Sotto una manciata di panda, due o tre tigri bianche e molte tonnellate di balene, svariati chilometri cubi di foresta e qualche milione di parole sull’ordine mondiale, c’è ancora, insabbiata una vecchia pratica che ha due o tre titoli noiosi: "Lo scambio ineguale", "Il neocolonialismo", "Sviluppo e sottosviluppo"

Mercoledì 26, ore 17

Incontro con:

Franco Reviglio

Filippo Maria Pandolfi

Moderatore:

Giorgio Vittadini

Vittadini: Il dibattito di oggi vuole riportare l’attenzione su uno dei temi più cruciali di quest’epoca: il rapporto Nord-Sud, il problema del rapporto con l’America (messa in termini simbolici) come il rapporto del mondo sviluppato col mondo non sviluppato, un tema, quello della grande economia internazionale, che, pur essendo drammatico, è poco trattato. Siamo così sommersi da problemi di piccolo cabotaggio e dell’ordinario da non pensare a qualcosa che è altrettanto quotidiano ma forse non visto. Noi non possiamo non parlare di questo. Sarebbero meno veri gli ideali in cui crediamo se non parlassimo anche di questo.

Franco Reviglio, Ministro del Bilancio.

Reviglio: Negli ultimi 40 anni il mondo ha conosciuto uno sviluppo economico come mai ha avuto prima nella storia. Il prodotto per addetto è praticamente quadruplicato in termini reali, quasi un quinto della popolazione mondiale ha visto aumentare il proprio benessere e il proprio livello di reddito come mai era avvenuto prima. Le poche statistiche sui primi 40 anni di questo secolo indicano che per i paesi industriali l’aumento del prodotto era stato inferiore al 100%. Noi abbiamo avuto un aumento del 400% al netto dell’inflazione. Io credo che gli storici del futuro denomineranno questo periodo storico come una sorte di età dell’oro.

Due osservazioni: si è concluso in questo periodo quel processo politico che ha avuto inizio circa un secolo fa nei paesi industrializzati per ridurre la diseguaglianza di potere e di ricchezza tra ceti proprietari e ceti proletari. La grande questione politica dell’ultimo secolo è stata sostanzialmente affrontata attraverso questo processo di crescita economica grazie agli strumenti del suffragio universale, cioè grazie alle istituzioni democratiche. Le masse di diseredati poveri e proletari sono riuscite a conquistare dei traguardi importanti e nella distribuzione del potere e nella distribuzione del reddito, tant’è che oggi il problema distributivo, che pure esiste anche nelle società ricche, non è più un problema politico di prima grandezza. Le rivoluzioni, le riforme, i movimenti sociali hanno prodotto un sostanziale cambiamento. L’economia ha fatto la sua parte. Negli ultimi 40 anni i redditi per persona sono quadruplicati, con uno sviluppo che non ha eguali. Questo sviluppo economico così straordinario ha lasciato irrisolti alcuni problemi di fondo e ne ha aperti di nuovi. Il primo è quello dei quattro quinti della popolazione che non ha partecipato a questa crescita. Le differenze tra Nord e Sud sono cresciute in maniera drammatica anche perché l’appropriazione di risorse non rinnovabili da parte dell’economia è diventata così massiccia che non si può più immaginare oggi di poter avere nei prossimi 30-40 anni la stessa crescita per la popolazione del terzo mondo usando criteri di produzione passati, cioè utilizzando ancora delle risorse in parte non recuperabili (si pensi ai combustibili fossili).

Come affrontare quella che io considero la prima grande questione politica del prossimo secolo? Come nel 1880 si è posta per la prima volta la questione politica distributiva nella Germania di Bismark che con le assicurazioni sociali ha cominciato i primi tentativi paternalisti di affrontare il problema distributivo interno ai paesi industriali, così oggi noi ci troviamo di fronte a questo terrificante problema della diversità distributiva tra paesi ricchi e paesi poveri in una situazione in cui l’andamento demografico peggiora quotidianamente questa discriminazione. Noi abbiamo un andamento demografico crescente che porterà al raddoppio della popolazione del pianeta da 5 a 10 miliardi entro il secolo prossimo. E’ una questione non solo di solidarietà umana, ma anche di sicurezza. Queste masse di uomini senza speranza diventano facili prede di movimenti integralisti che vedono nella forza l’unica via per uscire dalla situazione a livello di sussistenza in cui si trovano: la vicenda albanese, quella algerina, la guerra irachena, sono tutti segnali di esplosione di questo nuovo dualismo politico Nord-Sud che rappresenta la grande sfida della nostra generazione che tocca la sicurezza e la stessa esistenza del pianeta.

