La parola e il silenzio di fronte al mistero

Giovedì 26, ore 16.30

Relatore:

Susanna Tamaro,
Scrittrice

Tamaro: Ho accettato di riflettere sull’argomento del Meeting perché mi sembrava molto interessante e molto vicino alle mie corde più profonde.

Vorrei iniziare con un ricordo della mia infanzia, che non è il ricordo di un volto o di un luogo ma è il ricordo di un’assenza. Ho sofferto di una forma di insonnia precocissima e protratta per anni, l’idea dello spegnersi del sole ha ossessionato in maniera grave la mia infanzia; con quest’ansia nel cuore mi guardavo intorno e vedevo le persone vivere in uno stato di assoluta incoscienza: possibile che nessuno si accorgesse della minaccia che pendeva sulla terra? Del fatto che ogni giorno questa minaccia fosse annunciata dal cupo apparire della notte? Possibile che tutti andassero a dormire, e dormissero davvero, con la testa sprofondata nel cuscino, totalmente inconsapevoli dello stato di assenza distruttiva che gravava intorno al loro letto? Ogni tanto, di giorno, per abituarmi all’oscurità, facevo delle prove: mi aggiravo per la casa ad occhi chiusi, palpando le cose, sfiorandole per convincermi che, anche nel buio, continuassero ad esistere. Ma il buio che mi ero imposta era solamente un mio buio, un buio che potevo interrompere in qualsiasi momento, non il buio dell’universo.

Nella lunga oscurità delle mie notti avevo incominciato a vedere degli scheletri. Danzavano allegri intorno alla stanza usando le tende come un palcoscenico. Apparivano, scomparivano, ridevano, facendo cigolare le mandibole, mi chiamavano. Per questo non volevo andare a dormire. Ma con chi potevo parlare di queste cose? In nessuno sguardo riuscivo a percepire la nota di terrore ansioso che c’era nel mio. Conoscevo ogni minuto della notte, ogni minuto ha un suo suono, ogni istante aveva una forma di spavento diverso. C’era la primissima notte, quella in cui i bambini erano già a letto, ma gli adulti del palazzo no. Si sentivano ancora le radio, le televisioni, le voci più alte di una lite. Passavano ancora molte automobili sotto le finestre e sul rombo dei motori si inseriva il suono non lontano delle campane di una chiesa. Questa era la notte ancora possibile. Ma poi c’era un confine invisibile. Come gli attori di una commedia, uno dopo l’altro, gli abitanti del palazzo scomparivano nelle loro stanze, in strada non passavano più macchine e, a intervalli sempre più lontani, passava solo qualche filobus. Sentivo il suo affanno in salita, il cambio della marcia e, subito dopo, il silenzio. C’era un grande liquido scuro che avvolgeva e tacitava ogni cosa. Solo le campane continuavano, ma il loro suono non mi confortava affatto. Gli scheletri amavano quei rintocchi; erano il loro spartito, danzavano sulle punte ripetendo: "Morirai, morirete tutti".

Forse ora, se un bambino manifestasse queste paure, si ricorrerebbe subito all’aiuto di uno psicologo, di qualcuno in grado di placare l’ansia con la via della ragione e della consapevolezza. La paura del buio – si dice – è irrazionale, fantasticare di scheletri è qualcosa che sconfina nelle patologie più morbose. Ma è proprio così? O è piuttosto il desiderio di sicurezze e di comprensibilità della nostra cultura che ci porta a negare la naturale paura che attanaglia l’uomo, fin dalla nascita della sua coscienza? Dice il Siracide: "Un grande affanno è stato dato a ogni uomo, un giogo pesante grava sui figli di Adamo, da quando escono dal seno della madre fino al giorno del loro ritorno alla madre di tutti. I loro pensieri e la trepidazione del cuore esprimono l’attesa del giorno della morte… Anche quando riposa nel letto, il sonno della notte turba i suoi pensieri. Riposa poco ed è come niente; anche nel sonno si affatica come di giorno, perché è sconvolto dalla visione del suo cuore come chi fugge davanti alla guerra". Infatti, dai miei sonni brevi e tormentati mi svegliavo sfinita, e questo sfinimento non scompariva durante il giorno: si trasformava in una presenza. La presenza della morte che attende ogni creatura per trascinarla nel suo gorgo di polvere. La notte, il buio, il silenzio – e il terrore che mi ispiravano – non erano altro che questo senso di caducità per tutto l’esistente. "Che senso ha vivere, se tutto deve finire?", mi chiedevo già a quell’età.

