Una cosa chiamata TV

In collaborazione con il Club Santa Chiara

 

 

 

 

Mercoledì 27, ore 18.30

Relatori: Stefano Balassone, Moderatore:

Giovanni Tantillo, Amministratore Delegato Renato Farina,

Direttore di Rai Uno di Telemontecarlo Vice Direttore de Il Giornale

Giampaolo Sodano,

Direttore di Canale 5

 

 

 

 

Farina: Hans Urs von Balthasar, facendo molto scalpore, aveva dichiarato in un’intervista che la televisione è il diavolo, sconsigliando di guardarla, specialmente ai giovani sacerdoti.

Vogliamo partire da questa provocazione e chiederci se esiste, se abbiamo mai vissuto, una televisione alternativa a questo.

 

 

Tantillo: Questa potrebbe essere la tesi dei pensatori apocalittici più tradizionali, come Popper o von Balthasar . Forse è più corretto dire che il male convive con il bene, la televisione è un insieme di prodotti e di proposte editoriali che fanno i conti con tempi: quando i conti sono fatti dal palco, le persone scendono verso la realtà, verso i bisogni delle persone. Quando invece i conti non sono fatti dal palco, le persone si abituano su se stesse e propongono un prodotto televisivo abbastanza noioso, opaco e lontano dalle persone.

La televisione oggi rispecchia poco e male il momento di crisi del paese, crisi di valori, crisi spirituale e culturale, crisi di sistema politico: bisogna riflettere su questo per cambiare il prodotto editoriale di cui siamo responsabili. In questo modo scendiamo verso la realtà, cerchiamo di rappresentarla, di raccontarla, e forse anche di anticiparla.

 

 

Sodano: Nella cronaca segnata dalla presenza della televisione in questi quarant’anni della storia italiana, vi sono stati dei momenti in cui la televisione è stata specchio del paese, ne ha addirittura anticipato e segnalato le mutazioni, i cambiamenti, i processi. Nello stesso tempo però la televisione in Italia, e non soltanto in Italia, è una rappresentazione del paese avvolta in uno specchio deformato e deformante, è una fotografia di ciò che una società è in quel momento. Se prendiamo la televisione per quello che è, ovvero questo specchio della società nella quale viviamo, possiamo dire che la televisione italiana ha segnalato poco tempo fa quello che stava accadendo nella società italiana, il cambiamento profondo che la società italiana, civile e politica, stava vivendo: una televisione piena di vitalità, di confronto di idee, di contenuti, di valori.

Purtroppo, subito dopo la televisione è ritornata ad essere omologata, vecchia, consumata, noiosa, tutta uguale... se ripercorressimo la storia della televisione vedremmo che questo alternarsi di una televisione viva e vitale che incontra il pubblico e l’altra televisione è una costante.

Oggi viviamo un momento negativo, come ha detto Tantillo, un momento di crisi del paese, della cultura, delle idee dei valori. Il rischio che stiamo correndo è che il televisore proponga una marmellata abbastanza incolore e inodore: una sorta di grande fratello secondo il quale tutto è uguale, pacificatorio, rasserenante, tranquillizzante, senza nessuna diversità di idee. Come era diversa la televisione soltanto qualche anno fa!

Dobbiamo partire da questo riconoscimento delle mutazioni che abbiamo sul teleschermo in casa nostra per capire meglio cosa sta accadendo nel nostro paese oggi e nella nostra società.

 

 

Balassone: Riprendo la provocazione iniziale: credo proprio che la televisione sia il diavolo, un buon diavolo che a volte può fare dei brutti scherzi se lo prendi troppo sul serio. Forse la sua caratteristica più diabolica sta proprio nel fatto di manifestare una forza e una efficacia comunicativa che non corrispondono alla sua sostanza. Con questo voglio dire che la televisione ha fatto molto per riciclare quello che c’era già in giro, ma che difficilmente ha mai preso corpo un progetto di forte falsificazione comunicativa, realizzato da una cricca di potenti ed esercitato attraverso la televisione sulle popolazioni ignare e ingenue.

