Mercoledì 24 agosto, ore 17

COSTRUTTORI DISTRATTI CHE NON GUARDANO L'INFINITO

Partecipano:

Rocco Buttiglione

docente di Filosofia della politica presso l'Università di Teramo

Tadeusz Styczen

docente di Etica filosofica presso l'Università Cattolica di Lublino.

Conduce l'incontro:

Pier Alberto Bertazzi.

L'uomo cercatore di infinito, fin dal principio del suo cammino si scopre cercato da Dio, ma è continuamente esposto al rischio della dimenticanza in merito all'autentica misura del costruire. Costruire significa riconoscere un "già", un "dato", che qualcuno ha scritto nella realtà.

R. Buttiglione:

Appena voi aprite i giornali di oggi leggete le notizie che arrivano dalla terra martoriata e dolente di cui il Padre Tadeusz è uno dei figli. Cosa sta avvenendo in questa terra? E scusate se mi permetto di parlarvi con tanta libertà mettendo da parte il testo che faticosamente ho preparato, su cui dopo tornerò. Cosa sta avvenendo? Un popolo sta lottando per il diritto di lavorare e di vivere nel rapporto con l'infinito. Una nazione intera, non da oggi, da due secoli lotta, piange e muore, generazione dopo generazione, per testimoniare il diritto non solo al pane, ma al significato della vita, a ciò per cui vale la pena di mangiare il pane e a ciò che il pane significa. La lotta per il diritto a vivere nel rapporto con l'infinito: questa è la chiave - io dico è l'unica che ci permette di capire la storia di ogni essere umano, di ogni individuo, ma anche la grande storia, la storia delle nazioni. Diceva una volta Giovanni Paolo II nel discorso che ha tenuto a Varsavia in Piazza della Vittoria, durante il primo viaggio che ha fatto in Polonia nel giugno del 1979: "Non si può comprendere la storia della Polonia se non attraverso questo criterio che è Cristo. Non si può comprendere il senso del dolore, il senso della sconfitta liberamente accettata in una lotta senza speranze umane, sostenuta per difendere la verità, non si può comprendere questo se si mette tra parentesi quell'unica, trascendente, decisiva misura che è Cristo". Queste parole, dette all'inizio del pontificato di Giovanni Paolo II, sono come un "leitv motiv", un motivo che si è venuto svolgendo. t un motivo che ritorna nei viaggi in America Latina. Io ricordo solo un discorso che il Santo Padre tenne a S. Paolo la prima volta che ha visitato il Brasile, quando parlò del beato Anquieta, il fondatore di S. Paolo, il primo evangelizzatore del Brasile. E la gente forse non sapeva chi fosse Anquieta - la cultura storica non è molto diffusa in Brasile, come del resto in Italia - e tuttavia la gente capiva che si toccava il nervo dolente della loro identità, perché nell'origine era posta la questione del presente. Si può capire la storia dell'America Latina, si può prendere una decisione responsabile sul futuro di questa nazione: prescindendo da quell'unica, decisiva, trascendente misura che è Cristo, cioè prescindendo dal luogo nel quale il rapporto con l'infinito è diventato storia concreta di questo popolo? Noi non capiamo ciò che è accaduto in America Latina negli ultimi dieci anni se prescindiamo da questo fatto, questa presenza di Cristo riaffermata come criterio di giudizio sulla storia. Ma non capiamo nemmeno la storia della Polonia, questo è più evidente, è forse l'esempio più grande, ma non l'unico. In tutto il mondo si va svolgendo un grande movimento per la liberazione della persona umana, un grande movimento per la liberazione, cioè per la riscoperta ed il riconoscimento del rapporto con l'infinito come ultimo luogo che ci dice chi è l'uomo. E quindi una lotta per quella libertà che è l'unica libertà degna dell'uomo, la libertà di vivere, di amare, anche di soffrire e di morire, nel rapporto con l'infinito, nella fedeltà a Dio. La Polonia, l'America Latina, le Filippine, la Corea, la Corea del Sud, forse un giorno la Corea del Nord, Haiti, tutti luoghi di un pellegrinaggio attraverso il quale Giovanni Paolo II ha ridetto questa verità e intorno a questa verità un movimento è nato, o se già c'era, si è rafforzato. Oggi nel mondo chi lotta per la liberazione guarda alla Chiesa cattolica, ha speranza in questa realtà. Non che tutti siano cristiani, meno che mai che tutti siano buoni cristiani - cominciando da noi -, e tuttavia questo criterio viene riscoperto come l'unico che è realista. Costruisce davvero chi lavora sulla base di questo criterio. Potremmo allora dire questo: costruire significa volgere l'occhio verso l'altro; per costruire è necessario cominciare non da quello che vogliamo fare, ma dal significato di quello che siamo, e ritrovare questo significato continuamente in ciò che operiamo. Che cosa vuol dire costruire? Ecco, prima di tentare di rispondere a questa domanda, lasciate che io dica qualcosa sull'atteggiamento che ci è richiesto per comprendere il significato della domanda. Molte volte noi usiamo le parole non preoccupanti di scoprire la verità delle cose; non ci interessa il loro valore di verità, ma il loro valore di scambio, le emozioni che possiamo suscitare facendo uso di quelle parole. Facendo circolare la parola ciascuno di noi tende ad accrescere un suo capitale immaginario di reputazione e di prestigio che ha o che ritiene di avere. Lasciate che io adesso vi preghi di cambiare questo atteggiamento, che è di ognuno di noi - l'atteggiamento del venditore, di colui che ha da vendere alcune parole o alcune idee - per entrare nell'atteggiamento del