Gli occhi e gli sguardi degli adulti intorno non ispiravano la forza e il coraggio di fare domande. C’erano già abbastanza incomprensioni tra me e il mondo dei grandi per inventarne di nuove. E poi, in fondo, una risposta l’avevo già avuta una volta: "Stai troppo sola – mi hanno detto – così ti vengono tutte queste idee assurde". Allora, di notte tormentavo il mio fratello maggiore. "Quando è nato il sole?" gli chiedevo. "E quando le stelle?" "E come mai è possibile che la luce sulla terra venga e se ne vada come quella di una lampadina?" "E dove vanno le persone quando non ci sono più?" "E gli scheletri sono buoni oppure cattivi?" "E quando noi due diventeremo scheletri, saremo ancora fratelli?" Lui cercava di rispondere con pazienza, almeno fino a una certa ora. Poi protestava dicendo: "Basta! Perché non dormi un po’?".

Sentivo che nell’esistere era racchiuso un grande mistero. Un mistero apparentemente ignorato da tutti. Un mistero la cui percezione mi rendeva estremamente fragile. La contemplazione di qualsiasi forma di vita mi portava direttamente e senza mediazione a percepirne la scomparsa: sarebbero morti, svanendo nel nulla, i gattini che la gatta allattava così teneramente; sarebbe morta la gatta così come sarebbe morta mia madre. Il futuro era pieno di agguati del dolore. Agguati a cui, già a freddo, pareva impossibile resistere. Se c’è la morte, che senso ha la vita? E perché esiste la vita? Dice il libro della Sapienza: "Breve e triste è la nostra vita. Il rimedio non sta nella fine dell’uomo, né si conosce qualcuno che sia tornato dagli inferi. Per caso siamo nati e dopo morti saremo come non fossimo morti: fumo è il soffio delle nostre narici e la parola è una scintilla nel palpito del nostro cuore, spenta la quale il corpo diventerà cenere e lo spirito si disperderà come aria leggera". Parola della Bibbia. Parole che però vengono attribuite agli empi. L’empio non sa vedere il mistero. Ciò che esiste è il consumo di ogni istante, perché gli istanti hanno un termine e bisogna afferrarli prima che essi svaniscano, facendoci sprofondare nel nulla. "La morte non è mai ciò che dà un senso alla vita, e invece è ciò che le toglie significato", scrive J. P. Sartre ne L’essere e il nulla.

Questa potrebbe essere in un certo senso l’epigrafe del nostro secolo. Negare il mistero dell’origine è la caratteristica principale di chi non crede. L’ateismo non è solo negazione del senso di Dio, ma anche, in fondo, negazione dell’uomo, perché rifiutandone la parte misteriosa, lo riduce ad una sagoma piatta, a una forma di estrema limitatezza e povertà. Ed è forse proprio questa estrema limitatezza che esalta l’orgoglio e la presunzione. Si conosce uno spicchio irrisorio della realtà – o dell’essere – e si confonde questo spicchio per la totalità. "Il principio della filosofia è la meraviglia" diceva Aristotele. Ma l’uomo moderno non è più capace di meraviglia ed è questo il segno più grave di una povertà interiore esaltata e sacralizzata dalla banalità del pensiero comune. "Dio è morto e l’uomo è finalmente libero… L’uomo discende dalla scimmia… È il caso che fa accadere le cose… il bene e il male non esistono, sono solo impressioni individuali"… e via avanti di questo seguito: i precotti del pensiero sono ormai essenza stessa indiscutibile della nostra cultura. Ma come si è formata questa anestesia del sentimento della meraviglia? Perché ormai già a sei, sette anni, i bambini hanno l’aria di piccoli saccenti svogliati e scettici, capaci di spiegare tutto, ma totalmente incapaci di provare quel breve sussulto interiore che è lo stupore?