A volte qualcuno ha pensato che fosse importante fare un progetto di questo genere, ma alla prova dei fatti ha scoperto che esso può essere fatto soltanto in alcune maniere precise e limitate. Se qualcuno avesse pensato di poter applicare lo schema lineare della convinzione e della persuasione di massa alla televisione, pensando dunque di convincere attraverso il mezzo televisivo chiunque si voglia, ha preso e continuerà a prendere delle cocenti delusioni. Questo perché la natura intima della televisione è quella di essere il mezzo della disattenzione di chi la consuma, è il mezzo per catturare l’attenzione, non per trattenerla. La televisione, come sua intrinseca natura – non so se questo sia diabolico o meno – , è capace ed abile nel lanciare delle urla, urla che svegliano per un attimo. Se cerca di rendere coscientemente partecipe l’individuo del motivo di queste urla, il diavolo se ne deve andare con la coda tra le gambe.

La televisione può avere anche dei momenti felici: ad esempio, dentro la televisione – e dunque dentro casa – possono talora arrivare affermazioni o opinioni che feriscono il senso comune, lo mettono in discussione provocando un effetto di estraniamento rispetto alla serena certezza di aver capito tutto. Questo non può accadere in tutti i momenti, perché è un processo di ferita, di rottura del senso comune. Non ci si deve meravigliare se la televisione non riesce a conservare permanentemente questo elemento di felice provocazione.

Oggi questo non sta accadendo perché la televisione è il frutto di chi la finanzia. Alle radici della televisione italiana, c’è in realtà un unico finanziamento che è quello pubblicitario. Il canone è infatti sostanzialmente ininfluente dal punto di vista dell’elaborazione di linguaggio e di materiale comunicativo, perché il canone esiste, ma è solo un pezzo del sistema. Di conseguenza il motore del sistema televisione è la pubblicità. La pubblicità non è una risorsa neutra, non a caso la pubblicità è la risorsa erogata da qualcuno che vuole comunicare, quindi è di per sé, per sua natura, una risorsa che comporta automaticamente una linea editoriale.

Questo è un fortissimo fattore di diabolicità tipicamente italiana: in Europa infatti siamo gli unici ad avere questa omogeneità diabolica del sistema televisivo.

 

 

Farina: Se la televisione è il diavolo, come affermava Balassone, adesso si manifesta come totale omogeneizzazione, come affermava Sodano: è un elettrodomestico che somiglia a un frullatore, fornisce prodotti che neanche stimolano l’attenzione, neanche per un istante, che ci aiutano a dormire o ad accettare quello che capita come se non ci fosse nulla che possa cambiare le cose.

La televisione rispetto ad alcuni anni fa è molto meno importante: è diventata uno dei tanti fattori della comunicazione. Forse per questo è diventata un piccolo diavolo: è diventata un piccolo diavolo proprio nel momento in cui ha vinto. Lo sguardo della televisione che ci separa dalla realtà è diventato così vincente che non abbiamo neanche più bisogno della televisione per vivere in modo virtuale, per rapportarci con la realtà senza autentica curiosità.

La mia proposta di radicale riforma – riprendendo quanto diceva, con intento paradossale, Pasolini nel 1975 – è questa: rendere la televisione partitica, culturalmente pluralistica. È l’unico modo perché essa perda il suo orrendo valore carismatico, la sua intollerabile ufficialità: si tratterebbe semplicemente di codificare e di portare alla luce del sole una situazione di fatto, rendendola così democratica.

 

 

Tantillo: La televisione è fatta bene o male, ma comunque risponde a esigenze e bisogni precisi.

In questo momento – è stato da tutti detto – la televisione offre un panorama abbastanza opaco. Rispetto anche a qualche anno fa, la televisione si ripete, si copia, copia l’estero, e d’altro canto anche all’estero le cose non vanno meglio che da noi. L’attenzione deve dunque rivolgersi al ridimensionamento dell’attenzione verso la televisione.