costruttore, dell'operaio o del contadino; il venditore non è preoccupato che quello che lui vende funzioni davvero; gli interessa di riuscire a venderlo. Ma il contadino, che compra uno strumento per il suo lavoro è interessato a capire come funziona e a cosa serve. Il rapporto con l'infinito non lo si può vendere come dei venditori, il rapporto con l'infinito ci tocca come costruttori, come il contadino, come l'operaio. Il cercatore di verità è l'uomo che è appassionato alla sua vita e quindi è interessato ad essere più che ad apparire, alle cose più che alle parole. È questo l'atteggiamento che possiamo identificare con la parola filosofo - il filosofo etimologicamente è il cercatore della verità - ma è anche l'atteggiamento che è l'inizio del senso religioso inteso come desiderio di essere con pienezza ed intensamente vivere. Allora torniamo alla domanda, dopo aver chiarito l'atteggiamento con cui ci poniamo davanti ad essa: che vuol dire costruire? Etimologicamente costruire viene dal latino, è "construere" - radunare insieme -, come quando un ragazzo, un bambino, fa un castello di sabbia sulla spiaggia, e sulla piattezza della spiaggia qualcosa si erige. Etimologicamente "construere" - costruire, radunare insieme - è l'opposto di "destruere" - distruggere, disperdere, sostituire a qualcosa che si è elevato verso l'alto, di nuovo la piattezza. Costruire allora significa radunare insieme. Ma che cosa? Per poter costruire, devo riconoscere qualcosa che già c'è, devo riconoscere che c'è una materia prima, uno strumento del mio lavoro che mi è dato, che io ricevo in dono da una storia che mi precede, e devo riconoscere, al tempo stesso, che la realtà ha una struttura intelligibile che risponde al mio desiderio di costruire. Questo significa avere un atteggiamento realista davanti al mondo. Che cosa è il realismo? Vedere le cose come sono. Io non costruisco a partire da me stesso, e se anche costruissi a partire da me stesso, quel me stesso a partire dal quale costruisco, mi è dato, non l'ho fatto io. Allora, costruire è usare qualcosa che c'è già, che per di più è un messaggio, è un simbolo, ha una struttura intelligibile che io posso capire; se io posso capire un biglietto è perché qualcun altro ci ha scritto sopra, se io posso intendere un significato nella realtà è perché Qualcuno nella realtà ha scritto questo significato. Costruire significa usar le cose secondo il significato che hanno, cioè in relazione con quell'infinito che le ha poste nell'essere e che ce le ha donate. L'uomo moderno è un uomo contraddittorio, la scienza moderna è profondamente realista e profondamente tesa a comprendere la struttura oggettiva della realtà; noi uomini moderni siamo fatti dalla scienza moderna, e quindi siamo profondamente realisti. Si tratta però di un realismo incompiuto. L'uomo moderno, mentre comprende che le cose hanno una struttura oggettiva, rifiuta di comprendere che questa è simbolo di un Altro. Che cos'è la catastrofe ecologica che minaccia il mondo, se non il risultato di un progetto umano di usare le cose, e cioè vivere il rapporto con esse non come dialogo con l'infinito, che le ha poste e ce le dona? Allo stesso modo l'uomo moderno vive il rapporto con la storia. La storia è vissuta ed è vista come luogo di un progetto umano. Viviamo il centonovantanovesimo anniversario della rivoluzione francese. Questa parola "rivoluzione" ha segnato una intera epoca storica, ed è stata intesa come il progetto dell'uomo di costruire un mondo sulla propria misura, senza accettare che la vera misura del cuore dell'uomo sia un infinito che trascende ogni progetto umano. t questo il mistero di iniquità, che trasforma l'amore in odio. Io agisco per amore dell'umanità, ma poiché l'umanità non è ciò che il mio progetto prevede, deve essere condannata e distrutta. La ghigliottina diventa lo strumento di una giustizia che è un adeguare gli uomini al proprio progetto invece di riconoscere il mistero di cui ognuno di essi è portatore. L'epoca moderna è in un certo senso segnata esattamente da questo progetto: non accettare la misura trascendente del cuore dell'uomo. Questo genera un atteggiamento, che è quello di chi costruisce fondandosi soltanto su se stesso. C'è una catastrofe ecologica nel mondo, ma c'è anche una Chernobyl del cuore umano, che nasce dal tentativo di leggere, la storia degli individui e delle nazioni prescindendo da quell'unico e decisivo criterio di verità che è il rapporto con l'infinito. Nasce allora quella che un grande filosofo italiano, Augusto del Noce, riprendendo una lunga tradizione, che inizia addirittura con Giovan Battista Vico, ha chiamato la "eterogenesi dei fini" della storia moderna. Gli uomini fanno non il bene che vorrebbero fare, non la realizzazione della libertà che pure desiderano, ma il contrario. Lo sforzo di costruire la libertà genera servitù, lo sforzo di costruire la comunione fra gli uomini prescindendo dall'infinito genera il massimo dell’estraniazione, dell'individualismo e della violenza. A questa idea credo che ne vada opposta un'altra - potremmo usare qui di nuovo una parola vichiana - la parola "provvidenza". Essa indica che la storia è il luogo del dialogo fra i progetti umani e l'infinito di Dio. Costruisce veramente chi vive questo dialogo, chi ama il bene più della propria idea del bene, la verità più che la propria misura o la propria idea sulla verità. Se prendiamo sul serio questa affermazione scopriamo che la prima