Credo che questa condizione nasca dalla certezza di avere già tutte le risposte, che ogni cosa sia precisa e spiegabile secondo leggi precise di causa ed effetto. Ogni azione provoca una reazione e la reazione, a sua volta, provoca una nuova azione. In questi concatenamenti non c’è spazio per il mistero, non c’è spazio per la sorpresa. Eppure basterebbe osservare una sola giornata di una vita qualsiasi con uno sguardo e con una mente libera, per rendersi conto che tutto è sorpresa e che, molto spesso, l’imprevisto sovverte tutti i piani.

È stata questa la seconda tappa del mio percorso. Lo stupore. Le risposte che ottenevo dal sapere scolastico non mi soddisfacevano affatto. A sette, otto anni ho cominciato a guardarmi intorno e più osservavo, più le domande si affollavano nella mia mente. Camminavo per la strada e vedevo le erbacce rompere l’asfalto, le vedevo crescere e fiorire e gli insetti e le farfalle posarsi sulla corolla. Le guardavo in mezzo alle gambe dei passanti, in mezzo ai tubi di scappamento e mi dicevo: chi dà loro la forza? Questa forza straordinaria che fa rompere l’asfalto? Perché oltre a crescere offrono anche quei minuscoli fiorellini al nostro sguardo? Più osservavo la natura, più mi facevo incantare da tutto ciò che accadeva intorno a me, più gli scheletri si allontanavano, diventavano un ricordo di un’età fragile, un’età in cui non era ancora possibile dedurre le cose da ciò che si manifestava intorno. Lentamente i colori e le forme della natura hanno assorbito la mia sensibilità e la mia intelligenza, allontanando la cupezza delle notti insonni. Ben presto ho avuto un frenetico desiderio di sapere, di conoscere, di classificare. Non provavo alcun interesse verso la poesia, verso i racconti fantastici o verso la letteratura, come si potrebbe immaginare. Le uniche cose che mi appassionavano, in modo ossessivo, erano le forme della natura, la ricchezza dei colori, la varietà dei modi di esistere. Questa varietà e questa ricchezza provocavano – e provocano – in me continui soprassalti di stupore.

Se tutto fosse soltanto una necessità di riempire le nicchie ecologiche, di specie di uccelli, ad esempio ne basterebbero cinque o seicento. E invece ne esistono a migliaia. Migliaia di insettivori, migliaia di granivori, migliaia di rapaci carnivori. La stessa cosa si potrebbe dire per gli insetti, per i mammiferi, per le specie vegetali. Nel nostro universo temperato, noi siamo abituati al grigiore dei colombi, alle livree scure dei merli, a quelle opache dei passeri. Piumaggi adatti al nostro clima e alla nostra vegetazione; forme che nella loro modestia e discrezione, non possono provocare grandi stupori. Ma se scendiamo a contemplare i coloratissimi colibrì o i pappagalli delle zone tropicali, gli uccelli lira, le grandi farfalle amazzoniche, ci rendiamo conto che la prima attitudine del creato è la bellezza e che si tratta di una bellezza segnata dalla gratuità. È questa la fonte di un ininterrotto stupore. Se tutto è causa ed effetto, come si spiega la bellezza? E la varietà di forme con cui questa bellezza si è manifestata? Che tipo di segno è la bellezza? Oltre ad essere gratuita, la bellezza ha un’altra fondamentale caratteristica. Esiste soltanto in virtù della luce. È la luce che fa schiudere i semi e richiama le piante verso l’alto, è la luce che stimola l’ipofisi e mette in moto gli ormoni per favorire, al tempo giusto, l’accoppiamento delle specie. È la luce che rende verde smeraldo il piumaggio del colibrì. Ed è ancora la luce che fa esistere sotto i nostri occhi l’infinita varietà delle cose. "Vi sia luce", dice la Genesi. "E vi fu luce. Dio vide che la luce era buona e separò la luce dalle tenebre". Naturalmente la bellezza – e l’imprevedibilità della vita – sono sempre davanti ai nostri occhi, ma non siamo più capaci di vederle.