Quali strumenti abbiamo a disposizione per affrontare questo nuovo dualismo politico? Non abbiamo istituzioni adeguate; sia l’America sia l’Europa mostrano una grandissima carenza di leadership. Io credo che occorrano istituzioni diverse dal passato e non possono che essere istituzioni sovranazionali. I primi segni di governo dell’ONU sono incoraggianti perché vanno in quella direzione, ma sono solo timidi segnali perché nei grandi paesi democratici non c’è nella coscienza collettiva una disponibilità a sacrificare i propri livelli di vita per consentire la crescita degli altri paesi. Per risolvere questo dualismo politico occorre avere lungimiranza, guardare gli effetti in un periodo abbastanza lungo, mentre invece il mercato politico è regolato da tempi brevi, ma a forza di tempi brevi si fanno i tempi lunghi e poi si trovano fenomeni irreversibili. Io credo che ci sia bisogno di una riflessione per modificare le valutazioni della gente, perché il mercato del voto è dominato da persone che sono esseri pensanti e queste persone devono acquisire le valutazioni di medio e lungo periodo che portano a considerare gli effetti futuri delle proprie decisioni, gli effetti che vanno sui propri figli, sui propri nipoti e quindi mutare i temi del mercato del voto, perché io non credo che si sia inventato un sistema migliore di quello democratico. Se la democrazia dà dei risultati miopi, dipende dal fatto che gli elettori hanno delle visioni miopi e le hanno naturalmente anche gli uomini politici, perché uno dei compiti degli uomini politici è quello di spiegare ai loro elettori che occorre essere lungimiranti. C’è una responsabilità della classe dirigente dei paesi industriali; gli Stati Uniti devono assumersi una leadership rispetto a questi problemi e l’Europa non deve più nascondersi dietro un ombrello americano che non c’è più. Dobbiamo prenderci le nostre responsabilità nell’area del Mediterraneo in particolare e nei confronti di un altro Sud che si chiama Est. Lungimiranza su questo piano significa anche scelte politiche coraggiose, se si vogliono meno immigrati. Occorre aprire le frontiere alle importazioni di questi paesi, ma ciò significa però causare delle crisi economiche di medio periodo. Io vedo con timore una chiusura dell’Europa in se stessa, verso i problemi interni che pure sono importanti e un certo egoismo nazionale. Soltanto un’Europa forte e unita può affrontare il suo ruolo di leadership nei confronti di questo dualismo politico e sotto l’aspetto economico e sotto l’aspetto politico.

Filippo Maria Pandolfi, Vice-Presidente della Commissione delle Comunità Europee, responsabile in particolare della scienza ricerca e sviluppo tecnologico, delle telecomunicazioni, industrie dell’informazione e innovazione e del Centro Comune di Ricerca.