condizione del costruire è l'ascesi, la capacità di purificare le intenzioni del proprio cuore, perché il bene non nascerà mai da un cuore non purificato. Nella recente enciclica "Sollicitudo rei socialis" Giovanni Paolo II offre un giudizio lucidissimo sulla storia contemporanea, considerata dal punto di vista della croce di Cristo, ovvero del rapporto con l'infinito, che le diverse correnti che la attraversano hanno voluto intrattenere. Comunismo e capitalismo sono stati e sono due grandi progetti di costruzione sociale, ambedue hanno cercato di comprendere l'uomo e di unificare la società umana prescindendo da quel fondamentale criterio che è Cristo, il luogo in cui compiutamente si manifesta la verità sull'uomo come rapporto con l'assoluto. Non si tratta tanto di una negazione teorica dell'esistenza di Dio, quanto del laicismo come principio pratico di una costruzione sociale che mette fra parentesi e considera irrilevante il rapporto con Dio. Non si tratta tanto nell'enciclica, di un giudizio su due diversi sistemi sociali, economici e politici, che sono diversissimi fra loro, quanto del giudizio su di un errore culturale comune, che pregiudica e rende vano lo sforzo di costruire la società umana. Bisogna avere apertamente il coraggio di affrontare la menzogna che sostiene che è possibile risolvere qualsiasi problema umano e costruire compiutamente la città degli uomini, senza mai affrontare il problema di Dio e agendo come se Dio non fosse. Paradossalmente, questa convinzione si diffonde talvolta anche fra i cattolici; essi sembrano non desiderare più che la questione di Dio stia al centro della cultura e della vita della nazione. Essi sembrano talvolta preferire una società ed una cultura neutre ma tolleranti verso l'esercizio del culto religioso. Una religione ridotta a mero culto non incide su una pratica sociale governata da criteri puramente tecnici, cioè dalla nuova ideologia incorporata nelle cose stesse che è la moderna tecnocrazia. Per comprendere questo paradosso bisogna considerare come sia scomoda invece la posizione di chi vuol costruire nel rapporto con l'infinito. Il senso religioso, che è la sintesi di questa posizione culturale, non è un monopolio dei credenti, non coincide con una confessione esplicita di fede religiosa. Un ateo, come Leopardi o come Schopenauer, può avere una concezione esasperata della relazione con l'infinito, anche se è convinto che si tratti di una relazione impossibile e che l'uomo sia condannato a non trovare mai risposta a questo appello - che tuttavia non può fare a meno di rivolgere - verso il cielo vuoto. In quell'appello, nonostante tutto, consiste la nobiltà ed il senso dell'umano esistere. La questione di Dio non può essere posta al centro della cultura e della società in un modo dogmatico, costruendo uno stato confessionale; essa può però esservi posta in un modo problematico; deve essere lecito discuterla, proclamare o cercare di motivare, le proprie certezze. Ciò implica, da parte dei non credenti, la disponibilità a non reprimere quelle domande che abitano pur sempre nel fondo della loro coscienza, sulla base di una decisione senza prove della loro insensatezza, o di una convinzione che esse non potranno mai trovare risposta. Ciò implica però anche, per i credenti, la rinuncia a chiedere uno spazio protetto, in cui celebrare i loro riti, offrendo in cambio l'accettazione dei valori e dei modi di essere propri della città secolare. Un cristianesimo non missionario, che non pretenda di affermare verità universali, che si accontenti di essere una delle tradizioni culturali proprie di una certa area geografica, può essere inscritto con facilità nel perimetro della città secolare, esso forse non potrà rinunciare del tutto a parlare di Dio, ma avrà almeno il buon gusto di farlo in modo tale da non essere sentito, da non turbare l'ordine sociale, culturale, politico. Dal punto di vista della città secolare, paradossalmente, è pericoloso l'ateo Leopardi, o anche il Capaneo, che con la sua disperata bestemmia, conferma di riconoscere l'inevitabile presenza dell'infinito alla radice dello stesso essere. Questo tipo di ateo sa in fondo che al di là della posizione che si prende su questo problema, nessuna domanda è più appassionante o più centrale di quella sulla esistenza, sulla presenza dell'infinito, se Dio esista e se sia incarnato nella storia dell'uomo. Costruire significa cominciare da questa domanda, con il porla nell'esistenza personale, con il ripeterla nel livello della vita delle nazioni. La storia dell'uomo da duemila anni è la storia di questa domanda; ciò che rimane nella storia è ciò che è costruito nel rapporto con essa. Ciò che accade in Polonia, per tornare all'inizio delle cose che abbiamo detto, è oggi per noi un esempio e anche un apologo. Non possiamo dare un grande aiuto, o forse possiamo fare anche quello; ma l'aiuto più grande che possiamo dare è accettare l'aiuto che ci viene dato, il messaggio che ci viene insegnato: "Chi non raduna insieme con me, disperde; chi non costruisce secondo la misura dell'infinito, distrugge". Il senso della storia polacca di questi giorni, come della nostra storia e di quella che vogliamo costruire in Italia, nell'Occidente e nel mondo, è vivere l'obbedienza e l'appartenenza a questo infinito di cui siamo dono. Restituire a Dio il dono che Egli ci ha dato, restituire Dio a Dio stesso ed entrare in tal modo nel circolo della stessa vita divina.

