo ideopolitico, si sostituisce l'idea di globalità aperta e di interdipendenza dinamica del mondo quale fondamento critico di una pluralità culturale. E al posto di una coscienza di classe di cui si fa interprete un'organizzazione autoritaria e di cui si dice espressione una teoria pseudoscientifica, si elabora una coscienza planetaria e creaturale che, in una alleanza di sapere scientifico e di etica laica e religiosa, trova la sua garanzia e il suo strumento di vita, di promozione e di significazione della vita. Il marxismo, lungi dal liberare l'uomo, lo ha asservito ancor di più dei vecchi asservimenti in senso spirituale e materiale. La nuova liberazione non è però soltanto dal marxismo, bensì anche dalle altre oppressioni di una civiltà dal cui seno come falso rimedio, il marxismo è uscito.

G. Folloni:

Abbiamo visto come si è formata la società clericale. Ma qual è il tipo umano della società clericale? Chi ne è il leader? È questo che vorremmo chiedere al professor Cardini.

F. Cardini:

Che cosa è la società clericale? È evidente che quando si parla di società clericale, si parla di una società egemonizzata (...) da un gruppo chiuso. Noi traduciamo il termine "cleros" con "porzione". È bene ricordare che la scelta dei traduttori greci della Sacra Scrittura ebraica, tutto il team detto "dei settanta", di tradurre il termine ebraico col termine "cleros", ha determinato una serie di interessanti conseguenze a livello filologico che è bene rammentare brevemente. Il termine "cleros" è strettamente legato al termine "ciclos", cerchio, e indica quello che noi, nella nostra lingua italiana, definiamo bene con la parola "chiusura". Non solo dunque porzione particolare ma anche chiusura, chiusura, oserei dire con un'immagine che mi pare renda bene l'idea, provvista sì di porte che restano ordinariamente chiuse, ma che quando si aprono, si aprono per una parte sola. Vale a dire: il "cleros" può entrare nel resto del "laos", nel resto del popolo, e uso il termine "laos" e non "demos", mentre il popolo cristiano, diciamolo in termini di architettura liturgica, se volete, non ha accesso al presbiterio. La società clericale è dunque una società egemonizzata, razionalizzata e controllata. Il controllo può essere a vari livelli: può essere a livello sapienziale, teologico-liturgico, ma anche a livello morale o a livello di trasmissione di dati, di concetti, controllata da una porzione, da un gruppo di eletti che si qualifica in modo, per così dire, iniziatico. È evidente che non sto parlando del clero delle chiese storiche cristiane, ma che sto cercando di tracciare una tipologia che, al limite, potrebbe essere adeguata alla descrizione di certe società di tipo sumerico, di tipo egizio, di tipo maya. Il "cleros" si autodetermina, si autodefinisce per il senso della chiusura, per il senso dell'elezione, per il senso del possesso della verità e per l'idea che la verità si possa essenzialmente trasmettere a chi al "cleros" non appartiene attraverso i due canali dell’insegnamento e della disciplina. Si può quindi parlare delle società clericali come di società non di per sé chiuse, ma di società egemonizzate da un centro che, come tale, è chiuso e al quale si accede soltanto per una serie di cooptazioni o di iniziazioni, che variano nel tempo, nei luoghi, nelle culture (…). Oggi noi stiamo vivendo (…) all'interno di una società, quella occidentale, che si muove attraverso parametri di un clericalismo diffuso e molto accentuato. Clericalismo nella politica che si esprime attraverso il gioco delle ideologie, e delle intolleranze (…). Clericalismo nella vita quotidiana; e questo, cui si collega il clericalismo dei mass media, è l'elemento forse più doloroso, l'elemento del quale forse siamo noi tutti, in un certo senso, corresponsabili e vittime al tempo stesso. E un clericalismo diffuso, che si presenta sotto gli aspetti accattivanti del progresso sociale, del progresso tecnologico, del progresso economico, del progresso della cosiddetta qualità della vita (…). Se io riuscissi a definire la società clericale, come si faceva una volta, nel buon tempo antico, per parabole, direi che la società clericale tipo è quella raccontata in una splendida favola di Andersen, la novella dell'imperatore nudo o del re nudo, come oggi si usa dire. lo credo che non ci sia apologo migliore per chiarire che cosa sia una società clericale, una società di padroni del pensiero, una società di apprendisti stregoni che lavorano sulla mente, che lavorano sull'immaginario, che lavorano sui condizionamenti mentali, che lavorano in quello spazio estremamente sottile e delicato che esiste fra il nostro vedere le cose e il nostro interpretare le cose (…). Clericalismo, infine, nel mondo della scienza e della tecnologia che sono strettamente collegati tra loro. Esiste un dogmatismo scientistico e tecnologico, al quale noi ci affidiamo sicuri, criticamente certi, in una posizione che, tutto sommato – e qui Levi Strauss ha molte ragioni – non è molto diversa da quella del selvaggio, il quale si affida al rito magico dello sciamano. Noi giuriamo infatti, in verba magistri, su certezze scientifiche che ci vengono proposte (…), rinunciando anche a un minimo esercizio