Durante l’adolescenza amavo fare lunghe passeggiate solitarie. Mi piaceva andare in montagna o camminare lungo la riva del mare. Mi sembrava allora che quella grandiosità, quell’apertura di orizzonti rimandassero in modo inequivocabile alla grandezza di Colui che aveva creato l’universo. Ma in quella vastità, passato un certo limite, si poteva anche rischiare lo smarrimento. È forse proprio per reazione a questo smarrimento che ho cominciato a volgere lo sguardo al piccolo, anzi al minuscolo. "Guardi questi semi di bieta" dice suor Irene a Walter, nella parte finale di Anima Mundi. "Guardi come sono sgraziati, anzi decisamente brutti. Se uno non sapesse ciò che sono potrebbe addirittura pensare che siano gli escrementi di qualche piccolo roditore. Invece qui, in questi pochi millimetri cubi di materia, c’è tutto. C’è energia raccolta nel progetto di una crescita. Le grandi foglie verdi che a giugno ombreggeranno la terra dell’orto, sono già tutte qua dentro. Molte persone si emozionano davanti ai grandi spazi aperti. Le montagne o il mare. Soltanto così si sentono in comunione con il respiro dell’universo. A me è successo il contrario. Sono le cose piccole a darmi la vertigine dell’infinito".

Esplorando le basi della materia, le tracce chimiche e fisiche della vita, la vertigine dell’infinito appare immediata. Come è possibile che nelle pozze primordiali le prime macromolecole si siano concatenate per caso? Come è possibile che da quelle semplici forme siano nate le doppie eliche di proteine e amminoacidi che hanno formato – e formano – tutte le forme esistenti? La balena ha un suo DNA così come ce l’ha la cavalletta, come ce l’ha il minuscolo filamento del lichene come la quercia. E ce l’ha l’uomo. Ogni uomo ne ha uno che è solo suo. In quel filamento è inscritta la voce dei nonni e il colore degli occhi dei quadrisavoli, l’altezza, la forma delle mani, il talento per la matematica piuttosto che l’inclinazione artistica, il temperamento e la predisposizione alle malattie e molte altre cose che ancora ignoriamo. Il DNA insomma è l’impronta della nostra vita, il libro dentro il quale sono iscritte le strade che potremmo percorrere. Ho detto "potremmo" e non "dovremmo", perché sono convinta che la forma genetica ci dia soltanto un’indicazione della nostra via e che stia a noi, poi, con la nostra coscienza, con la partecipazione della volontà, forgiare questa via nel modo evolutivamente migliore. E come non vedere nella nostra unicità un progetto che ci chiama per nome? E chiamandoci, ci rende portatori – e responsabili – di un mistero?