T. Styczen:

Fratelli e sorelle, cercatori di infinito, ho paura delle parole, sempre, ancora più ho paura delle grandi parole, come cercatori. Troppo grande. Poi viene una parola ancora più grande: infinito. Come si fa poi, ancora, ad aggiungere ai cercatori la determinazione ulteriore dell'infinito? Con l'accrescersi della grandezza delle parole cresce anche la paura. Tuttavia, nonostante questa paura, nonostante la voglia di fuggire via e di non parlare di questo - che pure è il tema del nostro incontro - cresce anche, ed ancor di più, in me il bisogno di parlare, perché ho visto e vedo sempre di nuovo una cosa, che ciascuno di noi è proprio questo: un cercatore di infinito, perché almeno una volta nella vita ha sentito il bisogno di dire ad un'altra persona "Come è bene che tu ci sia!". Se mai una volta avete voluto dire queste parole ad un'altra persona umana e lo avete fatto, ciò è potuto accadere perché non avete potuto darle ciò che più di tutto avreste voluto: il dono di essere per sempre. "Come è bene che tu ci sia" vuol dire: "Io vorrei che tu fossi per sempre". Io però non posso fare in modo che tu non scompaia un giorno della vita; dovrei essere io stesso assolutamente l'Essere stesso, dovrei essere allora io stesso l'infinito per poter donare un'esistenza senza fine a colui a cui dico: "Come è bene che tu ci sia!". Se dunque io e ciascuno di voi abbiamo vissuto l'esperienza che è contrassegnata da quelle parole, allora già siamo sulle tracce dell'infinito ed abbiamo bisogno di proseguire in questa ricerca per dare alla persona amata ciò che il nostro cuore per essa desidera, perché possa conseguire la pienezza dell'essere, Le cose che abbiamo detto fino ad ora sono come un primo preludio al nostro tema. Il secondo preludio si lega ad un'altra fondamentale esperienza umana, quella dell'ascoltare la persona, alla quale abbiamo manifestato la nostra volontà di bene per lei: "Io vorrei appartenerti per sempre". Davanti a queste parole è umano il voler vivere un ringraziamento che sia adeguato a questo dono. Unica risposta adeguata è il dono di se stessi. Per poter accogliere il dono dell'altro è infatti necessario rispondergli con il dono di sé. Io però, che non sono in grado di donare la pienezza dell'essere e della vita a coloro che amo ed ai quali dico "Come è bene che tu ci sia!" non sono nemmeno capace di un autentico ringraziamento, non posso donare me stesso perché non posseggo me stesso. L'amore, l'amore coniugale, come qualunque altra forma di amore umano autentico, diventa possibile solo quando inizio a ringraziare per la mia stessa esistenza, cioè imparo ad accogliere la mia esistenza stessa come dono. L'amore è possibile solo quando coloro che amano ricevono contemporaneamente se stessi come dono dall'infinito. Si diventa cercatori di infinito perché si prende sul serio in tutte le sue dimensioni il "tu" di una persona concretamente esistente, amata. Solo così, nell'incontro di due "tu", è possibile il dono. È possibile? Si, è possibile. Per questo siamo nel ringraziamento all'infinito, al Donatore della vita, al Padre nostro. Iniziamo davvero a cercare quando scopriamo che l'infinito fin dal principio ci aveva cercati. Solo avendo trovato in noi stessi il primo cercatore che ci ha cercati e ci ha donato il nostro stesso essere, ci possediamo a sufficienza per poterci donare. Questo ritrovarsi nell'infinito è la condizione "sine qua non" del dono. Qui entriamo nel mistero dell'unicità e nel mistero dell'essere di ogni io e di ogni tu umano. Il mio essere, il tuo essere non sono necessari, ciascuno di noi potrebbe non esistere, noi non possediamo in noi stessi la ragione adeguata del nostro esserci. Se provi a domandarti il motivo adeguato della tua esistenza, subito scopri che non sei tu stesso, e in fondo non lo sono neppure i tuoi genitori, perché anche se sei debitore ad essi di tante cose, tuttavia sei un essere umano essenzialmente diverso, unico, irrepetibile; e poi i genitori non piangerebbero mai, senza poter far nulla, la morte dei propri figli se essi stessi fossero datori esclusivi della loro vita. E così la tua esistenza, come del resto quella della tua famiglia, della tua nazione, della cultura cui appartieni, affonda la sua radice nel mistero stesso dell'essere. Terzo preludio: costruttori di storia. L'uomo costruisce la storia quando diventa servo del valore che è il fondamento di tutti i valori, quello dell'esistenza stessa dell'uomo. L'essere infatti per l'uomo è la vita, "vivere viventibus est esse". Servire l'esistenza dell'uomo non è però possibile se non la si afferra in quel suo ultimo principio per cui essa è dono di Dio. Servire la vita è allora servire il Donatore della vita. È guardando a Lui che comprendiamo che cos'è la vita a cui vogliamo servire. Della vita della persona umana è un elemento essenziale e costitutivo la sua autonomia e libertà. Essa è la dipendenza da se stessi attraverso il riconoscimento della verità su se stessi. La coscienza è

questo legame della persona con la verità; obbedendo ad essa diveniamo liberi. Su questo tema della vita e della libertà due sono le tentazioni fondamentali cui è esposto l'uomo del nostro tempo. La prima è quella di non prendere sul serio il fondamento stesso della persona umana, cioè la sua vita, la vita dell'uomo e quindi Dio che la dona. L'offesa alla vita è un'offesa a Dio che la dona; distruggendo la vita si distrugge in radice la moralità e la religione, venendo meno al rispetto verso Dio e al rispetto verso la persona umana. La seconda tentazione è quella di non vedere la coscienza come luogo dell'incontro della verità con la libertà. Qui ciò che viene colpito è il cuore stesso della persona. La persona coincide in un certo senso con il dramma della sua coscienza del suo libero legarsi con la verità. Se mi accorgessi che tutto quello che ho sempre creduto è falso, dovrei immediatamente rifiutarlo per poter restare me stesso. Solo se mi supero in direzione della verità posso restare me stesso. A queste due tentazioni