La televisione non è più un fattore determinante sulle nostre scelte: nonostante questo, la televisione continua ad attirare su di sé una valanga di critiche antiche, che parlano di televisione violenta, brutta, sciatta e attribuiscono alla televisione fatti criminali. Ma quando si dice che la televisione è violenta per i bambini, bisogna distinguere due livelli: i contenuti della televisione devono certamente essere attenti ai bambini, ma d’altro canto un bambino recupera e ripropone la violenza quando vive in un ambiente violento. Se un messaggio violento arriva in un ambiente violento, ha chiaramente un effetto devastante. Per questo non si distinguono i due livelli e si dice in modo indiscriminato che la televisione è violenta: dietro questo c’è un’immagine antica della televisione, un’immagine pedagogica. La televisione pedagogica è quella che avrebbe dovuto insegnare a senso unico.

Nel ‘75, quando Pasolini lanciava le sue provocazioni, la televisione era monolitica, nasceva dalle esperienze storiche degli anni ‘60: da quel momento in poi la televisione ebbe uno scatto di fantasia, come quello che ci vorrebbe ancora oggi, lo scatto di diversificarsi su linee editoriali diverse. Abbiamo avuto periodi di ritorno di opacità e di vivacità: nel paese come nella televisione, ed infatti la televisione deve aiutare a capire il paese. Oggi abbiamo bisogno di una televisione che guardi nel paese quello di cui ha bisogno la gente.

 

 

Sodano: Pasolini, con il realismo e l’umiltà tipici delle persone intelligenti, aveva compreso che la legge 103 del 1975, la legge di riforma della Rai, rompeva il monopolio non solo dal punto di vista istituzionale, ma anche dal punto di vista della cultura. Nasceva il pluralismo nella Rai, nasceva l’azienda concessionaria di un pubblico servizio, una azienda non dipendente dall’esecutivo ma dal Parlamento. Il Parlamento si sarebbe rappresentato attraverso la legge che segna e differenzia le reti, i direttori nominati secondo l’area politica e culturale disegnata e premessa nella legge: questa legge porta agli anni che io considero d’oro del servizio pubblico, quando una rete è democratico-cristiana, una socialista, una comunista. È il momento di vitalità dell’azienda, di vitalità di proposte per gli spettatori, di capacità di esprimere e di rappresentare ciò che succede nel paese.

In seguito siamo ritornati al monopolio sotto forme diverse, adeguate ai tempi: nasce la legge Maccanico, che disegna un sistema non più lottizzato ma che attraverso la garanzia del finanziamento della Rai e il contratto di servizio che lega la Rai allo Stato, trasforma l’azienda concessionaria di pubblico servizio in televisione di Stato. Il resto lo fa il sistema politico elettorale, non più un sistema proporzionale, che rappresenta tutte le opzioni, anche quelle minoritarie, ma un sistema bipolare, una sorta di camicia di forza sulla varietà del paese. Lo schieramento che vince governa, chi governa fa la televisione di Stato.

Se nasce la televisione di Stato, come esplicitamente o ipocritamente succede nel nostro paese, dipende dall’esecutivo: non è pensabile che vi sia una sola televisione commerciale e che questa televisione commerciale sia appannaggio dell’opposizione. Sarebbe un sistema troppo stretto: il problema diventa quindi quello di una trasformazione delle televisioni private, coniugando nuove tecnologie e nuove possibilità per trasformare la televisione commerciale in televisione indipendente. Questo significa: lo sfruttamento del satellite e del cavo per un offerta più variegata al pubblico dei telespettatori; la trasparenza delle aziende del loro azionariato; la indipendenza dal potere politico ed economico; la possibilità di un azionariato diffuso e quindi di un intervento del capitale finanziario attraverso la Borsa. Si tratta di un panorama diverso da quello che abbiamo vissuto nella prima fase del monopolio – dal ‘55 al ‘75 – e nella fase della prima repubblica, i venti anni dal ‘75 al ‘95.

Quello che è nato non è ancora la televisione della seconda repubblica: non si capisce bene cosa sia la televisione odierna. Quella nuova che ci auguriamo nasca, qualunque essa sia, non potrà che avere un sistema televisivo diverso da quello che abbiamo conosciuto. E i soggetti del sistema televisivo – sia il soggetto televisione di Stato sia il soggetto televisione privata – avranno caratteristiche e contenuti diversi. C’è però un tentativo di contrastare questo processo, il tentativo che è in corso, una sorta di dialettica delle forze. È per questo che guardando la televisione capiamo in che società stiamo vivendo, cosa c’è intorno a noi e quali sono le possibili strade che ci si aprono davanti. Le strade sono due: da una parte un sistema televisivo moderno, in cui le diverse opzioni culturali e politiche che ci sono nel paese si esprimano in un modo diverso da come si espressero i partiti, dall’altra un sistema televisivo che risponda alla necessità di normalizzazione di quei poteri politici ed economici che vogliono un paese normale.