di verifica, perfino a quel minimo che ci verrebbe dalle nostre cognizioni scientifiche, da quelle che abbiamo ricevuto a scuola. Che cosa distingue la moderna società clericale dalle società clericali tradizionali, ivi compresa, per esempio, la società europea dell'Ancien Regime? Io dico che questo elemento differenziale è una sorta di dialettica, o di filosofia del mutamento (…) ogni certezza proposta viene in un certo senso anche predisposta alla negazione e al superamento. Noi ci fidiamo tutti della scienza, eppure sappiamo bene che la scienza cambia ogni generazione, attualmente addirittura, cambia a ogni volger d'anno o a ogni volger di mese, eppure noi continuiamo a fidar nella scienza (…). L'elemento nuovo è la continua delega che noi diamo al nostro clero di apprendisti stregoni, al nostro clero di opinion makers, al nostro clero di politici di professione di chiarire la verità che però si sposta continuamente. Visto che abbiamo citato Andersen, direi che si potrebbe citare un altro celebre mitografo Orwell. Nel suo 1984, dice: "Tutti i libri saranno riscritti, tutti i documenti saranno distrutti e pubblicati di nuovo, non vi sarà altra verità se non la verità dell'oggi, che avrà divorato la verità dell'ieri e si sarà predisposta a essere divorata dalla verità di domani" (…). Da quando la società ha rinunziato alla norma di Cristo come misura di se stessa, non è che si sia liberata da qualunque norma, come dice Chesterton: "Da quando gli uomini non credono più a Dio, non è che non credano più a nulla, hanno cominciato a credere in qualunque cosa. È allora qualunque ideologia prima, qualunque utopia poi, qualunque certezza scientifica, tecnologica, statistica, da quando sono morte le ideologie e anche le utopie non stanno troppo bene in salute, tende per sua natura a diventare dogma. La società clericale per sua natura ha bisogno di una struttura dogmatica che la liberi da eresie ed errori. Il mondo occidentale contemporaneo, nato proprio sul presupposto del libero pensiero e della libera ragione, della libera ricerca, non può tollerare alcun paradosso che minacci questi dogmi. Ecco allora che risorge il paradosso ed è il paradosso più ridicolo: la ragione che non tollera di venir contestata, la libertà che non tollera di venir contestata ma che crea un dogma e che criminalizza come nemico della società chiunque si oppone alle materializzazioni sociali, ideologiche, di questa libertà, di questa ragione, considerandole insufficienti e proponendo qualcosa di diverso. L'ultima frode che viene oggi compiuta è la scoperta della complessità dei grandi sistemi. Gli apprendisti stregoni, signori della tecnocrazia, della statistica, della futurologia, ci stanno insegnando che, in fondo, i grandi sistemi sono prevedibili nel loro sviluppo ma non sono, come tali, governabili. Il grande sistema tecnologico è un pochino come il Golem di Rabbi Lów della fiaba di Praga, quello che ha perduto la lettera iniziale del nome e che sta impazzendo e infierisce prima nelle strade del ghetto e poi nelle strade di tutta Praga. Non c'è una ricetta immediata per liberarsi dall'incubo di una società clericale, che scopre e denuncia a se stessa la propria fragilità, la probabilità del fallimento prossimo venturo. La soluzione sta evidentemente negli sforzi di tutti, ma la soluzione a livello individuale, direi, sta in una ricerca fondata sul paradosso che riesca a liberarsi da tutte le libertà costituite. lo spero di non offendere nessuno, dicendo che fra i tre protagonisti del Meeting di quest'anno quello che mi sta più simpatico è Don Giovanni. Il mio Don Giovanni, però, non è propriamente il Don Giovanni a cui forse hanno pensato gli organizzatori del Meeting, non è soltanto lui, almeno, ma è piuttosto il Don Giovanni di Mozart, il Don Giovanni. Da Ponte, un Don Giovanni ancora libertino e settecentescamente libertino, che inneggia alla libertà. In pieno XX secolo l'uomo deve, purtroppo per lui, riabituarsi alla libertà, anche alla libertà di giudizio, alla libertà di progettualità del futuro, alla libertà di immaginazione del mondo alla libertà che non è un diritto. Questa idea che la libertà sia un diritto è un'idea che, come sapete, è diventata moneta corrente negli ultimi due secoli e che ha fatto a noi occidentali più male della grandinata. La libertà è un privilegio, la libertà è una conquista, la libertà è qualcosa che si paga giorno per giorno, sacrificando il proprio tempo libero, sacrificando la propria attività, sacrificando qualche volta anche la propria pelle. La libertà è un privilegio, una conquista che, nelle due frasi del credo libertino di Don Giovanni, (…) indica la necessità che ciascuno di noi impari a pagare il prezzo della propria libertà, che è una cosa che non ci regala nessuno, profondamente intima, fatta di certezze guadagnate o, perché no, anche di errori (…). È un invito difficile, ma è un invito al quale bisogna cercare di essere fedeli, pena il rischio di cadere vittima di una nuova società clericale, di nuovi preti – preti nel senso di quello che ho espresso, non in quello storico della Chiesa cristiana – qualcosa che potrebbe essere ancora più oppressivo di quello che abbiamo conosciuto finora. Grazie.