è necessario rispondere con una cultura del rispetto della vita e con una cultura del rispetto della coscienza e della libertà; ambedue si riferiscono a Dio come donatore della vita e partner del dialogo con la coscienza,- il sì dell'uomo all'umano, a se stesso ed a coloro che ama, ha allora queste due dimensioni: una orizzontale e l'altra verticale. Quando le rispetta ambedue egli diventa costruttore di autentica storia. Nota bene conclusivo della prima parte: davanti alla storia l'uomo è continuamente esposto al rischio della dimenticanza dell'autentica misura del costruire, egli deve sempre di nuovo scegliere se costruire sulla propria misura o su quella dell'infinito. Dove si affievolisce la coscienza del fatto che la vita è un dono ed è un dipendere da una verità più grande di sé, subentra allo stupore davanti ad una verità data un proiettarsi creativo sulle cose per imporre ad esse con violenza la misura del proprio interesse o del proprio pregiudizio. Questa filosofia dell'al di là della verità si predica oggi nelle piazze e ha sostituito la domanda sui valori reali, veri, con quella su ciò che vorrebbe imporsi come valore. Questo democratismo, che è disposto a lasciare la sorte di Socrate e di Cristo in balia della maggioranza, non vuole più riconoscere profeti che parlino di valori veri in opposizione a quelli solo correnti o cosiddetti comuni o condivisi. C'è un dramma di Friedrich Durrematt che ci racconta ciò che deve necessariamente avvenire in un mondo in cui trionfa questo democratismo, questa mentalità. Si intitola: "Besucht der eltern Dame", che in italiano si può tradurre pressappoco con "La visita dell'anziana signora". Da qualche parte in occidente, forse in Svizzera, c'è un posto che si chiama Gullen; lì accade fra un ragazzo e una ragazza una storia del tutto normale, come tante altre; si incontrano, si amano, poi il giovane la abbandona. Per la mentalità del villaggio la ragazza è ormai una donna perduta, le tocca fuggire via, andarsene nella grande città, forse per perdersi davvero, forse per rifarsi una vita. Passa il tempo, il giovane è ormai un uomo maturo, già sul declino dell'esistenza, ha fatto la sua carriera, certo una piccola carriera perché nulla di grande succede mai a Gullen. È arrivata intanto la democrazia, ed anche un certo benessere, ma Gullen rimane Gullen. Un giorno arriva la notizia: lei torna. Lei nella grande città ha fatto carriera; dopo una vita avventurosa ha sposato un uomo incredibilmente ricco e potente, che è morto lasciandola erede di tutti i suoi beni. I rapidi non fermano mai a Gullen, ma questa volta, per desiderio della grande dama, lo faranno. La signora torna per ottenere la propria vendetta e per far mettere a morte l'uomo che Ilia sedotta, tradita ed abbandonata. La donna non vuole soltanto che egli muoia, vuole che sia tradito, abbandonato, consegnato e condannato da suoi amici e da tutti i cittadini del paese. Essa promette di portare il benessere a Gullen se le daranno ciò che vuole e compra poco per volta con il denaro le coscienze di tutti i paesani fin quando essi consentono all'omicidio. Anche il parroco si trova alla fine tra di loro, "primus inter pares" nel consenso che fa la verità. Vi è però una differenza fra il modo in cui termina il libro di Diirrematt ed il finale della messa in scena cinematografica, ed è questa ultima a consegnarci nel modo più completo il significato del dramma. Qui, nell'assemblea del paese che deve decidere della sorte dell'uomo, la dama alla fine domanda ripetutamente: "C'è qualcuno che sia contrario? Niemand? Nessuno? -" Silenzio. Dopo che tutti, fino all'ultimo, hanno consentito al sacrificio dell'uomo, la donna riprende a parlare e continua pressappoco così: "Io vi dico allora che costui non è colpevole e perciò deve vivere e rimanere fra voi come specchio della vostra coscienza che avete venduto". Essi hanno infatti sostituito il giudizio della coscienza con quello dell'utile e della convenienza. Lo hanno fatto adesso condannando a morte l'uomo, come lo avevano già fatto una volta, molti anni prima, condannando la donna all'emarginazione ed all'ostracismo. I valori autentici, che nascono dall'incontro con la persona, sono stati sostituiti dai valori comuni della ipocrisia e del fariseismo perbenista. Non è più importante nella bilancia dei pegni il benessere di tutti che la vita di uno solo? Essi hanno deciso che il consenso fa la verità e proprio per questo hanno fermato la storia. Nulla accade, perché essi non sono disposti a riconoscere e ad accogliere nulla, a pentirsi e a ricominciare. La verità detta dalla vecchia dama, invece, rimette in movimento la storia. Se ripetiamo anche noi questo gesto del rendere testimonianza alla verità, allora diveniamo anche noi costruttori di storia. Questo gesto comincia con il prendere coscienza della reale dimensione della minaccia a cui siamo esposti e insieme con il riconoscersi come figli e come figli di questo Padre. L'apertura a questa verità, il riconoscimento di questa originaria dipendenza e di tutto ciò che da essa discende, costituisce il cuore dell'uomo come luogo del dialogo con la verità, quella fondamentale ed originaria e le molte particolari e parziali che solo nella luce della prima possono essere scoperte ed accettate. Parte seconda. Dall'amore come chiamata, all'amore come risposta. Una riflessione sul dono e sul ringraziamento che non voglia fondarsi sul puro fantasticare deve basarsi sull'esperienza. Essa, intesa come "locus antropologico-metafisico-eticus sui generis" può essere presupposto presso ciascuno di noi. Tutta la riflessione ulteriore si fonda su di essa, affonda in essa le proprie radici e ne trae la propria capacità di conoscenza. Credo, che il problema della gratitudine possa essere posto adeguatamente e si possa tentare di affrontarlo e risolverlo in modo, esauriente solo se ci si pone davanti adesso nella prospettiva del tempo e dello spazio in cui l'uomo fa esperienza in un modo particolarmente inatteso e spontaneo, ma anche al tempo