Mi sembra chiaro che quest’ultima strada sarebbe la morte del sistema televisivo italiano: l’unica strada delle due, se non vogliamo finire in un sistema televisivo governato da un unico regime, è quello della televisione indipendente che sa guadagnarsi il proprio posto sul terreno, non solo attraverso un generico appello ai contenuti, ai valori, che pure sono cose importanti, ma attraverso il rapporto con gli investitori, con l’azionariato, con i proprietari. Credo che questa sia la battaglia per la riforma della Rai, una battaglia politica e culturale perché si affermi nel nostro paese una dialettica chiara e trasparente tra la televisione di stato, dipendente dal potere politico, e le televisioni indipendenti.

 

 

Balassone: La qualità del sistema televisivo non è un problema di disponibilità di valori, ma di capacità, di dialettica interna, di pluralismo, di variegata rappresentazione di quel che c’è da parte del sistema televisivo stesso. Il bene è la dialettica e il conflitto tra i valori, il male è l’appiattimento e l’omogeneità.

È vero – come è emerso da più parti nel corso di questo dibattito – che c’è una situazione di omogeneità: però questo deriva dal sostanziale appiattimento di tutti gli agenti televisivi sulle stesse fonti di reddito, ovvero dal fatto che condividono tutti lo stesso apparato motivazionale di tipo imprenditoriale. Stante questa premessa, gli agenti televisivi, chi fa la televisione, non possono altro che comportarsi tutti nella stessa maniera. Se si vuole uscire dall’omogeneizzazione bisogna cominciare a uscire da una sorta di complicità che c’è all’interno del sistema; purtroppo fino ad oggi una forte maggioranza, non di governo ma trasversale all’area di governo e all’area di opposizione, si è palesemente opposta ad un azione di sparpagliamento, si è arroccata tenacemente mettendo insieme tutti i corporativismi presenti nel sistema per tenere tutto così com’è con le sue contraddizioni interne paralizzanti.

Il compito della politica sarebbe di agire nel suo ambito di dominio, che è quello delle regole, in maniera da consentire poi agli imprenditori, in questo caso agli imprenditori televisivi, di sviluppare la loro creatività a partire da quelle regole. Ma se la prima regola materiale del sistema, la presenza dominante pubblica di carattere commerciale non viene toccata, cosa devono fare gli altri imprenditori? Non bisogna certo smantellare la Rai, ma liberalizzare, rendere più agile il sistema, togliendo alla Rai le sue mille contraddizioni.

Non è un orizzonte penitenziale per la televisione: è semmai una liberazione dello sviluppo della televisione rispetto al semplice mantenimento di quel che c’è.

 

 

Sodano: La pubblicità è il volano essenziale di un sistema della comunicazione realmente democratico e garantito: nessuna impresa editoriale, sia di carta stampata che televisiva, può avere il conto economico in attivo se privato della risorsa della pubblicità. La condizione dei conti economici in attivo è la salute di quel volano finanziario che viene dalla comunicazione pubblicitaria. Le due possibili deviazioni di questa salute finanziaria sono due forme di dipendenza: il dipendere o dal potere economico e quindi dal finanziamento pubblicitario, o dal finanziamento dello Stato. Queste deformazioni portano alla morte della dialettica nella comunicazione, nell’editoria, nella televisione: portano al regime.

 

 

Balassone: Questa giusta insistenza sul fattore pubblicitario ci permette di capire il condizionamento del fattore pubblicitario stesso sulla televisione. Anche rispetto a questo problema non bisogna demonizzare o estremizzare: nessun pubblicitario perde il suo tempo a definire i contenuti ideologici, politici e culturali del programma al cui interno pone la pubblicità che gli interessa. Di sicuro però pretende con assoluta precisione che il programma catturi l’attenzione del pubblico a cui si rivolge per vendere certi precisi prodotti.