Pandolfi: Nel 1989 è cambiato il mondo, ma non siamo stati ancora capaci di percepire la portata del cambiamento e di immettere quel tanto di fantasia creativa che antropologicamente, prima ancora che economicamente e politicamente, è necessario immettere nel sistema perché i problemi non si aggravino, ma trovino al contrario risposta. Di fronte a una crisi cruciale della società liberale vorrei leggere alcune frasi di uno scritto recentissimo di uno dei maggiori teorici della dottrina della società liberale Ralf Darendorf: "Una cosa è evidente. La democrazia politica e l’economia di mercato sono progetti freddi, sono invenzioni colte di menti e di comunità illuminate, ma non toccano il cuore e d’altra parte non sono fatte per quello. Sono dei meccanismi adatti a risolvere i problemi delineati per rendere possibile il cambiamento di preferenza di politiche e di vertici senza spargimento di sangue o senza indebito dolore; per questo aspetto sono veramente ingegnosi e giustamente apprezzati. Ma democrazia politica ed economia di mercato non sono focolari. Essi non forniscono un senso di appartenenza e di identità ed è in questo senso che essi lasciano la gente fuori al freddo, bisognosa di un qualche riparo. Democrazia ed economia di mercato sono importanti, ma non sono tutto ciò che importa (...). Noi dobbiamo mettere, al posto di una società liberale come siamo stati abituati a concepirla, come miscela di democrazia politica ed economia di mercato, la società civile, ma ridefinita perché il termine è anche abbastanza logoro". Qui la società civile è esattamente la società dell’identità e dell’appartenenza. Ma per mettere insieme questa società dell’identità e della appartenenza che può completare e la democrazia politica e l’economia di mercato, la chiave è in ciò che lui chiama con parola chiave: Association, l’associazione, lo stare insieme. E’ questo che fornisce il legame che manca ad una pura democrazia politica, ad una pura economia di mercato. La società civile vista in sé può dare una fuorviante impressione di unità, invece la società civile è un caos creativo, una molteplicità di forme e di associazioni che si sovrappongono, che hanno ciascuna una sua ragion d’essere, spesso una propria storia, un proprio simbolo, propri specifici modi di vivere e di agire. Questa è la grandissima questione che si pone oggi come precondizione per affrontare questi problemi Nord-Sud ed Ovest-Est: bisogna passare dai progetti freddi ai progetti vivi, caldi e percepiti come tali.

Ma vogliamo fermarci un secondo sulla questione di Maastrich. Parto dall’osservazione che un conto è avere il consenso dei governi e un conto è avere il consenso e la fiducia della larga pubblica opinione (ed è qui una delle grandissime questioni del dopo 1989. E’ la questione che tocca gli Stati Uniti di America dove la politica estera non paga più, è la questione che tocca un paese come l’Italia dove a livello locale o regionale si vive un certo fastidio per tutto quello che è il prodotto delle sovrastrutture nazionali, del sistema dei partiti. E’ la questione che percorre tanti altri paesi europei. E’ la questione, tra l’altro, che si esprime con alcune inquietudini striscianti e forse anche con alcune percepibili angosce. L’angoscia ad esempio per una recessione che non si vede esattissimamente negli indicatori econometrici, ma che si percepisce come una realtà. Ci sono elementi strutturali che vanno al di là di una congiuntura difficile. Penso ad esempio alle tecnologie avanzate dell’informatica che hanno una offerta che si rinnova e si allarga ad un ritmo impressionantemente celere a cui non riesce a tenere dietro una espansione parallela della domanda). C’è una inquietudine diffusa sulla capacità di questa Europa comunitaria di far fronte ai problemi nuovi che si pongono. Forse a livello europeo siamo andati avanti troppo a pensare che grandi obiettivi come quelli del mercato unico o dell’unione economica e monetaria bastassero a smuovere le coscienze. Oggi l’Europa presenta una immagine di paralisi e di cacofonia nel senso dello stridore delle voci diverse che non si compongono. Maastrich è fatto di due elementi, il completamento dei trattati in vista dell’unione economica e monetaria e l’unione politica che dovrebbe essere la risposta a quella che, secondo me, è la nuova e probabilmente prevalente ragione d’essere della comunità e dell’unione europea in questo decennio e nei decenni a venire e cioè la nostra responsabilità continentale. La risposta è quanto mai debole, incerta. Si parla ad esempio della politica comune di difesa, ma in termini ambigui e reticenti. Pensate che si dice: la politica estera della sicurezza comune include una politica comune di difesa che potrà eventualmente sfociare a termine in una difesa comune. E questo mentre a Sarajevo si muore. Questa è l’ambiguità di Maastrich, la sua simmetria che non deve spingerci a rifiutare Maastrich, ma al contrario a reinterpretarlo e a rafforzarlo, ma probabilmente attraverso un processo che non è un processo di cancellerie. Alla radice c’è per paesi a democrazia politica e ad economia di mercato la necessità vitale di stabilire legami nuovi che diano un senso nuovo alla interdipendenza, intesa come una connotazione ontologica dell’essere, e dall’altra parte che faccia discendere dall’interdipendenza anche il sentimento della solidarietà che in qualche maniera è la virtù morale che corrisponde alla condizione ontologica della interdipendenza. Abbiamo messo in piedi le istituzioni della interdipendenza, ma probabilmente il processo di conversione degli animi è più laborioso e più difficile, non bastano più le istituzioni, occorre che al servizio delle istituzioni ci sia un uomo nuovo.