stesso particolarmente profondo, della necessità di ringraziare per il dono ricevuto. Quale è dunque questo luogo e tempo - luogo e tempo privilegiato - della gratitudine. Non c'è, io credo, bisogno di fare un grande sforzo per indovinare; si tratta del tempo e del luogo in cui una persona avverte a causa di un'altra persona - ed è in qualche modo sorpresa essa stessa per questo avvenimento - il prepotente bisogno di pronunciare queste semplici parole: "Come è bene che tu ci sia! ". Non significano forse queste parole: "La tua stessa esistenza io la esperimento e vivo come un valore straordinario ed al tempo stesso come un dono"? Forse questa è una domanda retorica, ma non vogliono dire quelle parole oltre a ciò anche qualcos'altro? Non sono infatti anche la manifestazione di una certa, per lo meno iniziale, gratitudine e del tentativo di offrire una risposta al dono ricevuto? Si tratta del tentativo di rispondere al fatto che l'esistenza dell'altra persona è un valore infinito ed al tempo stesso un dono che rende felice la nostra vita. Se si tenta di approfondire appena un poco l'intenzione della persona che pronuncia davanti all'altra queste parole: "Come è bene che tu ci sia!", si può ritrovare senza difficoltà fra i suoi contenuti il desiderio di rendere eterna l'esistenza della persona dell'altro, della persona amata; del resto talvolta non è neppure necessario tirare fuori questo desiderio dal nascondiglio: esso è immediatamente oggetto della nostra conoscenza nel giudizio; se non ti offro il dono dell'immortalità della vita senza fine, ciò è solo perché non sono in grado di compiere ciò che soprattutto e massimamente vorrei: donarti appunto l'immortalità. Non posso fare ciò che soprattutto vorrei fare: donare all'altro un'esistenza senza fine. L'essere vitalmente colpiti da tale sproporzione è un'esperienza, o meglio un'esperienza vissuta insieme con l'altro, che inevitabilmente accompagna il giudizio sull'esistenza della persona, dell'altro, come valore e del bisogno spontaneo di ringraziare per il dono di tale esistenza e della sua vita. Questa esperienza ci si offre immediatamente non appena ci accade di vivere l'avvenimento dell'esistenza della persona dell'altro secondo la misura di ciò che esso è in se stesso, secondo la misura del suo valore. Tutto ciò, tuttavia, è ancora soltanto come un preludio di ciò che già abbiamo indicato con l'espressione "locus antropologico-eticus gratitu dinis"; infatti l'uomo sperimenta nel modo più profondo ed insieme più articolato e più espressivo il bisogno di ringraziare la persona dell'altro per il fatto che è solo quando gli è dato di ascoltare dalle labbra della stessa persona: "Anche io vivo la tua esistenza come un dono; senza di te, senza la tua presenza, il mondo sarebbe per me un deserto, non sarebbe più lo stesso mondo, vedi, anche io non posso donarti un'esistenza senza fine e tuttavia voglio appartenere a te in tutto ciò che sono, senza riserve; non ho molte cose, ma voglio donare a te, senza riserve, tutto ciò che sono, colui - o colei - che io sono - totus tuus, tota tua - accettami come dono per te, per sempre". Mi azzardo a dire che il contenuto di questi giudizi, anche se forse non proprio le stesse espressioni verbali di cui ho fatto uso, esprime avvenimenti vissuti ed esperienze quotidiane che sono vicine e presenti a ciascuno di noi. Anche adesso tuttavia, come già in precedenza, queste esperienze ed avvenimenti vissuti sono accompagnati da domande, che fanno dei dati dell'esperienza, dei dati da spiegare. Così dunque queste esperienze che costituiscono il contenuto dei nostri avvenimenti vissuti e delle nostre esperienze più profonde, si trasformano in problemi che molto ci assillano e profondamente ci inquietano; possiamo chiamarli problemi esistenziali ovvero, anche con Fédor Dostoeskij, domande maledette; infatti non è forse vero che accogliere l'offerta di un dono così straordinario come quello di se stesso a me compiuto dalla persona dell'altro è possibile solo nella forma di un dono eguale e reciproco, corrispettivo, intero e senza riserve di sé stessi a lui? Proprio allora sorge però improvvisamente la seguente domanda: "Appartieni tu a te stessa, appartengo io a me stesso in misura sufficiente per poterci donare l'uno a l'altro, tanto più in quanto – o forse meglio tanto più che - il fondamento profondo di noi stessi, la nostra stessa misteriosa esistenza non appartiene a noi stessi?". Il nostro desiderio del dono, il nostro desiderio di donare noi stessi ha bisogno di ricevere la forza di pervenire all'esistenza, la forza realizzatrice per rimanere veri, per poter possedere se stessi e poter infine donare se stessi. Chi di noi possiede questa forza? Chi dunque può offrire un tale dono ed anche rendere grazie per un tale dono, accoglierlo facendo dono di se stesso alla persona dell'altro? Werner Grunn esprime quest'esperienza nei versi seguenti: "Io non sono mio, tu non sei tua, nessuno di noi può appartenere a se stesso". Non ha forse ragione il poeta? E tuttavia chi di noi potrebbe rinunciare facilmente a voler appartenere interamente a una persona che ci ama e che intensamente amiamo? Non è forse vero che parole come: "Io voglio appartenerti interamente per sempre" ci riportano ad una esperienza quotidiana ed universalmente umana? Solo a partire da questa domanda è possibile porre il nostro problema in tutta la sua ampiezza. Per rispondere a tale domanda è necessario affrontare il problema del senso dell'identità e dell'esistenza umana, ed anche al tempo stesso quello del senso più profondo dell'amore umano. Esso si formula così: "Da chi dobbiamo prima di tutto ricevere noi stessi per poterci appartenere?", cioè: "Chi e come è bene ed è giusto che noi ringraziamo prima di tutto per noi stessi, per il fatto che siamo e per quello che siamo? A chi è dovuta la gratitudine per esso?". Ecco la mia risposta. La sorgente più profonda della meraviglia che ci esprime in ogni umana affermazione del tipo: "Come è bene che tu ci sia! " sta nell'atto del