Per questo non capisco quale possa essere la cosiddetta indipendenza di chi fa la televisione rispetto a questa richiesta non ideologica, non culturale, ma commerciale, la giusta richiesta di centrare l’obiettivo che il pubblicitario chiede al programma. Non capisco quale possa essere l’indipendenza per una televisione commerciale: la soluzione del problema non sta in esercizi di body-building intellettuale di chi fa la televisione per meglio contrapporsi a chi fa la pubblicità, ma di lavorare a livello di assetto di sistema in maniera che non ci sia soltanto questo tipo di televisione, orientata in base alla necessità perfettamente legittima di chi investe della pubblicità. È il sistema che deve avere delle componenti variamente radicate e quindi con variate potenzialità espressive. In questo senso c’è la responsabilità della politica e della progettazione.

Se dunque il sistema televisivo è destinato a cambiare, possiamo chiederci quali saranno i tempi e le modalità di questo cambiamento. In Italia e all’estero già molto è cambiato, e cambierà ancora di più: cambierà tutto rispetto alla televisione mitica. Sicuramente questo cambiamento sta avvenendo e avverrà in Italia molto più lentamente che nel resto del mondo, per il modo arretrato in cui la televisione è fatta ed organizzata. Mentre in tutto il resto del mondo si è ormai affermata come una banalità il possesso di televisioni, perché ce ne sono tante e di diversi tipi, in Italia questo passo non è ancora stato fatto.

 

 

Tantillo: La trasformazione necessiterà ancora di un ventennio, perché in Italia c’è una sorta di primato del possesso delle reti nazionali via terra, che peraltro sono piuttosto numerose. Per catturare, saturandolo, il vecchio mercato, i prodotti fondamentali che dovrebbero decollare, sbattere le ali alla televisione sono tutti imprigionati nella vecchia televisione. La televisione "in chiaro", tradizionale, non ha prodotti sostanzialmente diversi rispetto a quelli che ha o che potrebbe avere la televisione via cavo o via satellite.

Per concludere, vorrei chiarire ulteriormente il rapporto tra la televisione e la pubblicità, che è un nodo decisivo per capire di cosa stiamo parlando. La pubblicità in Italia dà al sistema televisivo – all’azienda Rai, a Mediaset, a TMC, alle 600 circa televisioni locali che ci sono nel nostro paese, a Telepiù... – circa 7-8 mila miliardi l’anno. Questi 7-8 mila miliardi sono il volano necessario a far camminare la macchina, sono come la benzina. Se non ci fossero questi miliardi, in Italia noi avremmo una sola rete televisiva, dello Stato, pagata dai contribuenti, che darebbe della società italiana la rappresentazione che riesce a dare una unica rete televisiva o un solo giornale quotidiano.

La possibilità di una rappresentazione pluralista è la base su cui poggia un sistema democratico editoriale. Il rapporto tra la televisione commerciale e la pubblicità diventa distorto quando la televisione dipende da questa risorsa, e questo avviene quando le aziende non sono sane, quando il loro equilibrio di gestione, il loro finanziamento dipende esclusivamente dal finanziamento della pubblicità. Quando io affermo che è possibile pensare oggi a un sistema moderno, competitivo con la televisione dello Stato, penso a una televisione che certamente si finanzia attraverso l’investimento pubblicitario, ma si finanzia anche attraverso gli investimenti di Borsa, attraverso un azionariato diffuso, attraverso cioè un rapporto per cui il conto economico dell’azienda è tale dal punto di vista dei profitti che espone da non essere in una condizione di dipendenza.

Un’azienda forte, credibile, che ha un conto economico sano, che ha una gestione trasparente, non è un’azienda dipendente dal mercato; è un’azienda che offre i suoi prodotti, e che gli investitori scelgono, prodotto per prodotto, programma per programma, a seconda del target. La capacità del management dell’azienda è di corrispondere, ovvero di vendere il prodotto per le potenzialità che il prodotto ha, non certo di fare il prodotto sulla base delle esigenze degli investitori pubblicitari.