Questo mistero – posso chiamarlo mistero della vita? – è un mistero anche più grande di quello della morte. Il fatto che noi siamo, che veniamo "chiamati" a esistere, ha una forza che supera e sconfigge la precarietà. Addirittura, viene da dire che se ci siamo, se siamo vivi, in qualche modo la morte non può davvero esistere. Il pensiero corrente tende ad affidare tutto al caso. Ma cos’è il caso? Ciò che accade per caso è ciò che accade senza alcun progetto. Due molecole "per caso" si attraggono, così come due persone si incontrano e "per caso", "per simpatia delle loro molecole", si innamorano. "Per caso" quel loro ovulo e quel loro spermatozoo si incontrano e "per caso" da questo incontro si formerà un altro essere vivente, che "per caso" avrà gli occhi azzurri del nonno e amerà la botanica come il trisavolo. Nel caso tutto avviene per l’associarsi di condizioni fortuite. Non c’è progetto, non c’è scelta, ma un inevitabile aderire a moti casuali che però, cosa strana, si ripetono con assoluta perfezione fin dall’inizio dell’universo. Ora, io sono una persona molto disordinata. Se non applico la volontà in breve lo spazio intorno a me si trasforma in un vero e proprio caos. Lasciando quindi le cose "a caso" per la stanza, inconsapevolmente creo disordine. Per trasformarlo in un ordine ho bisogno di compiere una scelta e un atto di volontà: i libri di zoologia da una parte, le matite colorate dall’altra, le magliette nel cassetto, le giacche nell’armadio. Il caso quindi crea disordine e la volontà crea ordine. E mi pare abbastanza evidente che nell’universo ci sia un certo ordine. In ebraico, la lingua delle Sacre Scritture, la parola "caso" non esiste. Nella lingua italiana "caso" deriva dal verbo "cadere". Ma cadere indica un movimento dall’alto verso il basso, secondo le leggi di natura, e non un movimento orizzontale. Non cado da destra a sinistra, né da est a ovest. "Causa misteriosa e remota degli avvenimenti umani": così Pietro Bembo definiva il caso nel 1500. Misteriosa e remota. Qualcosa dunque che non conosciamo e che ci preesiste. Così che allora "caso" non è che un altro nome del "mistero". Ma un nome che, a differenza di "mistero", quieta le coscienze e fa sentire particolarmente acuti per essersi scrollati di dosso i pregiudizi e le catene che per centinaia di anni hanno tarpato la natura creatrice dell’uomo. Se tutto viene "per caso", che importanza hanno le mie scelte, perché mai mi devo affaticare nella crescita e nello sviluppo delle parti di me migliori? Se siamo buttati "per caso" sul tavolo della vita e "per caso" ne siamo spazzati via, che senso ha l’agire che sta in mezzo? Una vita vissuta "per caso" è una vita sospesa tra la noia e l’angoscia della fine. È una vita solo apparentemente libera, perché la libertà vera è sentirsi liberi dal timore della morte. Non scorgere un aprirsi di successivi orizzonti nell’avanzare della nostra vita porta l’essere umano ad attaccarsi confusamente alle cose meno importanti; tutte quelle cose che almeno momentaneamente, simulano un radicamento: successo, soldi, seduzione, potere. Questi sono i valori dominanti del nostro tempo e molte persone vivono inseguendoli affannosamente. Ma vivere in questa dimensione vuol dire vivere divisi. La divisione non è una strada ma una finta strada, un vicolo cieco. L’uomo diviso dal suo destino di redenzione è un uomo cieco, un uomo che gira intorno ai suoi giorni senza mai giungere alla loro pienezza, e conclude con il sentimento della delusione. Cos’è stata la vita? Una corsa e un affanno continui la cui meta, alla fine, si è rivelata essere il nulla. "Vanità delle vanità, tutto è vanità" (Qohelet 1,2). Ma non è forse una vanità credersi superiori al mistero o ignorarlo?

Questo secolo si è proposto come il secolo della grande liberazione dell’uomo. Per farlo volare alla sua giusta altezza, il cielo è stato svuotato e la terra è stata riempita di paradisi facilmente raggiungibili. Ma un cielo senza Dio è un cielo pronto a popolarsi di idoli. L’idolo delle ideologie, l’idolo del potere e del possesso, l’idolo della realizzazione di sé. E, in tempi più recenti, gli idoli dello spiritualismo, dell’adorazione delle benigne e misteriose forze del cosmo, forze con cui è possibile mettersi in contatto e da cui si è certi di trarre giovamento. Lo spiritualismo riconosce il mistero ma lo addomestica secondo la propria volontà, creando l’illusione della pace interiore, l’illusione della comprensione, l’illusione di una vita superiore e distaccata dalle altre vite. La diffusione ormai di massa delle correnti spiritualiste è un segno importante perché indica una diffusa stanchezza per il materialismo, per le divisioni e per le lotte. Ma si tratta, ancora una volta, di un vicolo cieco, perché consente di credere a tutto l’incredibile attraverso un percorso di piacevoli rituali e positive realizzazioni personali.

Il percorso spirituale ha ben altre asperità, non si accontenta di facili formule né di gratificanti promesse, ma prosegue sempre in salita, sempre lottando contro nuovi ostacoli. Il cammino interiore che conduce alla libertà è il cammino di chi ha il coraggio di alzare lo sguardo verso il cielo e riconoscere la propria debolezza e la propria fragilità; di chi, nella debolezza e nella fragilità, sente il suo nome pronunciato forte e, a questo nome, risponde: "Chi mi chiama? Chi conosce il mio destino?". Allora si scopre che accanto all’Io esiste anche un Tu. E questa è la preghiera. È a questo punto che nasce l’unicità del cammino. Di quel cammino sempre uguale eppure sempre straordinariamente diverso che ci conduce ad esistere nella libertà, nella verità e nella consapevolezza di essere figli di un Padre amoroso.