riconoscimento dell'Amore creatore e dell'onnipotenza personale. Il Suo bene, il Suo molto bene, che segue al suo "Sia" - "Fiat" - e che è rivolto ad ogni singola persona in modo così assolutamente unico ed irrepetibile che senza di essa, di questa persona, il mondo non potrebbe più essere lo stesso mondo dal punto di vista dello stesso Amore infinito ed onnipotente. Se dunque noi possiamo intendere e spiegare pienamente la verità sul dono e sul ringraziamento solo attraverso il dono reciproco della persona, allora dobbiamo necessariamente pervenire, insieme con il profeta Giacobbe, a quella soglia dove egli ha esclamato: "Il Signore era qui ed io non lo sapevo! ". Noi dobbiamo ripetere queste parole insieme con lui: "Dio è qui fra noi. Solo per questo io sono e posso essere, perché il Signore che mi ha creato e mi crea, mi dona a me stesso; io esisto solo come suo dono". Questo non è tutto. Egli stesso infatti - Dio - deve essere in me, dando a me stesso perché io possa esistere e sia; Egli deve operare in te, dando te a te stesso e dando al tempo stesso compiutamente se stesso a te perché tu possa esistere e sia. Egli deve essere radicalmente in noi: "intimior intimo nostro in actu et in persona" perché noi siamo, ed in effetti noi ci siamo. Egli deve agire di persona perché in noi possa continuare a sussistere quel dono creatore senza il quale noi non ci saremmo, e tuttavia noi ci siamo. Il fatto stesso che noi ci siamo è dunque sufficiente per affermare in modo ultimativo che donando a noi stessi, Dio creatore ci offre contemporaneamente e pienamente se stesso, senza riserve, come dono. Ci dice "totus tuus", per questo possiamo dire che noi siamo perché Dio creatore ci si dona senza riserve: Perché Dio dona a noi se stesso, noi siamo. Ciò significa che io scelgo me stesso, realizzo me stesso, ed inizio ad appartenere a me stesso, posseggo me stesso in modo adeguato e posso donarmi ad un altra persona, divento pienamente me stesso, ed esisto in modo autentico, quando io, con un libero atto di scelta, ricevo me stesso come dono da Dio creatore, cioè quando scelgo di appartenere interamente a Lui, quando dono me stesso interamente a Dio ricevendo da Lui il mio essere come dono, quando io insomma, in altre parole, Gli dico con il mio atteggiamento interiore: "Totus tuus". Se dunque l'accoglimento di me stesso come di Dio è inseparabile dall'accoglimento di Lui come datore del dono - e questo è stato appunto appena dimostrato - allora quando io mi ricevo da Dio come sono, realizzo pienamente me stesso non solo in me stesso ma anche, anzi soprattutto, in Dio stesso datore di doni. Quando io dunque mi ricevo da Dio, come Suo dono, con questo stesso atto non solo dono a Dio interamente me stesso, ma anche, Gli offro in dono totalmente Lui stesso: dono a Dio. Solo così io sono in grado di fare ciò che risponde al più profondo desiderio del mio cuore: rispondere al "Tota tua" della persona amata e che ci ama, con un responsabile "Totus tuus". Con lo stesso atto infatti con cui dono me stesso alla persona amata, dono anche in me ed attraverso me stesso l'infinito all'infinito. "Cercatore, non Mi avresti cercato se non Mi avessi conosciuto". A questo punto non dovrebbe più meravigliarci il fatto che il cercatore di infinito fin dal principio stesso del suo cammino verso di esso, si trova stretto nel suo abbraccio; chi cerca la verità non lo fa forse perché fin dal principio non ha resistito alla sua attrazione magnetica e, cercando la verità, non oltrepassa per ciò stesso e fin dal principio la soglia della sua dimora? "Non mi avresti cercato se non mi avessi conosciuto". È importante osservare che questa frase non ci sorprende se sappiamo che la verità che cerchiamo è una verità personale, o meglio un amore personale infinito. Qualcuno ha detto "Io sono la Verità, la Via, la Vita". La cosa più straordinaria ed impressionante è che il cercatore dell'infinito ad un certo punto del suo cammino verso di esso, improvvisamente intuisce che il nocciolo del suo problema subisce un radicale spostamento che non si tratta tanto della ricerca dell'infinito, quanto del dono dell'infinito all'infinito, del dono di Dio a Dio. Allora il cercatore comprende che solo se dona l'infinito all'infinito dona contemporaneamente l'infinito a se stesso, cioè realizza se stesso fino in fondo e comincia davvero a vivere. Questa è la sorpresa e l'avventura più grande che sia possibile nella vita. È un avvenimento negli avvenimenti, ed al di là degli avvenimenti della vita; un avvenimento nel cammino che conduce all'infinito ed un avvenimento nel cammino verso se stessi. Non è allora necessario che questo sia il fatto decisivo della vita, la sua svolta decisiva, il momento della nascita ad una nuova vita, l'attimo di una nuova scelta fondamentale e di una opzio ne radicale? È essenziale il fatto che la scoperta dell'infinito esige una radicale trasvalutazione di tutti i valori, uno sguardo portato su tutto nella vita da una nuova prospettiva. Io sono perché sono il Suo dono, io sono Suo figlio, il mio io è scritto in Lui fin dall'eternità, Egli è in me "intimior intimo meo" e per questo io sono. Pertanto vivere – veramente vivere - è fare della vita un ringraziamento per questo. Il tempo che non sia riempito dal rendere grazie è un tempo perduto e allora non è forse necessario intraprendere un radicale trasferimento del proprio centro affettivo nella vita nel nome della Sua "melior pars", alla ricerca di un luogo che sia appropriato per l'azione di grazie? Non si deve dunque iniziare la ricerca della propria Betania in nome di ciò che soltanto è importante e necessario? Questa Betania però, questo tempio del ringraziamento a Dio in spirito e verità, non si trova affatto in un qualche luogo lontano dalla vita, nella sua periferia, ma invece è proprio nel suo stesso centro; non si tratta di una fuga dalla vita, ma della sua scoperta e del ritorno alla sua fonte; si tratta di tornare al Datore della vita nel dono che è suo per eccellenza, che è il dono della vita umana; infatti proprio la vita di ciascun uomo in particolare ed il suo unico ed irripetibile volto è il dono di Dio per eccellenza; proprio per questo essa è anche il luogo di Dio per eccellenza, il luogo in cui agisce nel modo più radicale e proprio. Si può forse trovare o scegliere un luogo più degno di questo per rende re grazie a Dio per il dono in cui Egli stesso si offre in dono? Dappertutto là dove una nuova vita umana sorge e pulsa, viene generata e perdura, là il Padre genera, e quello è un luogo santo, perché lì il Creatore costruisce per Se stesso un santuario vivente perché lì siano rese grazie in spirito e verità. Là dunque, dove è la vita umana, lì è il luogo santo: "Togli dunque i calzari, qui è il tuo Padre, qui bisogna rendere grazie". Il cercato re dell'infinito quando lo raggiunge e comprende al tempo stesso, si lascia prendere nella sua trappola, nella trappola della verità sull'unione, che è una chiamata alla comunione con l'infinito. Questa è la trappola che non imprigiona e non mette in catene, ma invece libera. Condannandomi da me stesso a questa comunione non scelgo la dipendenza di un servo nei confronti di un tiranno, bensì l'appartenenza di un figlio al padre; un'appartenenza che è l'unica via alla liberazione, alla pienezza della libertà nella dimensione del dono reciproco di se stessi, della libertà nella verità sul dono, della libertà nell'amore. Veramente io sono mio quando sono Tuo, Padre, per elezione. Qui dunque ha compreso che l'infinito è l'autore del dono della vita umana personale e che dunque ogni uomo senza eccezioni è un qualcuno che il Creatore vuole incontrare personalmente, e che egli stesso è il luogo in cui il Creatore lo incontra. Costui vede anche che non è più possibile dire sì a Dio e a se stesso se non attraverso il sì detto a ciascun luogo - senza eccezione - in cui Dio solo genera, in cui per la potenza del dono creato re Egli edifica un santuario vivente per entrare in relazione con la persona umana e per ciò stesso propone un luogo per incontrarlo e renderGli grazie in spirito e verità. La scoperta dell'infinito in forza del riconoscimento della sua presenza in ogni uomo vivente senza eccezioni, impegna ad una difficile gratitudine. Colui che rende grazie deve accettare di portare tutto il peso del dono che accetta. Il sì al Datore della vita, il sì del figlio che ha compreso che è colui che è proprio perché è figlio di quel Padre, trova la sua completa realizzazione, la sua traduzione, anzi, la sua espressione autentica ed il test infallibile della sua verità, solo ed esclusivamente nel sì incondizionato ad ogni vita umana senza eccezioni. Ovunque pulsi una vita personale, lì il Creatore in persona genera. Attenzione: qui c'è l'uomo, e dunque qui c'è Dio. "Togliti i sandali, perché il luogo che calpesti è santo". Le cose sacre devono essere trattate in modo santo. Porti il peso di Dio in te stesso solo quando lo porti in ogni altro uomo, quando porti in te il rispetto totale che è dovuto a Dio presente in ogni altro uomo, come in te stesso. "Amor meus bondus meum", questo significa onorare il Padre nello spirito e nella verità, questo significa dire a Dio: "Abbà" - "Padre" - con i fatti. Non è infatti colui che dice "Padre, Padre" ad onorare il Padre, ma solo colui che accoglie il dono del Padre e il Padre nel suo dono insieme con il dono. Mi vengono in mente, a questo punto, le parole del grande patrono di Milano, del Padre della Chiesa, S. Ambrogio: "Hai chiamato Dio "Padre", renditi conto di ciò che hai fatto", rifiuta il Padre chi respinge il Suo dono, si sforza di obbedire al Padre chi cerca di esserGli fedele in ciò che può solo essere il Suo dono. Proprio per questo lo scopritore dell'infinito quando inizia a rendere grazie, cambia radicalmente il corso della storia dell'umanità, anche se forse al principio può non rendersene conto; diventa costruttore di storia un popolo in cui i non nati non devono tremare davanti a quelli che già hanno visto la luce ed i più deboli non devono avere timore di quelli più forti di loro. In questa storia non c'è posto per il principio mostruoso: "vale più la forza che la ragione", in questa storia domina indivisibilmente un altro principio, ed esso solo determina il suo ambito: "vale più la ragione che la forza, vale più la verità che la forza". "Ratio" e "veritas" sono appunto la verità sul dono e sull'esperienza del dono, la verità sull'appartenenza del figlio al Padre, la verità sulla solidarietà di ogni uomo con ogni altro uomo e di tutti con tutti per elezione, la verità sulla solidarietà di una nazione con tutte le nazioni per elezione, in forza dell'elezione del Padre unico di tutti, di questo Padre. Proprio per questo il cercatore di infinito, scegliendo il Padre come tesoro nascosto, diventa costruttore di storia, artefice autentico della storia umana, della solidarietà fra i popoli, della vera cultura e dell'autentica pace. Come condensare in poche parole il contenuto di tutto ciò che ho detto? Forse che non è tutto contenuto in quella svolta straordinaria in cui lo stesso Figlio di Dio e dell'Uomo ha dato principio a tutto questo? Voi, quando pregate, pregate cosi: "Padre nostro"; non è dunque necessario che tutti noi, sempre e di nuovo, ripetiamo quelle parole, facendo memoria al tempo stesso dell'ammonimento del grande San Ambrogio: "Avete chiamato Dio 'Padre', rendetevi conto di ciò che avete fatto. "? Sì, che cosa avete fatto? Vi rendete conto di avere detto con una espressione solo leggermente diversa: "Io ti appartengo interamente, io sono Tuo figlio, io sono mio quando sono, per elezione, tuo - "totus tuus" -, vi rendete conto di ciò che avete detto e di ciò a cui vi siete impegnati? Non dovremmo allora trasalire ogni volta che facciamo l'esperienza della intera profondità del mistero di questa paternità e di questa eredità a noi gratuitamente partecipata, ed ogni volta che facciamo l'esperienza del contenuto "tremendum et fascinosum" che affermiamo quando osiamo dire le parole: "Padre nostro"?